Capitolo quinto – Il proto animalismo




§29 – Il protezionismo

L’animalismo classico protezionista costituisce un importante salto di qualità rispetto alla zoofilia. Esso scopre l’individuo non-umano, riconosce la contiguità della sua natura rispetto all’essere umano e introduce l’idea che la società non debba concedere benevolenza, bensì imporsi degli obblighi verso il nuovo soggetto; anche all’animale deve essere estesa la regola aurea confuciana che prevede che non debba essere fatto nulla al prossimo che non vorremmo fosse fatto a noi.  L’atteggiamento protezionista aumenta in modo considerevole l’attenzione critica alla condizione animale, incorpora la disposizione d'animo benevolente tipica della migliore zoofilia, ma incomincia a vedere il problema dal lato della vittima ripensando la presenza dell'animale nella società umana e impegnandosi a rimediare gli orrori che l’umanità gli ha imposto.

Nel frattempo si rafforza anche l’atteggiamento generalista. Gli animalisti protezionisti possono anche dedicarsi – per circostanze o per necessità o per una qualsiasi altra ragione – solo ai cani o ai gatti o alle tartarughe ma hanno un rispetto universale verso il vivente e, come primo segno distintivo (segno del resto incompleto se continuano a cibarsi di miele, uova, latte e derivati), non si cibano di cadaveri, (a differenza degli zoofili i quali, ritenendo di aver a che fare con una creatura inferiore, possono benissimo divorare arrosti e salumi senza che il benché minimo senso di colpa venga a turbare i loro sonni). Dunque l'animalismo protezionista costituisce un salto di qualità rispetto al precedente atteggiamento zoofilo al punto che anche i protezionisti si risentono quando vengono chiamati o scambiati-per zoofili. La distinzione risulta molto importante. Tuttavia la distinzione, perfettamente operante sul piano teorico e su quello pratico, non riesce a escludere l’esistenza di una zona grigia in cui i due concetti paiono sovrapporsi e confondersi contribuendo a generare una distorsione percettiva dell’immagine che il movimento offre  alla società.

Possiamo, a titolo d’esempio, considerare un documento che è stato a lungo un punto di riferimento per il movimento animalista: la Dichiarazione Universale degli Animali (DUdA) con la quale, nel 1978 a Parigi presso la sede dell'Unesco, gli animali diventano portatori di diritti. La Dichiarazione presenta le tematiche animaliste con un linguaggio radicale (per l’epoca) mutuato da un lungo processo di pratiche e riflessioni. La Carta si presenta con un incipit d'effetto a cui seguono quattordici articoli che, tra l'altro, stabiliscono l'uguaglianza degli animali davanti alla vita, un complesso di diritti riconosciuti da parte dell'uomo, il rifiuto di maltrattamenti, il rispetto per le specie selvagge, l'abbandono della sperimentazione a qualunque titolo, l'eutanasia, la non ammissibilità di zoo e circhi, l'introduzione dei concetti di biocidio e genocidio, il divieto di rappresentazioni di violenza sui media, persino un abbozzo di alcuni diritti sul lavoro.

Sorprendentemente, però, fanno il loro ingresso due articoli che appaiono evidenti note stonate:

Articolo 9 Nel caso che l'animale sia allevato per l'alimentazione, deve essere nutrito, alloggiato, trasportato e ucciso senza che per lui ne risulti ansietà o dolore.

Articolo 11 Ogni atto che comporti l'uccisione di un animale senza necessità è biocidio, cioè un delitto contro la vita.

Nel primo si stabilisce la possibilità che l’animale possa essere utilizzato per l’alimentazione umana. Nel secondo caso si introduce una distinzione, “senza necessità”, la cui dizione ambigua genera pesanti sospetti sulle intenzioni dell’estensore e del sottoscrittore. In entrambi si può osservare come la cultura zoofila si prolunghi all’interno di una visione protezionistica.

