L’animalismo tracciato nel paragrafo precedente ha monopolizzato la scena fino a tempi recentissimi e purtroppo a tutt’oggi costituisce ancora l’ossatura fondamentale di quelle forze che si sono costituite per offrire una sponda agli animali e alla loro dolorosa esperienza nella società degli umani. Tuttavia notevoli elaborazioni concettuali sviluppatesi negli ultimi decenni in ambiente anglosassone hanno radicalizzato la questione animale. Ci riferiamo in primo luogo a “Animal Liberation” di Peter Singer e “The Case of Animal Rights” di Tom Regan, ma anche a una serie corposa di contributi meno conosciuti ma altrettanto importanti. Questi scritti hanno posto il problema sotto un’altra luce aprendo anche in Italia un nuovo filone di studi. La sottolineatura forte dei diritti animali da parte di Regan e la messa a nudo di attività basate su atti decisamente criminali (ad esempio l’uso delle scimmie in ambiente di ricerca psicologico-comportamentista a cui Singer ha dedicato ampio spazio) hanno generato[1] alcune frange minoritarie ben determinate nella convinzione che i tradizionali mezzi messi a disposizione dall’associazionismo classico sono inadatti a risolvere il problema.
Alcuni di questi raggruppamenti agiscono sotto l’acronimo generico ALF (Animal Liberation Front). Essi si impongono il vincolo di non danneggiare per alcuna ragione le persone, ma non hanno alcuna difficoltà a porsi fuori dalla legge liberando animali dai laboratori, distruggendo in taluni casi le apparecchiature legate alla ricerca e compiendo altre azioni radicali in una logica di interventismo estremo[2]. Queste persone, giudicate nell’ambiente liberazionista autentici eroi del nostro tempo, agiscono in piccoli gruppi senza nessun collegamento generale[3] e partono dal presupposto che la legge, quando calpesta diritti fondamentali, debba essere semplicemente ignorata. Rischiano la galera e i loro atti, a differenza di altre azioni-limite dettate dall’amore (per esempio la soppressione di un parente gravemente disabile e sofferente) non godono di alcuna solidarietà da parte di una popolazione indifferente alla nobiltà del loro cuore.
In seguito il principio della intangibilità delle persone, sia pur a livello di provocazione, è stato messo in discussione. Si legga questo passo di “Dichiarazione di Guerra” edito per la prima volta negli Stati Uniti:
“I liberatori sono giunti a una conclusione inevitabile: gli esseri umani non potranno mai convivere pacificamente con gli animali! Non è nella loro natura, né in quella della società che hanno creato. I liberatori pensano che chi volesse davvero salvare gli animali, dovrebbe smetterla di sprecare il suo tempo cercando di migliorare la specie umana e la sua società. Deve dichiarare guerra agli umani. Deve unirsi a questa rivoluzione” .[4]
Dichiarazione di guerra va ben oltre le elaborazioni dei padri della liberazione animale e della visione ALF, ma senza il successo dei testi di Singer e Regan, la riflessione animalista sarebbe rimasta ancora bloccata a lungo all’interno dell’impostazione dell’animalismo protezionista classico e, in ogni caso, anche i gruppi più radicali non avrebbero potuto dare avvio allo sviluppo che ne è seguito. Il testo in questione, tra l’altro, ha esposto una tesi assente sia nei lavori dei padri dei diritti animali, sia nei gruppi ALF: la possibilità dell’assassinio per salvare animali in pericolo (una specie di legittima difesa estesa oltre la barriera di specie), ma anche per seminare il terrore tra coloro che hanno responsabilità diretta nel causare sofferenza agli animali. In Gran Bretagna, in tempi relativamente recenti, un ortopedico americano ha rilasciato una intervista di fuoco a The Observer [25 luglio 2004] con la quale prefigurava un aumento della capacità di ritorsione dell’animalismo fino al punto di giungere all’omicidio[5]. Sono dichiarazioni propagandistiche destinamte soltanto a creare scandalo per dare visibilità alla questione animale, ma anche intese in tal senso creano preoccupazioni e reazioni animose negli ambienti protezionisti.
In Italia, dove la questione animale è ancora priva della radicalità anglosassone, il problema non si pone nei termini descritti. Tuttavia la cultura della ribellione contro lo Stato (che con le sue leggi permette l’olocausto animale) e contro la società (che ne costituisce il fondamento attraverso la necrofagia e l’approvazione nella sostanza di altre pratiche violente) è passata attraverso le maglie del protezionismo e oggi si possono registrare in Italia centinaia di attivisti che sono convinti che l’associazionismo animalista sia affollato di ignavi i quali, in nome del quieto vivere, assicurano una esagerata tranquillità ai nemici degli animali. Nel nostro Paese lo sviluppo di questo nuovo animalismo, ancorato alla cultura pacifista, si rispecchia nel “modello ALF”. Se non si attiva neessariamente in azioni di liberazione, non esita comunque a approvarle. Le azioni di liberazione consistono essenzialmente in sottrazioni di animali dagli allevamenti o dagli stabulari definite dai mezzi di informazione attacchi alla proprietà e atti di terrorismo. Il termine “terrorismo” è una parola impropria e insostenibile anche quando qualche camion (vuoto) adibito al trasporto di bovini va a fuoco; infatti deve essere chiaro che l’intangibilità della persona è un assioma mai messo in discussione il cui rispetto non offre il fianco a quelle esasperazioni repressive che sarebbero attivate qualora quel limite venisse non solo superato, ma anche dichiarato. Tuttavia i liberazionisti non hanno remore a dichiarare la loro disponibilità a violare la legge se questo comporta la salvezza di animali. Inoltre alcuni di loro, come accade Oltremanica, si spinge a dichiarare l’importanza di distruggere o danneggiare beni collettivi o personali di coloro che si macchiano di violenze verso gli animali.
Gli attivisti liberazionisti giustificano senza grandi difficoltà gli schemi d’azione che adottano. Essi osservano che i sistemi legali generati per mezzo del filtro politico sono un riflesso delle condizioni culturali e non hanno necessariamente alcun rapporto con i principi di Giustizia a cui, invece, essi affermano con insistenza di rifarsi. La giustizia specista[6] non è vera Giustizia perché trascina nell’inferno esseri sensibili. Essa è piuttosto un sistema mobile che da una parte include e dall’altra esclude. La parte esclusa non ha doveri verso il contratto che viene stipulato da coloro che sono inclusi. Ora, è vero che gli esclusi dal sistema di cittadinanza sono gli animali mentre i liberazionisti, essendo umani, sono inclusi nel sistema; ma quest’ultimi si attribuiscono il diritto di resistenza per conto di chi non può farlo perché manifestamente incapace. Del resto hanno diversi esempi da invocare per dimostrare che la loro posizione, pur non legale, è giusta: anche il Nazismo aveva un sistema normativo, ma chiunque si fosse ribellato, pur condannato se scoperto, riceverebbe oggi l’elogio per aver ottemperato a un obbligo morale alla resistenza. Anche le leggi razziali erano “leggi”, ma la loro natura non è oggi riconosciuta ignobile? Perciò il liberazionista si autoconvincerà con buoni motivi che il suo approccio al problema è quello giusto perché mostra una inclusività nella sfera del diritto che la società specista[7] non è neppure in grado di immaginare.
