Spesso si sente dire che il movimento animalista non è unito e che a ciò deve essenzialmente i propri insuccessi. Ora, l’auspicio a una concreta collaborazione tra protezionisti e liberazionisti è destinato a cadere nel vuoto per motivi superiori alla volontà degli attori a cui si rivolge e che attengono alle differenze di qualità su cui ci siamo dilungati. Il liberazionismo opera (o dovrebbe operare con un’altra efficienza, ma questo è un altro discorso) su un piano che non solo è diverso da quello del protezionismo, ma deve esserlo perché esprime aspirazioni non riconducibili al welfarismo animalista. Una cosa significa proteggere gli animali e cercare di ridurre la loro sofferenza in una società che li riduce a “cose” anziché a esseri sensibili; un’altra significa combattere per il principio radicale della libertà negata.
Il protezionismo deve tentare di salvare il salvabile pur sapendo che può ottenere soltanto risultati minimi. Ma per ottenere quel poco, deve riconoscere le istituzioni con le quali entra in relazione. Il liberazionismo è portatore di principi non negoziabili. Poiché il suo interlocutore – la società specista – non accetta questi principi, è dubbio che esso possa instaurare qualche rapporto con le istituzioni. Il protezionista opera in una società zoofoba e sa che può strappare soltanto dei risultati molto parziali in una logica vagamente riformista. Il liberazionista, invece, esprime una mutazione genetica del pensiero filosofico e abbandona un atteggiamento generico – l’amore per gli animali – perseguendo una rivoluzione incarnata in una nuova visione della civiltà. Insomma, tra protezionisti e liberazionisti si stabilisce una differenza di ruolo che non può portare a unione di intenti. Il nodo della questione può essere espresso con precisione per mezzo di due proposizioni fondamentali:
1. Il ruolo del protezionismo consiste nel negoziare le condizioni di vita degli animali nella società che non riconosce loro alcun diritto. Dunque, se il protezionismo enunciasse principi non negoziabili, non potrebbe poi negoziare senza perdere la faccia.
2. Il ruolo del liberazionismo consiste nel tradurre nella società l’idea non negoziabile di inviolabilità dell’animale non umano da parte dell’animale umano. Dunque, se il liberazionismo accettasse risultati parziali dopo aver enunciato principi non negoziabili, di fatto li sconfesserebbe perdendo credibilità.
A questo punto è inevitabile un’obiezione. Si può ritenere condizione normale quella in cui una forza politico-sociale si impegni per la realizzazione di principi non negoziabili agendo, nel contempo, in termini riformisti. Il ragionamento è piuttosto controverso, ma per sgombrare il campo dall’ostacolo, diamolo per scontato. Prendiamo perciò in esame alcune dichiarazioni tipiche che trovano grande spazio nei sistemi democratici: la ricerca di maggiore giustizia sociale, di pace nel mondo, di un ambiente a misura d’umano. Si può sostenere senza temere di essere contraddetti che si tratta di aspetti condivisi da tutti gli attori politici. Anche se la maggioranza di loro nella pratica li contrasta, pubblicamente è costretta a ammetterli. Infatti tali valori sono a tutt’oggi scolpiti nelle tavole normative delle società moderne, e non potrebbero essere smentiti senza grave danno per chi si esponesse a confutarli. Perciò le politiche moderate e conservatrici (e talvolta persino quelle reazionarie) giocheranno sul fattore tempo per proiettare in un futuro indistinto tali obiettivi. Poichè giustizia sociale, pace, ambiente sono obiettivi “materiali”, cioè traguardi che richiedono tempo e risorse, sarà fin troppo facile rimandare sine die la loro piena attuazione accampando ogni sorta di giustificazione e sostenendo soltanto la possibilità di una saggia politica di perseguimento graduale delle mete condivise. Poiché il contrattualismo tra governati e governanti si basa sulle dichiarazione di intenti (altro non sono i programmi elettorali dai quali prende il via la costituzione dei parlamenti e dei governi), ne consegue che il gioco è in grado di paralizzare le genuine aspirazioni dei governati che anelano agli storici traguardi.
Invece, il riconoscimento di diritti non può essere stabilito per gradi, soprattutto se si tratta del diritto alla vita, alla liberazione dalla tortura, al riconoscimento della sensibilità. Se uno Stato non riconoscesse questi diritti fondamentali a una classe di umani marcati da qualche segno diacritico, chi li ritenesse imprescrittibili dovrebbe (sarebbe moralmente obbligato a) attuare pratiche di resistenza non soltanto passiva. Ora, chi ritiene che gli animali abbiano diritti fondamentali si trova nella scomoda condizione di dover riconsiderare la propria fedeltà alle istituzioni e allo stesso ordine democratico. Ecco perché il liberazionista, una volta giunto a conclusioni contrassegnate da una radicalità che non ha corrispondenza entro la società degli umani, si trova imprigionato entro la necessità di dare luogo a una prassi innovativa incommensurabile rispetto a tutte le altre che trovano collocazione nei regimi democratici.