La stessa ambiguità si ritrova in una moltitudine di iniziative associazionistiche nate in tempi successivi. E’ una ambiguità favorita dal fatto che sia la zoofilia che il protezionismo sono accomunati dalla speranza che, a lungo andare, la società sia in grado di accogliere le istanze relative al miglioramento della vita degli animali in seno alla società umana, istanze poi raccolte e regolate dalle istituzioni politiche e giurisdizionali. Lo stile protezionista, in effetti, si caratterizza per essere accogliente. Pretende il rispetto, ma non concepisce una società umana liberata dalla presenza degli animali. Il protezionismo, anzi, conserva l’illusione che la società umana debba intrecciarsi con la presenza di altri esseri viventi. Essi secondo questa visione, conferiscono un completamento, un perfezionamento della società. Gli animali di affezione possono e devono ingentilire gli animi. I selvatici devono essere protetti dai bracconieri e la caccia deve essere abolita. Gli animali servili devono svolgere una attività nel pieno rispetto delle loro caratteristiche etologiche. Gli animali da alimentazione devono essere ridimensionati in numero nella prospettiva dell’adozione di regimi alimentari vegetariani. Questa prospettiva è talmente lontana che gli animalisti protezionisti non si sono mai posti il problema della loro sussistenza in una ipotetica società vegetariana, ma si presume che gli animali domestici da fattoria debbano conservarsi in fattorie modello giacchè la scomparsa di una razza verrebbe registrata come una perdita (altra tipica influenza zoofila...).

Su questa base sono incominciate a nascere, in termini via via crescenti, delle associazioni animaliste che, almeno a livello statutario, affermano di combattere per l’affermazione di obblighi umani verso gli animali. Vediamo come alcune associazioni nazionali e altre a carattere più locale si presentano verso l’esterno attraverso le pagine d’ingresso dei loro siti web.


La Lega Anti Vivisezione (LAV)

I diritti degli animali: il nostro impegno da vent'anni.

La LAV è la principale associazione animalista in Italia, riconosciuta Ente Morale ed Organizzazione Non Lucrativa di Utilità Sociale.
Ci battiamo contro ogni forma di sfruttamento degli animali, con un grande obiettivo di libertà: i diritti degli animali. 
Conduciamo campagne di sensibilizzazione con la forza di 85 sedi locali, l'impegno di centinaia di volontari e il sostegno di migliaia di soci, interveniamo direttamente per la tutela degli animali e promuoviamo azioni legali in casi di maltrattamento. La LAV è membro italiano di "EAR - Europe for Animal Rights", della Coalizione Europea contro la Vivisezione (ECEAE), della Coalizione Europea per gli animali dall'allevamento (ECFA). 

Le nostre finalità:


  •  promuovere il riconoscimento e il rispetto dei diritti degli animali;

  •  abolire la vivisezione, pratica antiscientifica ed immorale, e
     salvaguardare la salute umana

  •  combattere ogni forma di sfruttamento e violenza sugli animali; 

  •  promuovere azioni legali e Leggi in favore degli animali;

  •  condurre campagne di sensibilizzazione e di informazione verso i
     cittadini, finalizzate alla promozione di nuovi consumi che non
     comportino sofferenza per gli animali;

  •  sviluppare progetti didattico educativi rivolti alle giovani generazioni
     con interventi diretti nelle scuole.


La Lega per l’Abolizione della Caccia


La Lega per l'Abolizione della Caccia e' stata fondata nel 1978.
Promuove l'abolizione della caccia, la difesa della fauna, la conservazione ed il ripristino dell'ambiente, con iniziative giuridiche, politiche, culturali, educative, informative ed editoriali.
E' riconosciuta come associazione ambientalista dal Ministero dell'Ambiente ai sensi della Legge 8 luglio 1986, n. 349.
E' membro dell'EFAH (European Federation Against Hunting) presente con 80.000 soci in 14 paesi europei.



Gli Animalisti Italiani


Gli Animalisti Italiani nascono nel 1998, con lo scopo di contribuire a diffondere, nel nostro Paese, una cultura basata sul rispetto del diritto alla vita di tutti gli esseri viventi, uomini e animali, contro ogni forma di violenza, sfruttamento, prevaricazione.
Chi è violento con gli animali è predisposto ad essere violento anche con gli altri "deboli" della società, siano essi anziani, bambini o portatori di handicap.
Gli animali sono esseri senzienti, capaci di soffrire, provare dolore e piacere, amare e comunicare, che hanno valore in sé e non in quanto utili agli interessi dell'uomo, un valore autonomo che li rende soggetti morali portatori di diritti da tutelare.
Gli Animalisti Italiani hanno come obiettivo il superamento del principio che l'uomo possa disporre a proprio piacimento e per proprio tornaconto della vita degli altri esseri viventi, a favore di una cultura interspecifica e biocentrica che ponga al centro la vita.
Gli Animalisti Italiani nascono dunque con l'obiettivo di abolire ogni forma di violenza e sfruttamento sugli Animali ed ogni forma di discriminazione verso le minoranze.