E’ bene insistere su questo aspetto perché, essendo qualificante e nello stesso tempo sconosciuto all’opinione pubblica, è fonte di equivoci a non finire: il liberazionista combatte, prima ancora che per gli animali, per il vivente in generale. Mentre il protezionista è di norma spoliticizzato e si espone spesso – anche se non sempre giustamente – alla critica “di pensare solo agli animali con tutti i bambini che soffrono nel mondo”, il liberazionista è di regola piuttosto strutturato dal punto di vista politico avendo ormai interiorizzato uno schema richiamato anche da Singer e Regan che assimila lo specismo a altre manifestazioni di esclusione a lungo presenti nella società umana, in particolare il razzismo – che esclude sulla base della razza – e il sessismo – che esclude sulla base del sesso[8]. Ne consegue che mentre si muove in difesa dei diritti animali, non dimentica certo i diritti degli uomini[9]. Infatti non si tratta di una battaglia generica per proteggere gli animali, quanto piuttosto di una attività indirizzata alla inclusione dei diritti animali[10] non già nella società degli uomini (come nel caso degli zoofili o dei protezionisti) bensì in un generale riconoscimento delle esigenze del vivente. Si arriva al paradosso che ben lungi dal non pensare agli umani, il liberazionista si trova nella condizione ideale per elaborare un nuovo umanesimo (non umanismo, naturalmente) perché possiede quella sensibilità universalistica che non gode di buona salute né presso le religioni, tutte protese a misurarsi sull’unicità della loro pretesa rivelazione, né presso le avariate ideologie laiche liberiste che ormai da tempo hanno lasciato cadere le maschere liberali.
Comunque non tutti i liberazionisti agiscono fuori dalla legge e anche quelli che, avendo l’occasione, liberano ogni tanto animali non riducono solo a questo la loro prassi. Si può anzi dire che la liberazione è più l’eccezione che la regola. Poco a poco gli spazi per le liberazioni si stanno riducendo perché la società repressiva, grazie a strumentazioni elettroniche e biologiche che nel passato erano indisponibili, sta affinando sempre più le attività di controllo. Cosicché questa pratica è diventata oltremodo pericolosa e chi l’intraprende rischia anni di carcere. E’ più facile agire a livello pubblico con manifestazioni e anche con le forme convenzionali dell’associazionismo: banchetti, informazione, diffusione di materiale animalista. E’ naturale a questo punto chiedersi se non stia sfumando la differenza tra protezionisti e liberazionisti giacché entrambi si muovono su attività di protesta assai simili sul piano formale. La risposta è negativa. Innanzi tutto, ci sono toni e modalità comunicative intense a testimonianza di una ben diversa assunzione del problema. Le iniziative sono promosse con energia e determinazione. I materiali distribuiti sono in genere diversi e vettori di una ostinata veemenza. Poi le iniziative convenzionali sono per i primi l’ambito naturale d’azione, per i secondi un ripiego o, almeno, un’attività sussidiaria. Infatti, mentre le azioni covenzionali quasi esauriscono l’attività protezionistica, il liberazionismo si espande in una serie di attività a alto contenuto conflittuale in ambito pubblico: boicottaggi, dimostrazioni, picchetti che si prolungano nel tempo.
Quest’ultima è una prassi che gode ormai di un certo numero di esperienze e che, grazie alle influenze anglosassoni, è diventata specifica anche del liberazionismo nostrano. Essa si concretizza nell’esperienza dei coordinamenti. Un gruppo di attivisti decide di scegliere un ambiente da boicottare e investe la sua attività contro quell’obiettivo. Picchetti, telefonate ai clienti dell’ente da danneggiare per invitarli a isolarlo, scherzi più o meno pesanti che col tempo limano i nervi degli individui-obiettivi. La lunga durata è ciò che caratterizza queste azioni. L’obiettivo scelto è sottoposto a un martellamento continuo finchè talvolta i soggetti presi di mira cedono le armi e rinunciano alla attività che ha dato origine alla protesta[11]. Per mesi, talvolta anche per anni, il gruppo si presenta di fronte a una azienda farmacologica in cui si fa sperimentazione, o un allevamento e distribuisce volantini e scandisce slogan. In tutti questi casi vanamente si cercherà la presenza delle associazioni protezioniste che sono ben lontane da lasciarsi coinvolgere in iniziative che potrebbero metterle in cattiva luce rispetto alle istituzioni nazionali o locali verso le quali mendicano sempre qualcosa, ricevendo regolarmente il nulla. Di converso, questi piccoli gruppi guardano con sospetto le associazioni verso le quali mantengono un rapporto diffidente. Talvolta organizzano qualche iniziativa insieme, ma in generale agiscono mantenendo un atteggiamento di prudente distanza del resto ricambiato con gli interessi dalle associazioni protezioniste. Altre volte il disprezzo reciproco raggiunge vette insuperabili. In occasione di una liberazione di oltre un centinaio di beagle destinati alla vivisezione, un’antica associazione protezionista italiana, ha messo una taglia sui liberatori per facilitare il recupero dei cani e assicurare alla giustizia i responsabili. Il ragionamento era più o meno questo: la vivisezione cesserà quando le leggi ne prevederanno la fine, ma fino a allora nessuno può arrogarsi il diritto di infrangere la legge. Questo è un caso estremo, ma ha il potere di illustrare in modo compiuto la differenza abissale tra protezionismo e liberazionismo.
Il liberazionismo teorico nasce nei paesi anglosassoni come una branca laterale della Filosofia Morale. Grosso modo esistono due filoni principali che fanno capo ai filosofi che hanno concettualizzato la questione animale: due filoni che si sono trasferiti anche in Italia trovando i rispettivi sostenitori. Si tratta dei già citati pionieri del liberazionismo Peter Singer e Tom Reagan. Per semplicità restringiamo il discorso alla loro opera. Essi hanno elaborato due schemi differenti per rappresentare il rapporto che gli umani devono intrattenere con gli animali. Chi è interessato a comprendere i loro contributi si armi di una notevole pazienza e segua l’elaborato argomentare nei testi di riferimento: “Animal Liberation” e “The case of Animal Rights”. Si tratta di due teorie, utilitarista la prima e giusnaturalista la seconda, che non collimano e, anzi, entrano in conflitto su parecchi punti. Gli autori, poi, non hanno evitato, nel loro percorso, di arricchire una già accesa polemica che a alcuni è apparsa pretestuosa. Qui si può soltanto accennare che mentre la teoria singeriana arriva a condannare l’alimentazione a base di prodotti animali (e le altre pratiche umane che prevedono l’uso degli animali) attraverso il principio del bilanciamento degli interessi nel rapporto uomo-animale, il secondo stabilisce l’intangibilità degli interessi dell’animale sulla base di una visione dei diritti naturali del vivente dotato di sistema nervoso evoluto, capace quindi di scegliere condizioni di benessere rispetto a altre di malessere. In altri termini, Singer constata l’enormità del dolore animale a fronte del piccolo vantaggio del piacere nell’umano che deriva dal consumo di prodotti animali e, a seguito dell’evidente squilibrio dei rispettivi interessi, giunge a ovvie conclusioni. Regan, invece, rileva nell’organismo animale un sistema compiuto autonomo e “soggetto-di-una-vita” e l’impossibilità di violare tale organismo senza contraddire il supposto approccio etico alla vita che, a suo parere, deve essere rispettato. Su questo confronto sono nati molti conflitti forse anche legati all’emersione di esigenze di leadership, e non solo alla sostanza del dibattito. Infatti la visione reganiana è sufficiente in un contesto di normalità mentre nelle situazioni limite che si possono determinarsi in condizioni di conflitto per acquisire le risorse della sopravvivenza, la visione singeriana appare più pregnante.