D’altra parte sarebbe sicuramente meglio per gli animali, poter disporre di un “welfare” che attenui il loro triste destino. Di qui il ruolo del protezionismo associazionista. Meglio essere scuoiati da morti che da vivi, sicuramente. Ma si comprende come la singolarità della condizione animale non consenta quello sdoppiamento di comportamenti nello stesso soggetto che sarebbe esiziale per una effettiva crescita del movimento. Non sarebbe credibile una forza che chiedesse in una società schiavista l’abolizione della schiavitù e contemporaneamente contrattasse i tempi di lavoro e l’abbondanza del pasto per gli schiavi. Di fatto, qualora negoziasse le modalità di detenzione, sancirebbe la legittimità della schiavitù.
Le due componenti dell’animalismo dovrebbero perciò sviluppare prassi sociale, ma si comprenderà come tali pratiche debbano essere diverse tra loro. La prassi liberazionista, a differenza dell’altra, è condizionata da un’idealità forte che discende da una profonda consapevolezza della distanza esistente tra la sua etica avanzata e quella limitata dello specismo. Dunque, la differenza di ruolo che deriva dai due criteri enunciati è assoluta[1]. Contraddire tali enunciati significa introdurre una confusione di tali dimensioni da vanificare l’azione degli uni e degli altri.
Ciò detto, l’auspicio iniziale avrebbe un altro senso se intendesse richiedere una ricomposizione organizzativa e programmatica dei gruppi all’interno di ogni area di cui ci sarebbe sicuramente bisogno. Il protezionismo, nel suo insieme, potrebbe ottenere molto di più se riuscisse a svolgere quell’azione di lobby che, per esempio, i cacciatori sono in grado di esercitare sulle istituzioni centrali e periferiche del Paese, ma presupporrebbe un coordinamento tra le associazioni oggi inesistente. Per loro natura, le associazioni protezioniste non potrebbero fare altro che reclamare interventi parziali e migliorativi ben lontani da prefigurare la liberazione dell’animale dallo statuto succube che la società specista intende mantenere. Però, con la loro azione organizzata contribuirebbero a formare quella cultura del rispetto capace di rendere più accettabile la prassi del liberazionismo. Per usare una metafora, creerebbero l’acqua entro cui nuoterebbero i pesci liberazionisti. Un discorso analogo vale anche per questi ultimi i quali, per le loro divisioni interne, sono altrettanto incapaci a immaginarsi organizzati su un programma anche di breve termine. Anche il liberazionismo è composto di frammenti difficilmente componibili. Perciò, anche per questi animalisti radicali e combattivi sarebbe auspicabile una riorganizzazione interna. Una volta che ciò avvenisse, l’animalismo disporrebbe di due importanti strumenti sottoposti a tre regole sott’intese ma chiare:
1)
Separazione netta tra i due ambienti.
La
posizione di apertura verso le istituzioni dei protezionisti e quella
di chiusura dei liberazionisti non consentirebbe confusioni di ruolo.
La separazione servirebbe per evitare di creare danni relazionali ai
primi e/o scadimento dell’attività dei secondi; la
divisione rigorosa dei ruoli e una separazione netta delle funzioni
con divieto assoluto di frequentazioni spurie sarebbe importante ai
fini di evitare le strumentalizzazioni che facilmente potrebbero
nascere. Ai protezionisti non dovrebbero essere rimproverate
connessioni con la prassi liberazionista che se avesse sviluppi, pur
agendo entro gli angusti spazi della legge, potrebbe aprire fasi di
acute tensioni.
2)
Non ostilità tra i due ambienti.
La
consapevolezza di rispondere a due logiche diverse dovrebbe portare i
due ambienti a un reciproco riconoscimento implicito e alla
dismissione di una conflittualità talvolta durissima. La
non-ostilità si baserebbe sulla presa d’atto di
essere parte di un unico disegno storico che si manifesterebbe
secondo due modalità complementari.
3)
Riconoscimento della sinergia tra i due ambienti.
Dal
punto (2) discende che il liberazionismo e protezionismo potrebbero
trarre uno il vantaggio dall’azione dell’altro. Molte
persone scoprono la radicalità del problema dei diritti degli
animali attraverso le campagne contro gli abbandoni, contro la
vivisezione o per il vegetarismo. Quindi il lavoro dei protezionisti
può generare nuove risorse umane per una battaglia più
incisiva. Viceversa, un liberazionismo più visibile,
riconoscibile e combattivo nella società apre nuovi spazi
di contrattazione tra protezionisti e istituzioni.