L’UNA (Uomo, Natura, Animali)


Il Movimento UNA, associazione eco-animalista nata negli anni ’80 con sede in provincia di Firenze lavora attivamente per la tutela degli animali, su tutto il territorio nazionale.
L'Associazione, non ha fini di lucro ed é indipendente da ogni e qualsiasi organizzazione politica. Ha lo scopo di perseguire la salvaguardia, il miglioramento e lo sviluppo dell'ambiente naturale e delle sue risorse ed il costante equilibrio nel rapporto uomo-natura; in particolare, il rispetto di ogni forma di vita animale e vegetale, per l'eliminazione di ogni forma di violenza, crudeltà e sofferenza.
I nostri scopi vengono perseguiti attraverso una costante opera di sensibilizzazione e di educazione dei cittadini e delle varie realtà politiche e sociali, all'uso e al rispetto dell'ambiente anche in collaborazione con i vari Enti pubblici interessati.

La sua attività principale consiste nel:


  • promuovere un' etica biocentrica;

  • promuovere il rispetto di uomini, animali e ambiente;

  • promuovere il riconoscimento dei diritti alla vita, alla non
    sofferenza, alla libertà e all'integrità di uomini e animali;

  • tutelare gli animali d'affezione e prevenire il randagismo in genere;

  • promuovere, disciplinare, organizzare attività di tutela del
    diritto degli animali;

  • favorire lo sviluppo di un corretto rapporto uomo-natura-animali,
    sia in ambiente urbano che rurale;

  • favorire la ricerca, lo studio e la divulgazione delle tematiche
    animaliste ed ambientali, mediante l'approntamento di corsi
    di formazione professionale;

  • favorire l'integrazione e la collaborazione con Servizi ed Enti
    Pubblici e Privati che operino nel settore animale e ambientale.


E’ sufficiente una lettura sommaria dei preamboli con i quali queste associazioni si presentano al pubblico per cogliere le caratteristiche essenziali dell’animalismo protezionistico. Esso ha una struttura associazionistica, adotta il concetto di “diritti degli animali” secondo un’ottica welfarista[1] e spesso fa riferimento al perseguimento e alla diffusione di una cultura biocentrica; non esita a specificare come l’attenzione per gli animali non debba essere disgiunta da quella verso gli umani e come gli interessi degli uni e degli altri siano simili; possiede un approccio filoistituzionale e collaborativo con l’ordinamento legale.

Un’altra osservazione obbligata è questa. Spesso gli scopi associativi nascono in riferimento a una problematica specifica – la vivisezione, la caccia –, altre volte partono già con una disposizione generalista. Ma anche nel primo caso, è quasi inevitabile che il suo iniziale orientamento particolarista si espanda in direzione generalista[2]. Le associazioni piccole a carattere locale rimangono invece più legate a uno scopo ristretto che di solito è quello che le ha condotte a costituirsi (per esempio, la protezione dei gatti di determinate colonie feline ecc.). Le autolimitazioni sono da attribuirsi più alla scarsità di risorse che a una diversa impostazione concettuale. Infine non mancano i casi in cui un piccolo gruppo si esprima come evoluzione di una precedente cultura zoofila[3].


§30 – Il ruolo debole del protezionismo

Abbiamo visto l’equivoca impostazione del problema animale da parte della zoofilia. Che emerga a livello di consapevolezza o meno, lo zoofilo presuppone la necessità di un legame uomo-animale che vorrebbe corretto e ricondotto a una relazione ideale di civiltà. La presenza dell’animale nell’ambiente antropizzato è una necessità che non è possibile rifiutare e, anzi, diventa esigenza insopprimibile. Da questo punto di vista, anche se spesso inconsapevole, la zoofilia è, sotto certi aspetti, una visione ideologizzata; non articolata e non strutturata, certo, debole e fondamentalmente inconscia, ma ben disposta sull’insipida pretesa del legame indissolubile tra uomo e animale istituito su relazioni gerarchiche basate sull’appartenenza di specie (detto di passaggio, uno zoofilo non scriverà né penserà mai “... tra animale umano e animale non umano”).