Se si accantonano queste pur rilevanti diversità, la nuova tendenza porta grandi trasformazioni. Il vecchio animalismo si caratterizzava per un riferimento ristretto agli animali a prescindere da qualsiasi altra considerazione che interferisse con gli animali umani. Questa mancanza di collegamento tra due condizioni – quella umana e quella non umana –, pur avendo il pregio di aprire al dibattito opinioni obbligate e inedite, esprimeva una sostanziale debolezza di impostazione al punto che gli oppositori alle nuove idee potevano rifugiarsi nel falso argomento secondo il quale gli animalisti “amano più gli animali che gli uomini”, affermazione in certi casi plausibile, considerando la natura ambigua di certi ambienti in cui l’animalismo si è diffuso.
I lavori di Singer e Regan, con tutta la letteratura che anche nel nostro Paese è venuta a seguire, hanno definito una volta per tutte la necessità di inserire la questione animale in una ampia cornice in cui gli obblighi umani verso gli animali perdono la banalità del protezionismo. Con il liberazionismo, infatti, l’animalismo ha perduto la sua autarchia concettuale e ha trovato i modi di un collegamento stretto con la totalità sociale mostrando come la questione animale non vada trattata in modo autonomo, ma abbia bisogno di un continuo riferimento alla condizione dell’animale umano. Infatti, non è forse vero che l’utilitarismo singeriano pone le scelte relative agli animali sulla base dell’uguale considerazione degli interessi di specie diverse? Pur con tutte le difficoltà che il criterio utilitarista comporta, cosa significa questo se non la ricerca di valutazioni sulla base di comparazioni? Ancor più, l’approccio reganiano riporta il discorso entro il tema generale dei diritti nel consesso sociale i quali, lungi da essere dimenticati, devono essere estesi. Gli indubbi meriti della nuova ricerca, tuttavia, non impediscono il riscontro di una grave lacuna; la letteratura teorica liberazionista presenta un difetto di impostazione connesso alla matrice analitica della cultura anglosassone che impedisce di considerare i due lati delle relazioni di dominio in cui sono coinvolte le vittime.
Per chiarire. La filosofia morale è come uno sguardo rivolto alla vittima (in questo caso l’animale) che finisce per sfocare la figura del carnefice. Il modello analitico-comportamentale del filosofo che dà le spalle alla società umana e indica le efferatezze agite su soggetti che non le appartengono, presuppone la convinzione che attraverso la conquista morale di sezioni sempre più allargate di società si possa procedere verso un progresso civile in fondo al quale, in tempi indefiniti, si arrivi infine a riconoscere la giustezza delle posizioni del liberazionismo e alle conseguenti pratiche di riparazione. Si pensa, cioè, che l’atteggiamento morale si caratterizzi kantianamente come una dimensione autonoma dell’individuo che, dall’esterno, può solo essere stimolata (in questo senso tra le opere di Singer e Regan non v’è differenza), ma non imposta da alcuno perché si rivolge a quella terra di nessuno non codificata dalla legge. Nessuno è obbligato, per esempio, a mangiare carne, ma nemmeno è obbligato a non mangiarla. Solo con l’evoluzione della coscienza collettiva sulla base delle iniziative animaliste, è possibile sperare in un futuro in cui si possa considerare lo specismo come un vecchio retaggio simile al razzismo, al sessismo o a altre forme di discriminazione del passato. Insomma, come i diritti umani si sono materializzati nel tempo, è possibile che anche i diritti degli altri animali vengano riconosciuti e si affermino nella legislazione dello Stato insistendo sul piano dell’etica.
Tuttavia, anche in questo caso valgono le analoghe contraddizioni già intraviste per il protezionismo[12] con un’ulteriore aggravante. Il protezionismo è, tutto sommato, un atteggiamento acefalo, poco o per nulla lucido per via delle sue aspirazioni minimaliste. Da un approccio simile non c’è da aspettarsi molto. Vedere invece poderosi corpi teorici diventare afasici nel momento di definire risposte per dare al liberazionismo una prospettiva seria fa molta impressione. Si tratta di proposte impotenti e intorpidite che riducono tutte le possibilità di trasformazione a semplici consigli a perseguire il vegetarismo o a impostare discussioni sulla giustezza morale del rispetto per la vita degli animali e sorprende che pensatori così profondi siano convinti che lo specismo possa essere combattuto a suon di dimostrazioni. Qualcuno ha sostenuto che lo specismo è: “Un’ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali”[13]. Leggere bene: “...creata per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali”! Si dovrebbe sempre tenere ben presente ciò che purtroppo tendiamo a dimenticare: e cioè che l’ideologia si nutre di se stessa. Un’ideologia non è un complesso di proposizioni di fisica, chimica o matematica. L’ideologia è un velo costruito apposta per nascondere e non per svelare. Nel caso che stiamo affrontando, l’ideologia specista non è prodotta per dimostrare che è legittimo torturare e massacrare animali, ma per potere continuare a farlo come pura e semplice pratica sociale. Insomma, non serve per chiarire, ma per confondere; non per dibattere, ma per chiudere il discorso. Ne consegue che non si può pensare di combattere l’ideologia specista contrapponendo l’ideologia antispecista perché essa è incessantemente rigenerata dalla pratica dell’uccisione e dello sfruttamento degli animali. Infatti le sorti dell’ideologia non si giocano sul crisma della razionalità, ma su quello dell’interesse o, per toccare le strutture più intime della specie, della volontà a perseguire scopi pulsionali: io voglio continuare a cacciare; voglio continuare a cibarmi di carne; voglio continuare a commerciare in animali eccetera. Non c’è nulla che possa scardinare queste volontà su base razionale perché la volontà esprime un bisogno strutturato e imperativo. Solo in casi dalla natura ancora incerta e di difficile interpretazione che contemplano sia fattori innati che acquisiti, si sviluppa quella specie di illuminazione che consente ad alcuni il passaggio da una visione all’altra. Ma appare chiaro che su queste illuminazioni non è possibile fare grande affidamento. I salti nei comportamenti di massa possono avvenire solo in seguito a vere e proprie rivoluzioni.
Queste poche note dovrebbero essere sufficienti per comprendere come la Filosofia Morale, dopo aver delucidato il motivo per il quale gli animali hanno dei diritti – a prescindere dalla sua efficacia analitica –, finisca per zittirsi nel momento di dare delle indicazioni. Non a caso Singer finisce per plaudere a iniziative dubbie interpretate come pietre miliari nella strada della liberazione quando non sono altro che adattamenti a circostanze e mode (produzione di carne con criteri attenti al benessere animale: “Today, factory farming is the mainstream”) e Regan giunge a diluire le sue possenti analisi in conclusioni che sorprendono per la loro natura semplicistica. Nel suo libro “Gabbie Vuote” è possibile rilevare un passo irritante per la palese inconsistenza, per le critiche ai violenti, per il buonismo indistinto che manifesta:
“Se c’è qualcosa che ho imparato in tutti questi anni di attivismo per i diritti animali è che gli ARA [acronimo che in inglese significa «Animal Rights Advocates», cioè “animalisti” n.d.r.] che rispondono a questo stereotipo [di violenti n.d.r.] sono l’eccezione, non la regola. La grande maggioranza degli ARA è gente comune: vicini di casa e soci d’affari; la famiglia che gestisce la copisteria o la tintoria del quartiere; il ragazzo che si allena vicino a te in palestra; studenti e insegnanti della scuola locale; la solista del coro della chiesa; adolescenti appartenenti a qualsiasi congregazione religiosa; la coppia di volontari che milita in un’associazione di beneficienza; muratori, infermiere e medici; avvocati e assistenti sociali; bianchi, neri, marroni, rossi, gialli di ogni forma e dimensione...”