Purtroppo tutto questo è un sogno, e non solo nel breve periodo.
a) Innanzi tutto non mancano soggetti-chimera, cioè gruppi che si situano un po’ nel campo liberazionista, un po’ in quello protezionista incorrendo nei difetti di prassi e di comunicazione descritti in precedenza. Ciò costituisce la negazione di (1) e talvolta causa intricate complicazioni. Esempio: un gruppo liberazionista concorda con altre forze politiche e sociali una legge sulla vivisezione; come potrà poi organizzare una protesta di fronte ai cancelli di un centro dove si pratica la vivisezione? Di quale credibilità disporrebbe?
b) Poi la mancanza di consapevolezza sulla distinzione dei ruoli produce conflitti e impedisce la partecipazione con funzioni diverse a un disegno unico. Spesso gli uni definiscono traditori gli altri che, a loro volta, condannano le azioni di liberazione e il radicalismo dei primi. Accade infatti, che quando un’azione ALF libera una gallina, qualcuno strilli a pieni polmoni contro i “terroristi” che agendo contro la legge inficiano il lento e oscuro lavoro condotto in Parlamento. Ciò costituisce la negazione di (2). Per quanto l’associazionismo ospiti attivisti di base che nel proprio intimo o in piccole cerchie ammettano l’importanza delle liberazioni di animali e godano, magari, della distruzione di apparecchiature tecniche per la stabulazione o la vivisezione, i gruppi dirigenti vivono queste azioni come un appannamento della loro immagine e della loro rappresentatività presso le istituzioni. Così si comprende quella formula stereotipata che certi bollettini di associazioni ripetono come un disco rotto: “certe azioni hanno il potere di azzerare il paziente lavoro di decenni”. Il fatto poi che i risultati di decenni di paziente lavoro siano prossimi allo zero stimola il comprensibile sarcasmo dei liberazionisti i quali, di fronte a un collaborativo silenzio, sarebbero certamente più rispettosi verso il riformismo moderato.
c) Dal punto (b) discende che la potenziale sinergia tra liberazionismo e protezionismo è del tutto ignorata. Ciò costituisce la negazione di (3). Occorre però onestamente osservare che tale sinergia richiede per svilupparsi un volume di attività liberazioniste e protezioniste di molto superiori a quelle che oggi l’animalismo è in grado di sostenere.
d) Ultimo, ma non meno importante: sia i protezionisti sia i liberazionisti non sono in grado di dare luogo a strutture organizzate e unitarie nei propri ambiti di azione. I primi perché sono protesi a recintare la loro ben misera identità per separarla da commistioni indesiderate con altre associazioni. I secondi perché, influenzati da una visione postpolitica e anarchica, sono ostili a qualunque proposta la cui organizzazione vada oltre a quella necessaria per elaborare un progetto specifico e puntuale.
Dunque possiamo concludere richiamando gli aspetti sui quali ci siamo soffermati. Le caratteristiche genetiche che hanno dato luogo alla nascita dell’animalismo, le peculiarità soggettive e psicologiche degli attivisti, l’aura del nostro tempo che frena l’adesione totalizzante dell’individuo a una causa, tutto questo rende estremamente difficile la formazione dei presupposti umani e materiali necessari per trasformare, sia pure in prospettiva, la condizione animale. Il superamento del disperante vicolo cieco in cui gli animalisti si sono gettati non è al momento pensabile. La questione animale pretende un approccio nuovo.
Il grattacielo
Vista
in sezione, la struttura sociale del presente dovrebbe configurarsi
all’incirca così: Su in alto i grandi magnati dei trust
dei diversi gruppi di potere capitalistici che però sono in
lotta tra loro; sotto di essi i magnati minori, i grandi proprietari
terrieri e tutto lo staff dei collaboratori importanti; sotto di essi
- suddivise in singoli strati - le masse dei liberi professionisti e
degli impiegati di grado inferiore, della manovalanza politica, dei
militari e dei professori, degli ingegneri e dei capufficio fino alle
dattilografe; ancora più giù i residui delle piccole
esistenze autonome, gli artigiani, i bottegai, i contadini e tutti
gli altri, poi il proletariato, dagli strati operai qualificati
meglio retribuiti, passando attraverso i manovali fino ad arrivare ai
disoccupati cronici, ai poveri, ai vecchi e ai malati. Solo sotto
tutto questo comincia quello che è il vero e proprio
fondamento della miseria, sul quale si innalza questa costruzione,
giacché finora abbiamo parlato solo dei paesi capitalistici
sviluppati, e tutta la loro vita è sorretta dall’orribile
apparato di sfruttamento che funziona nei territori semi-coloniali e
coloniali, ossia in quella che è di gran lunga la parte più
grande del mondo. Larghi territori dei Balcani sono una camera di
tortura, in India, in Cina, in Africa la miseria di massa supera ogni
immaginazione. Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie
della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile,
inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale
nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione
degli animali. ... Questo edificio, la cui cantina è un
mattatoio e il cui tetto è una cattedrale, dalle finestre dei
piani superiori assicura effettivamente una bella vista sul cielo
stellato.
Max Horkheimer, Crepuscolo, 1933
Questo testo, che rappresenta splendidamente il paradiso, il purgatorio e l’inferno immanenti (gli unici di cui abbiamo certezza), è stato assunto per la pagina d’introduzione della rivista telematica “Liberazioni”. Un testo pionieristico di una chiarezza esemplare che ha il potere di illustrare una serie di aspetti concatenati che la grandezza di Max Horkheimer ha visto con sorprendente lucidità. L’analisi del testo permette di fare alcune osservazioni.
1. La prima osservazione consiste nella scoperta-enunciazione della sofferenza animale – sofferenza che di fatto non polarizza l’attenzione umana – che, supportando tutta la struttura, è posta al vertice delle tribolazioni sperimentabili.