Il protezionismo, invece, si distanzia dall’impostazione zoofila perché non possiede una visione generale del problema. Il protezionismo è una pratica empirica che impone alla sensibilità dei suoi aderenti un lavoro di sostegno della condizione degli animali. Il protezionista si limita a osservare la tragedia che si consuma nei macelli, nelle università e nei centri di ricerca, nelle riserve di caccia, negli allevamenti e tenta di condizionare questo massacro quotidiano con un lavoro di informazione destinato alla popolazione e condotto per mezzo di conferenze, di tavoli informativi, di propaganda vegetariana, di iniziative varie come distribuzione di materiale articolato per categorie di maltrattamento. Si può permettere ulteriori iniziative rispetto agli animali di affezione. Raccogliere cani, gatti, furetti o altri animali maltrattati destinandoli a ricoveri, è più facile che salvare i prigionieri di allevamenti o stabulari, per quanto stiano nascendo oasi di ricovero per animali da reddito o da sperimentazione sottratti a un triste destino con particolari progetti di recupero.

Può fare anche un’altra cosa. Ma prima di parlarne è bene soffermarsi su un altro aspetto. Il protezionismo si fonda sulla costituzione di associazioni. Le associazioni sono delle libere unioni di donne e uomini che decidono di mettersi in relazione per vari motivi: nel caso in oggetto, per attenuare, nei modi possibili, la sofferenza degli animali ritenuti vittime dell’organizzazione sociale umana. Ora occorre annotare che il protezionismo associazionista possiede un approccio filoistituzionale e collaborativo con l’ordinamento legale. Quest’ultimo aspetto, importantissimo, è, a ben riflettere, ovvio: le associazioni ricevono l’imprimatur dallo Stato e ciò comporta un reciproco riconoscimento. Allora si comprende il motivo per il quale la parola più ricorrente negli statuti delle associazioni animaliste-protezioniste sia “promuovere”. “Promuovere” non può significare altro che rivolgersi alla popolazione nelle varie forme concesse dalla legge per tentare di cambiare le abitudini umane e in tal modo salvaguardare i diritti degli animali nell’unico modo ritenuto possibile: eliminare la violenza verso i sensibili per mezzo del convincimento e dell’esempio personale. Proviamo a ragionare per assurdo: se in seguito alla promozione di abitudini alimentari alternative la popolazione si spostasse verso una dieta vegetariana, i produttori della filiera della carne (allevatori, macellatori, veterinari ecc.) rischierebbero di perdere il lavoro, ma poiché le decisioni sarebbero determinate dal mercato (cioè singoli attori liberi di condurre le loro scelte) nessuno potrebbe incolpare nessun altro e la soluzione sarebbe nella logica delle cose. Ai poveri lavoratori a rischio di disoccupazione non rimarrebbe altro che controbattere con le stesse armi assoldando nel libro paga medici, ricercatori, nutrizionisti capaci di spergiurare morte precoce e malattie tremende per i vegetariani; preti assertori della maledizione divina per coloro che rifiutano il cibo che Dio ha consentito; economisti che attribuiscono le difficoltà economiche e occupazionali della nazione alle strambe abitudini propagandate da sette di mistici. Insomma se si verificasse un fatto così incredibile si avvierebbe la dialettica sociale e chi avrebbe filo più lungo potrebbe conquistare le preferenze dei consumatori. Insomma, anche l’ambiente protezionistico-animalista assume la dialettica democratica basata sul consenso e sulla libertà delle scelte del cittadino.

Però è pure vero che un Paese moderno possiede un Parlamento che mediante le leggi emette delle norme che non sono direttamente espresse dalla volontà del cittadino, bensì dai suoi rappresentanti politici. Quando si dice che nelle moderne democrazie il popolo è sovrano, si afferma una verità parziale perché la volontà del singolo scompare attraverso la mediazione del voto. I parlamentari, infatti, possiedono una autonomia assoluta nel legiferare su determinate materie. Non c’è da stupirsi allora se certe forze sociali che rappresentano interessi particolari tentino di indurre il Parlamento a legiferare direttamente su certi ambiti. Così si giunge all’ulteriore e ultima attività associabile al protezionismo: la pressione lobbistica sul Legislatore per ottenere una legislazione che si accompagni a condizioni di rispetto verso gli animali. In definitiva, una associazione animalista potrà, ad esempio, tentare di promuovere una avversione verso la caccia con iniziative pubbliche tese a sviluppare il disprezzo sociale verso questa attività. Ma potrà anche raccogliere firme per una legge di iniziativa popolare o per un referendum nel tentativo di risolvere la questione senza aspettare gli eoni necessari perché cessi spontaneamente.

Riassumendo, il protezionismo svolge azioni indirizzate: 1) verso la società e 2) verso la politica. Siamo ora in grado di comprendere due aspetti che ci conducono a misurare l’impotenza dell’associazionismo protezionista.