Siamo di fronte a un atteggiamento mentale di tipo moralistico che precipita in conclusioni fastidiose e banali. In effetti, quando si giunge al che fare, nelle proposte si colgono i riflessi del protezionismo dal quale i grandi pensatori liberazionisti si differenziano soltanto per avere alle spalle un corpus teorico notevole. Insomma, il modello fondamentale sotteso dai filosofi morali consiste nell’idealizzazione di una comunità non chiusa (la loro), con ampie capacità di influenza all’esterno, protesa alla ricerca dei fondamenti dell’Etica Universale, nell’ipotesi che la verità disvelata filtri osmoticamente nella società la quale, così illuminata, implementi nella pratica le loro conclusioni dando impulso a una legislazione adeguata. Ed ecco allora che i diritti umani diverrebbero un modello da reimpiegare per dischiudere la grande stagione dei diritti animali. Questa tendenza è errata almeno per due ordini di ragioni.
·
I diritti umani non nascono per gentile
concessione di qualcuno e sono il frutto di processi storici in cui
si esprimono conflitti sociali durissimi che hanno comportato grandi
sacrifici; pertanto non possono nascere per semplici narrazioni o
illustrazioni (in questo caso, del dolore animale); si può
intuire come, in un contesto di specismo diffuso e radicato, non vi
sia affatto la volontà di incamminarsi, sia pure a passi
lenti, verso l’accoglienza dei diritti animali. Inoltre i
diritti umani sono sempre soggetti a revoca sulla base di condizioni
eccezionali che di eccezionale non hanno quasi mai niente. Basta che
il campo avverso alle elìtes che gestiscono il potere, per
condizioni storiche mutate, perda la capacità contrattuale
acquisita in precedenza.
·
I diritti umani non sono i diritti animali. Non
gli somigliano per niente, soprattutto nella prospettiva
liberazionista. I diritti umani sono riconosciuti in quanto
attribuiti a soggetti che occupano un posto nella società,
mentre i diritti animali non sono né sociali, né
civili, né politici, bensì semplicemente biologici, e
per essere espletati presuppongono la liberazione non solo dal giogo
umano, bensì dalla stessa presenza umana, giacchè essa
nella prospettiva liberazionista non si giustificherebbe in alcun
modo. Con queste affermazioni si prendono le distanze anche dal
concetto di “diritti” secondo l’idea protezionista
che, come si è visto, possiede una natura welfarista, ovvero
finalizzata al benessere dell’animale che vive presso l’essere
umano[14].
Preso atto di questo, dopo aver affermato che “se gli umani hanno diritti inerenti alla loro natura anche gli animali ce l’hanno”, considerato che la società specista non solo non vuole riconoscerli, ma nega persino il confronto con tesi ormai assodate, il liberazionista dovrebbe dimenticare l’animale, dismettere le categorie morali ormai vagliate da tutti i punti di osservazione [15], affrontare la società ponendo le basi delle categorie politiche necessarie per contrastare chi quei diritti si rifiuta di riconoscere. Finalmente ci troveremmo di fronte alla nascita di un nuovo pensiero capace forse di scrivere il capitolo definitivo nel grande libro umano della filosofia politica. A tutt’oggi questo rivolgimento non è avvenuto e i filosofi morali che si pongono il problema dei diritti animali, di fatto, dopo aver deposto la penna finiscono per trovarsi in sintonia con le posizioni riformiste del protezionismo. Purtroppo, quando si intravvede l’inammissibilità di uno scempio di dimensioni immense, la dimensione della testimonianza non basta più.
E’ nella logica delle cose che i figli uccidano i padri. Naturalmente ci serviamo di una metafora per indicare che quando una via viene scoperta o tracciata, c’è sempre qualcuno che ritiene di doverla percorrere fino in fondo accusando i pionieri di incoerenza o arrendevolezza. Non è strano allora che nei paesi anglosassoni – sulla scorta delle produzioni filosofiche sopra descritte – si siano sviluppati movimenti radicali passati all’azione diretta inducendo, in seguito, comportamenti analoghi nel Continente. Abbiamo accennato a gruppi di attivisti che, a rischio di anni di galera, si impegnano concretamente per liberare animali da sperimentatori e macellatori. Le azioni vengono spesso filmate da un operatore al seguito sia per documentare l’avvenuta liberazione e le condizioni in cui gli animali sono tenuti, sia per diffondere la cultura della liberazione[16]. Qualche volta si vedono danneggiamenti dei beni di coloro che hanno delle responsabilità nel trattamento violento verso gli animali. Questo complesso di attività costituisce la prassi caratterizzante, anche se non esclusiva, del liberazionismo pratico.
Considerando il numero limitato di liberazioni (peraltro non risolutive dato il criterio del rimpiazzo a cui il feroce nemico può sempre ricorrere), esistono naturalmente altre forme di azione. A prima vista il liberazionista non è molto distante dal protezionista; infatti, come abbiamo già visto, la sua attività principale consiste nell’organizzazione di banchetti e conferenze e nella produzione di materiali per diffondere il veganismo e la cultura dei diritti animali. Quel che lo rende diverso è la rinuncia a qualsiasi commistione con la zoofilia, un rigoroso sistema di principi, un regime di vita intransigente basato sul rifiuto ad usare qualsiasi derivato animale, un’aspirazione a spingersi oltre che contrasta naturalmente con lo strano spirito di quiete e arrendevolezza tipico dei protezionisti. Insomma un radicalismo ben fondato sulla consapevolezza che la questione animale non richiama la semplice attività di volontariato tipica del protezionismo, ma un intenso investimento psicologico che spesso si traduce in una forma di militanza totalizzante.
Da alcuni anni i liberazionisti tentano la strada dei coordinamenti, forme deboli, anzi, debolissime di organizzazione a tempo e finalizzate al raggiungimento di un obiettivo specifico. Si individua un bersaglio, l’industria della pelliccia o un istituto che pratica la vivisezione e si incomincia a colpirla in modo diretto con manifestazioni continue, o indiretto, agendo sui fornitori per distoglierli dalla loro partnership. Si tratta di campagne molto combattive che spesso raggiungono obiettivi parziali ma degni di rispetto.
Anche la forma organizzativa adottata descrive qualcosa su questi gruppi. Essi non si strutturano in associazioni perché hanno il timore di finire come i soggetti delle loro critiche. Non sono neppure gruppi effettivi, ma aggregati di attivisti che le circostanze riuniscono al di fuori di qualsiasi organizzazione interna che vada oltre l’obiettivo diretto prescelto. Sono unioni che possono scomparire con la stessa rapidità con la quale si costituiscono. Il loro cemento è l’amore viscerale per gli animali, o, il che è lo stesso, l’angoscia che deriva dalla conoscenza del destino riservato alle povere vittime; ma in ossequio ai tempi, e al tipo umano ormai più diffuso, è un cemento che non amalgama gli individui come poteva avvenire per altre ideologie del passato. A ciò si può aggiungere forse, una giustificata diffidenza per la specie umana che gioca un ruolo notevole nel creare incertezze anche nelle relazioni tra gli attivisti liberazionisti.