2. La seconda consiste nell’inserimento della sofferenza animale in un contesto di altre tribolazioni da cui si differenzia solo per intensità, ma non in qualità. In tal modo l’equiparazione tra sfruttati e violentati da un sistema di dominio assoluto emerge in tutta la sua evidenza al di là della condizione di specie.
3. La terza consiste nel rilievo dei vantaggi di qualcuno sulla base degli svantaggi – quali svantaggi! – di altri. In altri termini, si sancisce la nascita di una sofferenza extra-naturale, aggiuntiva ai travagli imposti dalla grande matrigna, legata a qualche errore avvenuto in tempi primordiali che ha sancito lo sviluppo di un mondo costruito sullo sfruttamento dei più deboli, animali umani e non[2].
4. La quarta, più difficile da afferrare perché posta sullo sfondo, consiste nel prendere atto che i viventi che occupano i vari piani sono soltanto apparentemente i soggetti della situazione. Anche gli animali umani nascono, vivono e muoiono assegnati al loro piano o con una possibilità piuttosto ridotta (e concessa a pochi) di poter usare l’ascensore. Pur senza accettare una visione deterministica che depriva completamente certi soggetti di libertà di scelta (grado di libertà che, qualora sia ammesso, è tanto più elevato quanto più si occupano i piani alti), occorre riconoscere che gli individui passano mentre la struttura del grattacielo ha un grado di permanenza assai elevato. La struttura del grattacielo costituisce il morto che domina il vivo; costituisce l’insieme delle determinazioni le quali, come una maledizione, impongono la prosecuzione delle forme di dominio quale esse si manifestano nella società umana. Quali che siano le condizioni particolari che gli esseri si trovano preconfezionate al momento della nascita – e che li segneranno per tutta la vita – essi devono fare i conti con le condizioni generali: le istituzioni di proprietà (i rapporti di produzione), le istituzioni culturali (dalle religioni alle università), le istituzioni che conferiscono legalità alla realtà così com’essa è determinata e si presenta (le istituzioni statali).
Il grattacielo fornisce in pari tempo una interessante allegoria del Potere che illustra come, permanendo la dimensione del potere dei piani elevati, il mattatoio non abbia possibilità di essere cancellato, così come del resto la condizione miserevole degli individui umani che abitano i piani bassi. Vale anche il contrario: qualora il mattatoio venisse eliminato insieme con le miserie delle classi subalterne, il crollo di tutto il grattacielo sarebbe inevitabile. In altri termini l’immagine descrive il sottile legame di sfruttamento e di violenza che unifica le vittime di un processo storico distorto. Qui conviene riprendere un termine che abbiamo finora intravisto, ma lasciato in secondo piano: “antispecismo”. Come annotato in precedenza[3] “antispecismo” è un neologismo affermatosi con lo sviluppo dell’animalismo radicale ed è stato impiegato per indicare parallelismi con altre forme di discriminazione come antisessismo e antirazzismo[4]. La fecondità del concetto sta nel fatto che l’antispecismo, mostrando l’artificialità della frattura che separa la cantina dal resto dell’edificio, rientra perfettamente nella descrizione horkheimeriana e si presta bene per rappresentare la battaglia di liberazione di tutti gli oppressi. L’antispecismo risulta allora una espressione che può veramente caratterizzare una nuova fase proponendo un processo di ricostruzione del mondo in cui ogni forma di sfruttamento sia bandita per sempre.
Tuttavia la vera sollecitazione horkheimeriana, quella meno compresa dagli animalisti (e a tutti i movimentisti del nostro tempo) è quella riassunta nel punto 4 su cui vogliamo ricondurre la riflessione. Una volta che si distoglie l’attenzione da quelli che sembrano – sembrano soltanto – gli attori della realtà e la si orienta sulla struttura velata, si afferra che gli attori veri sono le istituzioni economiche, culturali e politiche (mentre le persone lo sono solo in seconda battuta). Ne consegue che le consuete pressioni sugli individui al fine di condurli alla retta via appaiono depotenziate[5]. Purtroppo i critici della società esistente – subendo culturalmente l’ottica del nemico – hanno accettato in via definitiva la tesi secondo la quale la politica si configura solo come amministrazione trasferendo la speranza di cambiamento in una specie di apostolato verso la popolazione (v. § 36). A ciò si aggiunge la tradizionale convinzione, frutto di un incredibile degrado politico e culturale, che riporta in primo piano l’individuo assegnando alle istituzioni sociali un ruolo fantasmatico, giacché esse vengono interpretate esattamente come la somma degli uomini che le rappresentano. Con ciò viene compiuta un’operazione che potremmo definire come “attualizzazione della storia”: ciò che esiste è soltanto il presente. Se si pensa che il mondo possa essere cambiato per via di convinzione sulle persone confidando che queste possano poi agire sulla struttura del grattacielo (per rimanere nella metafora), si commette l’errore fatale che vanifica l’attivismo antispecista.