Le azioni dei liberazionisti, soprattutto quelle che comportano pericoli, sono encomiabili e degne della più alta stima considerato che sottoporsi al rischio di perdere la propria libertà per motivi ideali è espressione suprema di generosità; nondimeno è necessario confrontare l’attività dell’animalismo liberazionista con i risultati che persegue. Allora si rileverà la debolezza di questa pratica che, lungi dal concretizzare risultati e di stabilizzarli, assomiglia a un’esasperante penitenza di Sisifo. Ogni volta che gli attivisti liberazionisti si radunano per discutere le prospettive del movimento sono costretti a constatare che, nel caso migliore, la situazione rimane stabile. Ecco come si esprime un attivista che si volge all’indietro come l’Angelo della Storia di Walter Benjamin, per valutare lo stato del movimento:
Siamo giunti in un periodo dell’anno dove tutti facciamo auguri, dove facciamo bilanci per l’anno che sta per finire, dove facciamo propositi e progetti per il prossimo anno. Ma per noi attivisti per i diritti e la liberazione animale, guardarsi indietro è doloroso, le battaglie, l’attivismo, spesso per noi non sono coronati da successi, o per lo meno è difficile non avere a volte la sensazione di combattere contro i mulini a vento o di sbattere continuamente contro un muro di gomma. Io per lo meno, guardandomi indietro, non riesco a capire se le cose, da un punto di vista animalista siano migliori o peggiori dell’anno prima. Ma nemmeno guardando indietro di anni si ha la sensazione di un significativo miglioramento: a fronte di una maggior consapevolezza della sofferenza animale e della maggior sensibilità generalizzata verso i maltrattamenti e lo sfruttamento animale (almeno nei paesi occidentali), non c’è un conseguente cambio di abitudini da parte della gente che porti ad una vera diminuzione di sofferenza animale[17].
E’ evidente che lo sconforto nasce dalla preponderanza delle forze dello specismo che condizionano la cultura e i media, le istituzioni e le tradizioni e rendono la battaglia liberazionista un autentico assalto al cielo. Tuttavia bisogna riconoscere che molto potrebbe essere fatto se solo si uscisse da una tradizione che si fonda – persino facendosene vanto – su una serie di limiti la cui radice sarà analizzata più da vicino nel prossimo capitolo.
Essi sono:
-
l’occasionalismo
-
il velleitarismo
-
lo spontaneismo
-
la mancanza di organizzazione
Per “occasionalismo” si intende la tendenza a intraprendere un’iniziativa sulla base di una situazione fortuita dipendente da circostanze contingenti. La campagna “Chiudere Morini”, per esempio, si è sviluppata a seguito di un blocco alla frontiera di un furgone che trasportava beagle destinati alla vivisezione. Questo è un caso eclatante, ma accade spesso che le iniziative vengano prese sulla base di notizie orecchiate degli attivisti per vie traverse. Insomma, un’evento o una informazione determina un’azione. Non è esclusa la possibilità che l’iniziativa nasca anche da una precisa scelta del gruppo che la porterà avanti, ma non essendo posta all’interno di un disegno generale, di un progetto, la sostanza delle cose non cambia. Il modello seguito è quello “spontaneista” che fa dell’azione un fatto isolato o una iterazione di fatti isolati e scoordinati tra loro la cui efficacia finisce per risultare bassa o nulla. Il tutto avviene all’interno di un approccio in cui l’organizzazione massima è quella inerente all’azione stessa, ma non va oltre. Non esiste per esempio, come nei partiti tradizionali di un tempo, un programma di lungo periodo seguito nelle sue varie fasi e capace di misurare la resistenza che la società oppone nei confronti delle istanze animaliste avanzate. Infine il velleitarismo si manifesta in due modi: 1) nello scarto tra la potenza ambiziosa di un’idea che, se realizzata, trasformerebbe con la natura umana l’intero pianeta, e la pochezza di risorse disponibili e di iniziative intraprese; 2) nella iniziale sopravvalutazione dell’efficacia delle liberazioni o delle iniziative messe in campo; sopravvalutazione che di fronte agli inevitabili scacchi, si trasforma in quella endemica frustrazione che rappresenta il peggior male del movimento liberazionista[18]. Insomma, con le azioni scelte (diurne o notturne, cioè pubbliche o destinate a infrangere la legge), il liberazionismo non si presenta molto efficiente: i risultati fin qui ottenuti e i limiti oggettivi dell’azione liberazionista dovrebbero perciò convincere i più resistenti a affrontare la necessità di ricercare alternative.
Altre difficoltà si aggiungono alle precedenti. È necessario però avvertire che gli aspetti che tratteremo non sono tipici del liberazionismo, bensì di tutte quelle formazioni moderne comprese sotto l’appellativo “movimenti”. Infatti, i quattro limiti del liberazionismo, cioè l’occasionalismo, il velleitarismo, lo spontaneismo, l’assenza di qualsiasi forma di organizzazione stabile, sono tutti aspetti che contrassegnano la prassi di quegli strani oggetti oggi definiti con tale espressione e si può affermare con certezza che nessun movimento, almeno in Occidente, può dirsene immune. Non era scontato che dovesse finire così. Se ciò è accaduto, lo è stato in virtù del fatto che la politica ha assunto una connotazione piuttosto negativa. Per comprendere la natura di questa reazione di disgusto verso la politica – reazione essenziale per valutare le caratteristiche dei movimenti odierni – occorrerebbe percorrere il sentiero dei travolgenti processi che hanno investito l’Occidente nell’ultima parte del secolo scorso. Per ovvie ragioni non possiamo compiere questo percorso, tuttavia possiamo gettare un breve scandaglio su quella parte di società moderna che sfugge alle più raffinate forme di omologazione e che costituisce l’oggetto dei nostri interessi.
Fino a oggi, nonostante il perfezionamento delle tecniche di condizionamento di massa, nessun sistema sociale complesso è riuscito a ottenere un consenso generalizzato e assoluto. Una parte della popolazione, una parte variabile a seconda delle situazioni storiche concrete ma ovunque minoritaria, sfugge all’ordine simbolico che genera l’individuo borghese unidimensionale e acritico; tuttavia anch’essa sembra aver perduto la fiducia nella politica. Questi umani, adattandosi al senso comune, hanno accettato l’idea secondo cui la politica attuale – quella delle istituzioni attuali – viene universalizzata e ridotta a politica naturale che può esprimersi soltanto come gestione e non come progetto. Il progetto, essi pensano, sta altrove, nelle esigenze della popolazione e si esprime con le manifestazioni autonome trasmesse dai movimenti. L’ordine simbolico dominante, se non riesce a conquistare questi soggetti critici, riesce però a disamorarli per quella politica che ormai viene percepita tanto da loro quanto dai cittadini normali come semplice gestione dell’esistente. Naturalmente da prospettive diverse: i primi perché la vedono inadeguata a attuare le grandi trasformazioni di civiltà; i secondi perché non vedono realizzati, come vorrebbero, i loro interessi particolari. Così, mentre i secondi scivolano nei veleni dell’antipolitica i primi, un miscuglio di alternativi, anticonformisti, altermondisti, simpatizzanti di sinistra, incappando nel clima ideologico del nemico – la politica è amministrazione e non può essere altro! – rinunciano all’arma della politica e cadono in una visione movimentista che possiamo comprendere sotto l’espressione di “postpolitica”.
“Postpolitico” è il termine che abbiamo scelto per indicare la modalità con cui quella massa di popolazione che si rispecchia nella sinistra radicale, verde, ambientalista, pacifista crede di svolgere una funzione politica. Essa non può essere certo considerata apolitica, caratteristica tipica dell’individuo che si ritrae nei suoi spazi di vita esistenziali e quotidiani. Nemmeno antipolitica considerando questa come categoria associata alla critica antistatale del qualunquista borghese che paga troppe tasse e che trova riferimenti sia nei partiti di opposizione che di governo. Postpolitico sta dunque a indicare una posizione che crede che la politica vera risieda nei movimenti. Purtroppo il comportamento postpolitico può nascere, agire temporaneamente, ma, come vedremo, non può evitare di subire periodiche scomparse[19]. I movimenti non ammetteranno mai di “non fare politica”. Per loro fare politica significa adottare comportamenti destrutturati (manifestazioni o proteste, dichiarazioni o conferenze stampa, sabotaggi o azioni nonviolente) nel tentativo di indurre lo Stato e le sue istituzioni a ascoltare il popolo e attuare la soluzione ai problemi di cui essi si sentono espressione autentica.
Ma questa è una vera svolta rispetto alla politica del ‘900 in cui il movimento di classe si rendeva autonomo rispetto allo Stato ipotizzandone l’assalto e la conquista con la implicita cancellazione dell’avversario e della sua volontà e la fondazione di nuove istituzioni. Per questo obiettivo il movimento si strutturava in un modello che coordinava l’azione collettiva sulla base di una organizzazione capillare che richiamava l’esempio della disciplina militare. Allora questo era possibile perché vi erano le due condizioni necessarie perché ciò si verificasse: il proletariato, che costituiva una gran parte del mondo del lavoro (e quindi della società), aveva interessi che oscillavano in uno spettro piuttosto limitato finalizzato a una dignitosa esistenza preclusa dal sistema vigente e promessa da un sistema a venire; poi perché i loro spazi di vita coincidevano con quelli dove si propagava il virus rivoluzionario grazie alla concentrazione imposta dall’organizzazione del lavoro del macchinismo.
Oggi i movimentisti assumono che i modelli organizzativi del passato siano non solo perduti[20], ma addirittura d’impaccio perché priverebbero gli ambienti della contestazione sociale della loro diversità interpretata come effettiva ricchezza del movimento. Difficile dire se si tratti del classico caso della “volpe e dell’uva”. Probabilmente questa strana idea, assai comoda per consolidare lo status quo, è un prodotto della cultura borghese che, filtrata nelle coscienze, finisce per sviarle. Insomma, la disciplina rivoluzionaria è la componente fondamentale per dare sostanza a trasformazioni effettive ma la sua esistenza presuppone condizioni sociali ben precise che oggi, purtroppo, sono indebolite e marginalizzate.
Da questa situazione occorre partire per comprendere i movimenti. Che lo vogliano o no, che ne siano consapevoli o meno, essi sono figli di un tempo che struttura in modo esasperato la società – al punto che è stata coniata l’espressione “società sistemica” – e destruttura ogni forma di contestazione rendendola vana. Il movimento per la pace non riesce a evitare il proliferare delle guerre; i vari movimenti che si propongono di sostenere la Giustizia la vedono soccombere ogni giorno sotto i colpi dell’ingiustizia; i movimenti ambientalisti lanciano inutili appelli per una Terra morente. Insomma pare che un movimento che si ponga un grande problema sia solo l’attestazione pubblica del problema e nulla più. In casi più locali o meno globali (Tav, termovalorizzatori, battaglie contro le discariche) le sconfitte sono le stesse. Le manifestazioni più intense e partecipate riescono a ottenere al massimo una dilazione dell’inevitabile conclusione.
Così si sviluppa una duplice tendenza: da una parte la cultura di contestazione dei movimenti comporterà un sostanziale disprezzo per la politica e una diffidenza (per non dire assoluta sfiducia) verso le istituzioni; ma dall’altra, individuati i grandi temi sui quali intervenire, chiederanno proprio al sistema politico di elaborare soluzioni soddisfacenti nell’illusione che la loro azione si propaghi all’intera società e costringa le istituzioni a regolarsi di conseguenza. L’idea, in ultima analisi, è che il Sovrano – cioè il popolo – si riprenda il potere risanando le istituzioni[21]. Come ciò sia possibile, partendo dalla condizione di instabilità emotiva e dalla rigidità conformista dell’individuo moderno, non è dato saperlo[22]. Del resto si tratta di una convinzione che alligna nella sorprendente tendenza al moralismo che investe questi naufraghi della politica. Poiché non sono in grado di produrre organizzazione e di costruire politicamente quella coscienza invocata in modo ricorrente, devono confidare che tale consapevolezza – ritenuta imprescindibile per fondare istituzioni rinnovate – si manifesti in una serie infinita di illuminazioni degli individui grazie al messaggio taumaturgico degli attivisti.
E’ sorprendente come questo meccanismo diabolico, registrabile in qualunque parte del cosiddetto mondo avanzato, non generi la necessaria capacità autocritica che evidenzi la natura perdente di tale scelta. Già, perché un conto è essere prigionieri del proprio tempo e limitati (non privati...) nella possibilità di utilizzare modelli organizzativi che, lungi dal configurarsi come passatisti, si manifestano come le condizioni universali necessarie – certo non sufficienti – della trasformazione sociale. Un altro è magnificare la propria disperante condizione. Nel primo caso potrebbero essere tentate ricostruzioni parziali e provvisorie di modelli politici antagonisti a quelli vigenti atti a raccogliere frutti in tempi migliori, giacchè non è escluso che in futuro non sia nuovamente possibile attualizzare schemi a torto considerati novecenteschi[23]. Nel secondo, che lo si voglia o no, si diventa persino parte del problema che si intende risolvere. Si assiste perciò al paradosso di aggregazioni sociali agguerrite sul piano delle convinzioni relative alle contraddizioni della nostra epoca, ma incapaci di farsi strumenti politici essi stessi, di rendersi autonomi e portatori in proprio della visione del mondo in cui credono. Il risultato, in assenza di qualche nuova grande mutazione sociale di cui per ora non s’avverte il segno, è quello di rimanere succubi dei propri sogni.
Occorre considerare le caratteristiche soggettive dell’individuo che partecipa attivamente nei movimenti. E’ appassionato, ma le delusioni non gli permettono di investire in se stesso oltre una certa misura; spera, ma è disperato; crede nella gente, ma è disincantato. No, non s’è dissolto il principio di non-contraddizione. Piuttosto entra in gioco la dimensione temporale nella quale si rinnova, come nel mito dell’araba fenice, un’azione limitata nel tempo e destinata a spegnersi in seguito all’inevitabile scacco[24]. Certo c’è anche chi decide di chiudersi nel privato dopo un bel numero di tentativi, ma negli altri casi si può osservare un’oscillazione che dura tutta la vita e testimonia generose caparbietà. Tutto però viene impostato su piccole relazioni fatte di persone che si riuniscono e decidono un’iniziativa, senza la volontà (capacità?) di costruire una soggettività che trascenda i singoli. Appunto un’organizzazione che si ponga l’obiettivo politico di un risanamento di civiltà assumendolo come finalità propria da non delegare a nessuno: in particolar modo a istituzioni asservite alla semplice riproduzione sociale nel segno del capitale.
Giungiamo dunque al soggetto animalista-liberazionista. Egli ricalca sia le caratteristiche personali che quelle di gruppo attribuite agli altri movimentisti. C’è solo un’aggiunta che riguarda la destinazione delle sue attenzioni: l’animale non umano. Per il resto non ci sono differenze. Anche il liberazionista non ha una visione politica, nel senso di una concezione costruttiva del mondo che si vorrebbe. Anch’egli, per quanto sia disposto a infrangere la legge per un bene superiore, è costretto a sperare unicamente nella capacità di perfezionamento morale della società che finalmente accetti di bandire i comportamenti criminali sugli animali forzando il Legislatore a sottrarsi agli interessi delle lobby della carne, della sperimentazione, del commercio animale. Anch’egli non comprende come la coscienza delle persone sia un obiettivo da conquistare con un conflitto sociale che non si basi unicamente nella comunicazione.