Ora ben si comprende la pochezza dei protezionisti, digiuni della teoria critica della società e unicamente propensi a vedere gli aspetti terminali della questione animale in modo del tutto avulso dalle sue cause. Non a caso il termine “antispecismo” risulta a loro estraneo e l’eventuale impiego deriva più dal sentito dire che da un effettivo accoglimento del tema. Più interessante diventa la riflessione sul rapporto tra liberazionismo e antispecismo considerando che – come già sostenuto – il secondo termine si è affermato proprio con la diffusione del liberazionismo.
Per prima cosa occorre chiarire che vi è un filone minoritario del liberazionismo chiamato primitivista o “estinzionista”[6] che, in virtù dell’assunto di base che ne regola la visione – l’umanità è un difetto della natura, una specie pervertita e giudicata irrecuperabile – persegue una rottura totale con la storia e fantastica un ritorno romantico alla natura. E’ un atteggiamento strano, intanto perché presuppone l’esistenza di una frazione umana, quella dei liberazionisti-primitivisti che, per dedizione a una causa e per intense motivazioni interiori, si differenzia dal resto dell’umanità; poi perché richiede, a una specie ritenuta il peggio tra le specie, quanto di meglio possa chiedersi a chi ha raggiunto il massimo di saggezza: l’autoestinzione. Ma tralasciamo tali contraddizioni: qui ci interessa osservare che questo filone, quando non incita alla violenza diretta verso gli aguzzini degli animali, si limita a considerare come unica soluzione la sottrazione di animali dall’uomo nella quantità più ampia possibile. E’ evidente come essa sia un’idea incompatibile con la visione antispecista, poiché traccia una linea di separazione tra la “cantina” del grattacielo e tutti i piani sovrastanti – anche quelli bassi – rifiutando per principio la possibilità di porre rimedio agli atti di una specie che, più che essere anomala, dà l’impressione di aver preso una strada sbagliata. E’ una visione disperata che si consola con l’azione minimalista di salvataggi di animali dalle grinfie umane[7] e per quanto possegga una sua intrinseca dignità, non può essere certo considerata una risorsa per l’antispecismo che si muove su un binario opposto.
Ma se l’antispecismo non può trovare spazio nel liberazionismo primitivista, potrebbe farlo nel filone liberazionista anarchico[8] che attualmente costituisce il ramo più robusto del movimento? E’ dubbio. Infatti non si possono nascondere i limiti dei liberazionisti che pur riconoscendo la complessa rete di relazioni di dominio che agisce sugli animali umani e non umani, non comprendono come la liberazione debba passare non soltanto e, soprattutto, non principalmente dall’attacco a singoli soggetti (industrie della pelliccia, macelli, ecc.) e dalle liberazioni vere e proprie – azioni sempre riassorbibili in momenti di stanca del movimento – quanto dalla scomposizione di un millenario sistema basato su relazioni malate che ha come soggetto simbolo del potere lo Stato e le sue istituzioni. E’ proprio lo Stato, in quanto struttura con le sue leggi, con la sua forza “legale”, e con la insistita “volontà generale” su cui millantando troneggia, che deve essere rifondato su norme di autentica civiltà. Infatti la solidità del grattacielo non dipende soltanto dal potere che i soggetti abitanti in ogni piano esprimono, ma anche da quelle strutture interne e impersonali che ne garantiscono la stabilità e che definiscono l’ideologia che giustifica la (in)naturalità della disposizione degli suoi occupanti. Tali giustificazioni sono diffuse dalla pervasività del sistema culturale e sono imposte da un sistema economico che si regge sullo sfruttamento, ma soprattutto, sono cristallizzate e fatte valere dalle norme e dagli apparati repressivi che le impongono con la forza.
La più grande ovvietà che si possa affermare, è questa: che la trasformazione – la demolizione del grattacielo – ha bisogno di un soggetto politico che la persegua assumendosi la responsabilità di una resistenza di lungo periodo e di un progetto di società alternativa. A ben vedere si tratta di una falsa ovvietà, giacché il panorama politico di un generico paese occidentale offre solo anticorpi deboli con caratteristiche postpolitiche e incapaci di mettere in discussione le attuali forme di potere e di vita (v. § 36), giacché il concetto di “politico” è erroneamente associato quasi senza eccezioni alle (e riconosciuto nelle) forme degradate dell’amministrazione e della gestione della società di mercato. Oggi la critica alla politica attualmente espressa non è affidata a forze emergenti capaci di prefigurare scenari diversi e di ridisegnare fantasia e strutture cognitive dell’opinione pubblica attraverso strumentazioni di natura politica, ma è affidata a registi cinematografici narcisi o comici nevrotici, cioè a pure rappresentazioni mediatiche effimere e prive di effettività, espressioni massime di contestazione di una società che si basa tanto sulla dichiarazione della libertà di parola quanto nell’inamovibilità dei pilastri fondamentali che la sorreggono. Solo in una gora paludosa retta da semplici gestori di un mercato di merci può accadere che ricchezza e povertà si polarizzino a livelli intollerabili senza che qualcuno dichiari l’illegittimità di siffatto sistema. Solo in un ambiente così moralmente degradato è possibile continuare a essere spettatori passivi di azioni criminali che sopprimono i diritti dei popoli ultimi con missioni di guerra travestite da missioni di pace. Solo un mondo che ha perduto ogni speranza può optare per un consumismo orgiastico da “ultimi tempi” dell’impero. Dunque non è difficile dimostrare che l’uso del termine “politica” per caratterizzare la prassi fatta esclusivamente di testimonianza, è soltanto un riflesso di apparati fonatori che ripetono una parola ormai deprivata del suo senso tradizionale e – ancor più importante – funzionale.