Infatti rilevarlo presuppone una visione politica e non postpolitica; avere una visione politica non significa soltanto cogliere la fondatezza politica del problema che si desidera affrontare. Questo è ovvio per la maggior parte dei liberazionisti (così come per tutti i militanti di movimenti altermondisti), ma è solo l’inizio, è solo il presupposto per proseguire. Se poi non si riesce a superare quest’affermazione di principio per trasferire la propria prassi nella dimensione del politico, si rimane serrati in un panorama spento e svigorito. Una visione politica, infatti, presuppone costruire l’uno a partire dal due, unire i frammenti, smussare i conflitti interni, tenere presente e organizzare la questione fondamentale del proselitismo. Presuppone concentrare le forze, stabilire progetti, controllarli nel loro svolgersi e modificare gli obiettivi strada facendo. Presuppone, consolidata la riva della filosofia morale che descrive gli ormai svelati diritti calpestati, esplorare la riva della filosofia politica che sonda la legittimità di un potere che tali diritti calpesta. Presuppone comprendere come sia necessario ridurre la pressione su parti della società civile (venditori di hamburger, pellicce, bistecche) per aumentarla verso il Potere (il)Legale. Presuppone l’abbandono di quegli occasionalismi, velleitarismi, spontaneismi, disorganizzazioni che costituiscono la cifra più interna di ruote che girano a vuoto e di cui i coordinamenti liberazionisti sono l’esempio più eclatante.
Proprio sui coordinamenti la Redazione di “Nemesi”, un interessante periodico liberazionista, lanciava un dibattito per l’approfondimento tematico sulle esperienze fino allora condotte. In una pagina del primo numero si leggeva:
_______________________________________________
Pregi, limiti e prospettive delle campagne pubbliche di
pressione.
Tre anni e mezzo fa nasceva SHAC Italia; tre anni
fa NoRBM; 2 e mezzo fa CHIUDERE MORINI; 2 anni fa ANTIPHARMACIA; 1
anno fa AIP: tre di esse sono ancora attive; alcune si sono spente;
nessuna ha ancora raggiunto la meta.
- quali effetti hanno scaturito sul lavoro delle aziende
combattute;
- quali i rispettivi risultati parziali;
- quali
valori hanno sostituito nel movimento animalista e quali aggiunto
-
in cosa hanno mancato;
- quanto hanno esposto i partecipanti a
problemi legali e quanto poteva
essere
evitato;
- quali prospettive;
- su quale tipo di visione della
società si muovono: settoriali da principio
alla
fine o ricche di sbocchi rivoluzionari.
_______________________________________________________
Vanno rimarcati due fatti. In prima battuta una serie di domande retoriche che purtroppo ammettono risposte predefinite e poco confortanti. Poi la difficoltà obiettiva a promuovere un dibattito. L’invito è stato seguito da un paio di interventi, perché la stanchezza sembra annidarsi ovunque. Duole dirlo, chi vuole rimettere un po’ d’ordine nel mondo umano, chi ha abbracciato una causa così immensa e disperante come la liberazione animale non può pensare di farlo con gli strumenti, le risorse, l’organizzazione oggi esistente. Deve dotarsi di un’altra strumentazione. E’ vero: anche con questa difficilmente vedrebbe risultati tangibili, ma chi entra in questa prospettiva sa benissimo di dover lavorare per tempi lunghissimi e di essere il primo elemento di una staffetta che si muove in un tunnel oscuro. Qualcuno ha detto: “il seme non vedrà mai il frutto”. Ma almeno il seme frutterebbe.
Tra il 2002 e il 2003 una sezione territoriale di una associazione protezionista organizza una manifestazione di protesta presso un’azienda specializzata in ricerche biomediche che pratica la sperimentazione animale. Gli attivisti fanno molto rumore non soltanto davanti alla fabbrica di morte, ma anche presso la stampa locale segnalando la loro coraggiosa iniziativa. Conformemente alla tradizione dell’associazione, la protesta viene abbandonata dopo alcune dimostrazioni, poiché, come è noto, il motto nello stemma scolorito dei protezionisti è: “Non esagerare!”.
Ma la porta dell’azienda contestata non rimane sguarnita. Alcuni liberazionisti rilevano la protesta in una tanto ideale quanto non desiderata staffetta sfruttando l’occasione (vedi alla voce “Occasionalismo”), istituiscono un coordinamento, aprono un sito per diffondere nell’ambiente la notizia sull’apertura del nuovo fronte – questo è stato un periodo vitale in cui sono nati diversi coordinamenti – e, soprattutto, incominciano a picchettare l’azienda, a distribuire volantini, a indire conferenze stampa. Alla domanda: “perché proprio quella azienda”, la risposta è: “Da qualche parte bisogna pure incominciare” (vedi alla voce “Spontaneismo”). La protesta va avanti con grande dispendio di energie e con un sacrificio encomiabile da parte degli attivisti per circa un anno con l’intenzione di ottenere degli effetti concreti (vedi alla voce “Velleitarismo”) finché lo strepitio di sindaci, parlamentari, sindacalisti locali induce la questura a non autorizzare più la protesta davanti all’azienda per motivi di ordine pubblico. I manifestanti vengono quindi confinati a distanza in modo da non venire a contatto con i lavoratori che entrano e esono dall’azienda. Ma la protesta va avanti ancora per sei mesi con tamburi e fischietti da un parcheggio lontano finchè ulteriori lamentele dei benpensanti di cui sopra, inducono la Questura a vietare definitivamente le proteste impedendo iniziative ulteriori. Tutto si conclude? No. L’azienda in questione denuncia una quindicina di attivisti per il contenuto degli slogan declamati (gli stessi utilizzati abitualmente in analoghe proteste). Ovviamente una ritorsione. Si sancisce così un principio. Ciò che non è reato lo diventa in virtù della sua iterazione. Ma la conclusione è ancora più sorprendente. Al processo gli attivisti si presentano con un avvocato a testa dimostrando di non considerarsi un gruppo strutturato (vedi alla voce “Assenza di organizzazione”). Inoltre, cedono alle pretese degli avvocati difensori di trasformare un processo politico – che è tale quando istituzioni pubbliche e private, con azioni persecutorie, impediscono a alcuni cittadini di mettere in pratica diritti costituzionali – in un processo di offese. In altri termini, la battaglia per i diritti degli animali si dissolve perdendo ogni specificità presso un’opinione pubblica distratta.
Concludiamo con un’osservazione che permette di comprendere le relazioni che spesso vigono tra gruppi liberazionisti. Alla conclusione di questa sfortunata e triste vicenda, alcuni liberazionisti portavano un duro attacco all’iniziativa del Coordinamento accusato di non accompagnare l’antivivisezionismo a una critica “all’industria farmaceutica o ai fini della ricerca” che disprezza non solo gli animali, ma anche gli uomini lavorando non per il loro benessere in quanto tale, ma per il profitto, il vero motore di ogni significativo movimento di capitali. Critica corretta e vicina allo spirito che queste pagine vogliono trasmettere. Ma essa è anche la conferma che le frange più avanzate del movimento liberazionista, pur avendo individuato correttamente i nodi teorici, sono incapaci di tradurli in veri strumenti di lotta. Con il risultato che le critiche, anziché costruire un nuovo percorso, rimangono giuste ma estemporanee venendo inoltre percepite come attacchi ingenerosi da parte di chi sente di essersi impegnato a fondo per il proprio ideale.
Note
[1] E’ stato giustamente osservato che esistevano gruppi animalisti radicali anche prima che Peter Singer facesse circolare Animal Liberation, ma è innegabile che tali gruppi abbiano tratto energia nuova dallo sforzo teorico nato in ambito anglosassone. Le sigle di frange radicali che sono nate dopo gli anni ottanta sono state influenzate di certo – sia pur indirettamente – dal lavoro dei due grandi teorici dell’animalismo.
[2] Il danneggiamento di strutture adibite alla tortura di esseri senzienti non è ritenuto “violenza” dai liberazionisti, bensì opposizione alla violenza altrui. Si può contestare questa posizione, ma l’impiego di elementi ideologici del discorso e il disaccordo sugli ambiti definitori rende pressoché inutile girare intorno al problema. L’unico aspetto certo è che l’ALF rifiuta la violenza sulle persone ma non si vieta la distruzione delle attrezzature usate per esercitare violenza sugli animali.
[3] Al di là delle leggende, non esiste una organizzazione ALF nel senso in cui può esistere una organizzazione come l’IRA o l’ETA e questo è il motivo della sua forza in quanto non risulta facilmente infiltrabile dalle forze di polizia.
[4] Screaming Wolf – “Dichiarazione di guerra”, – Ed. Nuova Etica, 2003
[5] Il giorno dopo il medico ha ritrattato sostenendo che la sua era una proposizione descrittiva e non normativa, ma questo non è stato sufficiente a evitargli l’espulsione dal Regno Unito.
[6] “Specista” è un aggettivo derivante da “specismo”, termine apparso per la prima volta nel 1975, coniato da Richard Ryder, ricercatore di psicologia all’Università di Oxford (v. Sabrina Tonutti: Diritti animali. Storia e Antropologia di un movimento – pag. 107 e seg.). Semplificando, “specismo” sta a indicare l’ideologia con la quale nelle società tradizionali si giustifica la relazione di dominio imposta dagli animali umani agli animali non umani al fine di giustificare il loro diritto di ridurre a cose gli altri esseri senzienti. Ma indica anche la stessa organizzazione sociale umana che discrimina di fatto gli esseri sulla base dell’appartenenza di specie. In contrapposizione a “specismo”, il pensiero animalista ha coniato “antispecismo” per definire il movimento di idee e di azioni che combatte lo “specismo”.
[7] Si tratta di un’espressione che sta trovando sempre più spazio negli ambienti animalisti e nelle loro riflessioni teoriche.
[8] Questa pretesa somiglianza di sessismo e razzismo con lo specismo è molto problematica. Lo riportiamo poiché è un tema esposto con una certa frequenza, anche se dovrebbe essere probabilmente invalidato sulla base di riflessioni troppo impegnative per essere affrontate in questo contesto.
[9] Quanto affermato vale per la corrente maggioritaria del liberazionismo. Ma vi sono militanti che hanno fatto propria la visione anarco-primitivista (ben espressa dal già citato Screaming Wolf [v. nota 19]) i quali ritengono l’umanità una specie perduta e irrecuperabile e quindi rinunciano, de jure e de facto, a intravedere la possibilità di perfezionare l’Homo Sapiens.
[10] Qui avviene uno scivolamento di significato associato alla parola “diritti animali”. L’espressione non connota più, come nel caso protezionista, un insieme di richieste di tipo welfarista (v. nota 4 Cap. 5), bensì gli elementari diritti del vivente a non essere violentato, torturato, ucciso, depredato del suo habitat. Questo chiarimento è molto importante per evitare interminabili equivoci.
[11] Talvolta i coordinamenti ottengono anche qualche incoraggiante successo. La campagna AIP ha recentemente costretto alcuni grandi magazzini a rinunciare alla vendita delle pellicce e ultimamente si è saldata con gruppi esteri per boicottare un grande distributore mondiale.
[12] In entrambi i casi si assegna il miglioramento delle condizioni degli animali alla possibilità che spontaneamente o, al massimo, dietro una blanda azione di convincimento, la società si evolva verso un nuovo sentire morale. Gioca il ruolo di fata morgana il fatto che tutta una serie di acquisizioni e di diritti sembrano essersi definitivamente affermati. Allora, se è accaduto per minoranze da sempre sottoposte a discriminazione, perché non potrebbe accadere per gli animali? Ma non è un ragionamento fallace su più punti?
[13] David Nibert, Animal rights/Human rights. Citato in “Brevi note su specismo e antispecismo” di Massimo Filippi (www.oltrelaspecie.org/eventi_seminarioantispecista06.htm)
[14] Una differenza radicale. Al protezionista che guarda alla salute e al benessere dell’animale, il liberazionista chiede: “quale salute e benessere debbano essere assicurate a esseri che non hanno motivo di vivere presso l’umano? Se tale stato debba essere assicurato agli animali, ne consegue che deve essere confermata la loro condizione di dipendenza”. Qui si può osservare il vero salto di qualità, la vera differenza che separa le due impostazioni.
[15] Spesso il liberazionismo teorico alimenta divagazioni che trasformano un terreno fertile in questioni di scuola. Quando ciò accade, e va detto che anche i guru dell’animalismo cadono in questo difetto, significa che l’originaria spinta propulsiva delle idee incomincia a venire meno e ad essere sostituita con polemiche personalistiche di dubbia eleganza.
[16] Si tratta di quelle azioni che in più occasioni sono state stigmatizzate e valutate con una indubbia severità sia da Singer che da Regan.
[17] Paolo XL (Collettivo Antispecista). E-mail 17 dicembre 2006
[18] A ben vedere, la depressione da scarsità di risultati colpisce proprio la componente liberazionista perché fortemente sensibile all’orrore dell’olocausto animale. Pur non potendo generalizzare, si può affermare che il protezionista è molto più pacificato interiormente per un investimento emotivo più moderato.
[19] Può sembrare contraddittorio che queste persone adottino un comportamento postpolitico se designano i loro rappresentanti in Parlamento. Ma non c’è contraddizione. Così come i gruppi sociali corporativi e privilegiati non disdegnano un supporto ai partiti borghesi di opposizione o di governo, salvo poi passare all’antipolitica ogni volta che sono toccati dal gioco delle redistribuzioni di risorse, così questa sinistra fa riferimento ai partiti tradizionali della sinistra. Sarà un caso che i partiti ai quali i soggetti in questione guardano abbiano perso tutti i legami a una tradizione del ‘900, la sola che potrebbe essere utilizzata per tentare di costruire alternative allo stato di cose presente? No, in parte anche la postpolitica, come l’antipolitica (p. es. la Lega) è entrata dentro il Parlamento.
[20] Se si limitassero a questo avrebbero una parte di ragione. Anche se diventa centrale comprendere se tale cambiamento di prospettiva costituisca una parentesi storica o una evoluzione definitiva.
[21] Esiste anche una versione più radicale che presuppone una gestione del potere diretta grazie alla partecipazione e alla localizzazione delle decisioni, non necessariamente di matrice anarchica. L’esperienza di Capitini può essere inquadrata in questa disposizione. Ma è difficile capire come oggi possa essere considerata una soluzione realistica in un mondo spazzato dal ciclone della globalizzazione.
[22] Il sociologo Zygmunt Baumann ha coniato l’espressione “società liquida” per indicare una condizione umana che non riesce a stabilizzarsi per via della fragilità e della mutevolezza dei rapporti in cui la vita dell’individuo è immersa. La fortuna della “liquidità” è stata ultimamente sancita dalla ripresa del termine in molteplici ambiti giornalistici e sociologici. Osserviamo comunque che se di mutevolezza e liquidità è possibile parlare, lo è soltanto in rapporto alla condizione dell’individuo, giacché un ente acritico e soggetto alla variazione dei messaggi, degli umori e dei micro interessi è quanto di più occorre a un sistema di riproduzione sociale che aborre la messa in discussione dei suoi fondamenti.
[23] E’ errato innanzi tutto perché non sono tipici del ’900. In quel secolo hanno visto la loro forma più perfezionata, ma hanno ascendenze più lontane. Inoltre costituiscono il modello di presa del potere negli inevitabili passaggi in cui le strutture sociali vecchie collassano sotto il peso della loro incapacità di riproduzione.
[24] Non a caso, con indovinata metafora, viene rilevata spesso la natura “carsica” dei movimenti.