L‘antispecismo deve recuperare il senso tradizionale e funzionale della politica abbandonando i sogni di cambiare le persone con il procedimento bocca-orecchio: così si riesce a formare qualche attivista in più, ma non si cambia la realtà. Il mondo lo si trasforma contrapponendo alla forza distruttiva dell’attuale formazione economica-materiale-sociale un’altra forza, costruttiva che, oltre a offrire una visione a coloro a cui si rivolge, sappia anche conquistarsi gli spazi nella dimensione quotidiana del conflitto, perché la materialità dei processi può essere contrastata con altri processi materiali in cui la comunicazione svolge un ruolo importantissimo ma complementare alle azioni, dato che alla fine sono queste che dirimono le questioni.
L’antispecismo, si trova in una condizione particolare per determinare questa rinascita della politica. Innanzi tutto è portatore di un disegno che la società specista non accetterà mai, quindi si trova nella condizione di dover fare necessariamente quel salto di interpretazione nel campo della filosofia politica che altri si rifiutano di compiere nell’illusione che un giorno le loro aspirazioni si materializzeranno per grazia ricevuta anche in questa società borghese, capitalistica, violenta, diseguale e ecocida. E’ altamente improbabile che la società specista possa evolversi per gradi verso una società a-specista senza contraddire se stessa! In secondo luogo l’antispecismo è portatore di una visione che recuperando dignità e diritti degli ultimi salva tutti. Una civiltà in cui gli animali siano liberati integra necessariamente equilibrio, eguaglianza tra gli umani, pace tra i popoli, rispetto per l’ambiente e per tutti gli esseri che l’abitano e dunque trasmette una visione che altri movimenti, i quali insistono sulle peculiarità su cui si sono formati e su una percezione frammentata della realtà, non hanno. L’antispecismo ha le carte in regola per definire un nuovo modello di relazioni tra gli individui umani e non, tra le organizzazioni sociali, tra l’umano e la natura. Certo occorre evitare l’errore mortale di inventare una nuova utopia che in breve verrebbe riconosciuta e ridicolizzata.
A questo punto però sorge una domanda cruciale: se le risorse umane liberazioniste sono impegnate in direzioni giudicate sbagliate o non-funzionali, dove recuperare le forze per dare corpo a un antispecismo politicamente solido che riassuma, con l’introduzione dello sfruttamento animale, le lotte per le liberazioni di tutti gli sfruttati?
Non esiste risposta. Anzi è la domanda a essere mal posta. Come potrebbero queste righe individuare soggetti che oggi, se esistono, sono invisibili e forse non ancora coscienti delle proprie potenzialità posseggono? O le circostanze generano risorse umane con una nuova considerazione dei problemi, oppure non le generano. Le leggi di sviluppo dei processi sfuggono in periodi di disordine come l’attuale. Si può dire che se le persone giuste sapranno tesaurizzare teoricamente e praticamente l’antispecismo, il mondo si arricchirà di un disegno di grandi potenzialità. Oggi può soltanto risuonare una drammatica invocazione analoga a quella che 23 secoli fa chiuse l’insegnamento di un saggio, angosciato dalla tragedia di un’umanità che anche allora si stava perdendo. “Non c’è dunque nessuno che conosca la strada da percorrere? Non c’è proprio nessuno?”. In quel caso l’invocazione era rivolta a qualche principe antico che riunificasse l’impero sotto nuovi principi di giustizia. Oggi sarebbe rivolta a un soggetto politico autonomo che reinterpretasse un mondo materialmente fondato sulla liberazione di tutti gli esseri sensibili e in grado di instaurare un complesso confronto dialettico con le forme del potere attualmente esistenti. Con tutti i significati attribuibili alla parola “confronto”, nessuno escluso[9].
E’ vero. L’impresa della liberazione di tutti i senzienti è la più difficile impresa che si possa immaginare. L’antispecismo oggi non può ancora contare sulla solidarietà di quel rilevante numero di donne e di uomini che pure auspicano, desiderano e spesso lavorano per un mondo diverso. La loro visione ruota intorno all’animale umano e essi non hanno ancora stracciato il velo che permette loro di scoprire le doti naturali dei popoli muti – la capacità di provare piacere e dolore – e i loro diritti a vivere una vita propria e non vessata. Anche tra le persone più disponibili regna un comprensibile scetticismo perché individuando nella società un’attenzione quasi assoluta alle relazioni strettamente economiche e di interesse, non riescono a comprendere come sia possibile che l’antispecismo possa disporre di una chance. Insomma, affermare che “risolvendo i problemi dei popoli muti intesi come strato più basso tra le classi dei sensibili, si risolvono anche quelli di tutta l’umanità” è un’idea che pur essendo incredibilmente vera, non appare tale. E poi, soprattutto, gli animali non hanno l’obiettiva capacità di farsi soggetto e c’è un detto minaccioso che recita: “Non ci sono diritti per chi non li rivendica in prima persona”.
Certamente: gli animali non sono in grado di farsi soggetto. Il soggetto sono (o dovrebbero essere) quegli umani che agiscono per conto loro. Hanno delle possibilità? Se le strutture portanti del grattacielo godessero di buona stabilità sicuramente le possibilità degli antispecisti di compiere la loro rivoluzione sarebbero nulle. Ma il grattacielo sta mostrando crepe vistose e sinistri scricchiolii vengono percepiti da chi lo abita. Vi sono fondati motivi per ritenere che una civiltà[10] costruita sulla colonizzazione delle esigenze dell’altro e sulla violenza non riesca più a riprodursi con la stessa naturalità mostrata fino a oggi. Possiamo dirlo con certezza: la più grande utopia – nell’accezione negativa di concezione campata per aria – consiste nella falsa credenza che l’umanità possa superare il vicolo cieco in cui si è cacciata mantenendo le strutture portanti della sua civiltà. Crisi energetiche, crollo della disponibilità delle materie prime, ossessione del nemico, insoddisfazione di massa, paura del futuro stanno dichiarando la morte di un sistema di riproduzione sociale – il liberismo – che ha violato le leggi fondamentali della vita nel momento in cui ha cessato di attingere agli interessi che la natura metteva a disposizione per consumare direttamente il suo capitale. Gli apologeti di questo colossale fallimento si affannano a dichiarare utopistici i sistemi che optano per altri sistemi di vita e non si rendono conto che il loro sistema ha potuto reggere, nel pur limitato periodo della storia umana, per una frazione irrisoria del tempo. La loro epoca si sta chiudendo inesorabilmente.
Nel processo di ridefinizione del giusto e dell’errato che si è aperto è tutto possibile. Tali concetti non saranno più connessi a opzioni legate alle visioni personali di ognuno, ma saranno fortemente influenzati da leggi obiettive all’interno delle quali potranno essere innestate delle scelte di carattere etico che risultino funzionali alla sopravvivenza. In questo colossale processo di ridefinizione l’antispecismo può trovare grandissimi spazi e può contribuire a creare quel mondo nuovo che gli altermondisti – gli alleati naturali dell’antispecismo – ancora non intuiscono e spesso non accettano. La soluzione dei problemi dei sensibili condurrebbe con sé la definitiva e storica soluzione ai problemi umani che si sta disperatamente cercando da migliaia di anni entro quell’involuzione che ha cancellato l’attenzione per la meraviglia della natura, che ha piegato gli esseri umani a accettare le forme di dominio (o a esercitarle, che è un’altra forma di assoggettamento a una grave patologia) e ha trasformato la storia in uno scandaloso mattatoio.
Tuttavia l’antispecista è costretto a un’altra riflessione, importante come la precedente, ma di segno opposto.
L’antispecismo nasce in un’epoca che consente agli uomini di pensarlo. Un’epoca di grandi risorse disponibili che da un lato permetterebbero la liberazione degli animali dal giogo umano, dall’altro danno facoltà ad alcuni umani di riflettere sulla condizione animale al punto da immaginare l’idea così sovversiva dell’antispecismo. Il motivo per cui la liberazione animale non viene accettata dalla specie umana è legata sostanzialmente alla stabilità delle relazioni gerarchiche, alle inerzie culturali unitamente alla voracità del capitalismo che richiede la trasformazione di vita in merce. Ma, di fatto, se gli umani si accordassero per liberare gli animali, oggi non nascerebbe alcun ostacolo perché l’operazione sarebbe materialmente plausibile in virtù dei mezzi disponibili. Ora la condizione descritta si sta chiudendo per le terribili difficoltà a cui l’umanità si sta condannando con la sua oscena ossessione a dilapidare le risorse in una propensione assurda ma purtroppo reale di consumismo orgiastico. Nelle situazioni di emergenza, peggio, nelle situazioni di guerra di tutti contro tutti, c’è un decadimento dell’etica e della solidarietà. E’ una legge sociologica corroborata dalla storia. L’altro da noi, per essere riconosciuto, ha bisogno di una situazione di relativa tranquillità. Ebbene, non è un mistero che stiamo andando verso periodi contrassegnati da maggiore incertezza e instabilità, con crisi politiche, sociali, culturali e energetiche che potranno assumere forme devastanti. Forse, nelle nuove condizioni che potrebbero prefigurarsi a breve, l’idea dell’antispecismo potrebbe rimanere intatta, un nucleo duro continuerebbe a conservare nel suo cuore l’idea della società antispecista, ma a quel punto sarebbe persino rischioso esprimerla e, in ogni caso, anche la sua libera manifestazione cadrebbe forzatamente nel deserto più di quanto non avvenga oggi.
Inutile dilungarsi su questo aspetto perchè tutte le persone a cui questo lavoro è diretto hanno interiorizzato il pericolo che corre la Terra a causa dei gruppi dirigenti criminali che attualmente governano molti degli stati odierni. Però quasi mai c’è la consapevolezza che una gravissima instabilità potrebbe sfociare nella fine definitiva dell’antispecismo. Perciò diventa fondamentale comprendere che non c’è nessuna possibilità che l’idea dell’antispecismo (o dell’animalismo in genere) possa essere ibernata per essere estratta dal congelatore in un periodo più favorevole in un futuro indistinto. Un futuro favorevole potrebbe non ripetersi. L’antispecismo vive la sua finestra temporale! La sua possibilità è oggi, e se riuscirà ad affermarsi, sarà soltanto perché oggi sarà riuscito a gettare le basi per la sua affermazione. Per “affermazione” non dobbiamo intendere ancora (purtroppo) la creazione di una società liberata dallo specismo, ma semplicemente – quanto è complesso questo “semplicemente” – la creazione di una presenza che riesca a qualificarsi come forza politica reale imponendosi nella dialettica sociale. In questo caso il mondo disporrà di una grande risorsa per giocare la carta della sua salvezza altrimenti l’idea dell’altissimo valore dell’alterità animale rischia di essere perduta per sempre.
Note
[1] Interessante osservare come anche la questione degli assunti indiretti, quegli argomenti che altri chiamano “argomenti non animalisti” – questione spinosa che sta condizionando tutt’ora due scuole fortemente contrapposte – possa essere parzialmente risolta con la divisione dei ruoli. Un argomento “non animalista” esibito da un animalista, è costituito da un argomento-pretesto esibito per aggirare le difficoltà a fare accettare l’argomento diretto. Per esempio, diffondere la nocività della dieta a base di carne può indurre qualcuno a fare la scelta vegetariana. Propagandare il pericolo della vivisezione per la messa in commercio di farmaci pericolosi, è considerata una buona strategia per indebolire il fronte vivisezionista. Ecc.
[2] Si rimanda al testo: “Un mondo sbagliato” di Jim Mason, 2007 (Ed. Sonda), un libro chiave che illustra dettagliatamente i fondamenti dei processi di civilizzazione che hanno operato in tal senso.
[3] (V. nota 21, cap. sesto)
[4] Sono parallelismi che, prestandosi a obiezioni e incertezze, dovrebbero essere discussi in via definitiva. Tuttavia, allo stato attuale essi sono entrati nell’armamentario teorico del liberazionismo perciò vengono qui riproposti nei termini in cui sono normalmente offerti nella pubblicistica liberazionista.
[5] Pur conservando qualche valore. Vale la pena di osservare che in ambito politico è decaduta la parola “propaganda” perché ritenuta perfida alla radice, cioè orientata a “condizionare”, mentre il termine “informazione”, ritenuto corretto, assume il valore di risorsa affinché il soggetto con capacità critiche possa decidere autonomamente, una volta che disponga dei dati occorrenti per il giudizio. Si tratta di uno dei miti del nostro tempo. In realtà tutte le istituzioni protese a diffondere e rafforzare l’ordine simbolico della società producono condizionamento. La caduta del termine “propaganda”, degradato a suggestione ideologica e lavaggio del cervello, rappresenta, del resto, un riflesso piuttosto evidente dell’abbandono della politica e del partito come soggetti della trasformazione sociale.
[6] Il riferimento di questo gruppo è il “Movimento per l’estinzione volontaria dell’umanità”, dal singolare e ragionato sito internet che illustra l’impatto catastrofico della specie umana sulla natura formulando l’auspicio che essa decida di estinguersi interrompendo la filogenesi della specie.
[7] Il testo citato “Dichiarazione di Guerra (v. nota 1, cap. primo) rappresenta l’esempio limite di questa visione.
[8] Il filone liberazionista può essere definito “anarchico” in un doppio senso. Prima di tutto perché i suoi componenti sono influenzati da idee anarchiche, sia pure a scartamento ridotto rispetto all’omologa ideologia politica del passato. In secondo luogo per indicare l’atteggiamento generale descritto nei §§ 35, 36 cioè tendenza al rifiuto di relazioni verticali, assunzione di atteggiamenti generici di contrasto con le istituzioni ecc.
[9] In tale contesto come verrebbero interpretate quelle schegge di movimento che si prendono a cuore la condizione degli animali? I liberazionisti fermi nei loro principi di azione diretta sarebbero apprezzati considerando che i loro atti non entrano mai in contraddizione con la prospettiva auspicata (certo sarebbe utile se di giorno potessero cambiarsi d’abito e, finalmente, agire politicamente; ma cambiare i principi di riferimento pratici e teorici a questi compagni di strada è impresa piuttosto difficile). Per quanto riguarda i protezionisti, anch’essi potrebbero proficuamente continuare nelle loro attività, ma dovrebbero stare attenti a giudizi e iniziative, perché da soggetti tutto sommato positivi, potrebbero diventare parte del problema generale.
[10] Possiamo parlare di civiltà unica dell’homo sapiens perché, a dispetto delle pur estreme differenze culturali che la informano, essa è sostanzialmente uniformata dalle sue peculiarità di fondo. Nuovamente dobbiamo rimandare al testo “Un mondo sbagliato” (v. nota 47, cap. ottavo) per la sorprendente descrizione sintetica della filogenesi dell’umanità.
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