Per quanto riguarda le azioni verso la società ben si capisce come i tentativi orientati a convincere la popolazione si infrangano contro una asimmetria di forze così sovrabbondante da rendere del tutto marginale l’influenza dell’animalismo. La conquista di qualche piccolo spazio televisivo o giornalistico che permetta di presentare la mostruosità di un olocausto nascosto ma quotidiano viene salutato con gioia dai protezionisti, ma i più consapevoli tra loro sanno che non appena quello spazio si chiude tutto il rumore informativo che di norma lo nasconde riemerge con prepotenza e riprende a sviare l’attenzione del pubblico. Il fatto è che come nella scienza dell’economia, anche negli aspetti culturali vigono quelle barriere all’entrata che riducono la Democrazia a un puro gioco di specchi. Il condizionamento prodotto dalle emittenti forti di segnali culturali non permette quel gioco equo che, nel caso di proposte di grandi rivolgimenti delle abitudini sociali (come per esempio potrebbero essere le trasformazioni delle abitudini alimentari per motivi etici) dovrebbe addirittura essere rovesciato a favore dell’emittente più debole. Questa dovrebbe godere di maggiore spazio in quanto si trova a operare in una situazione in cui la parte avversa gode già del privilegio di essersi annidata con successo dentro la società. Invece accade il contrario. Influenze di vario ordine ma, soprattutto, economiche hanno già colonizzato l’intimo dell’individuo disponendo, in più, della possibilità di promuovere un colossale sistema di condizionamento psicologico per mantenere il proprio vantaggio. Quindi risulta difficile la modificazione del suo comportamento da parte animalista. Senza contare che, se qualche gruppo più interventista (appartenente alla componente liberazionista che sarà descritta in seguito) tenta di ottenere dei risultati superiori con mezzi diversi rispetto a quelli convenzionali, la società, per mezzo delle sue istituzioni repressive prende spesso le necessarie precauzioni adottando preventivamente la mano pesante per evitare l’evoluzione di iniziative sgradite.

In questo quadro, anche l’attività legislativa a favore degli animali si traduce in vuoti formalismi come si è cercato di documentare (v. §24). Quando un’associazione importante, in virtù di qualche maniglia in Parlamento riesce a strappare una leggina per gli animali (mediamente accade ogni 10 anni) essa si riduce a miserande concessioni. Vi sono poche leggi inerenti al benessere animale, in genere ipocrite, mal scritte, variamente interpretabili e persino riscritte per ovviare a istanze liberali inserite in precedenza o per errore, o in seguito a pressioni indebite dovute a un clima pubblico sfavolevole[4]. Si consideri come in questo Paese, per non pestare i piedi alla società civile[5], non si riesce neppure a produrre una legge che garantisca una condizione di sufficiente protezione ai tanto declamati animali di affezione (v. § 13). Ci si limita a prevedere norme piuttosto elastiche e di fatto lasciate al buon cuore dei proprietari di quei fortunati il cui benessere si traduce in un valore economico per determinate categorie umane[6].

Ecco chiarita l’impotenza strutturale del protezionismo il quale, traendo legittimazione e riconoscimento dalle istituzioni, si dimostra impossibilitato a uscire dalla prigione in cui si è culturalmente formato[7]. Alla luce di ciò, il lettore può esercitarsi a rileggere la lista di intenti prelevata da alcuni degli statuti di associazioni. Se è d’accordo con la nostra lettura rileverà l’assoluta debolezza di certe formulazioni.  

-        promuovere il riconoscimento e il rispetto dei diritti degli animali;
-        combattere ogni forma di sfruttamento e violenza sugli animali; 
-        promuovere azioni legali e Leggi in favore degli animali;
-        promuovere campagne di sensibilizzazione e di informazione verso
          i cittadini, finalizzate alla promozione di nuovi consumi che non
          comportino sofferenza per gli animali; 
-        sviluppare progetti didattico educativi rivolti alle giovani
          generazioni con interventi diretti nelle scuole.
-        promuovere un' etica biocentrica;
-        promuovere il rispetto di uomini, animali e ambiente;
-        promuovere il riconoscimento dei diritti alla vita, alla non
          sofferenza, alla libertà e all'integrità di uomini e animali;
-        tutelare gli animali d'affezione e prevenire il randagismo in genere;
-        promuovere, disciplinare, organizzare attività di tutela del diritto degli animali;
-        favorire lo sviluppo di un corretto rapporto uomo-natura-animali,
          sia in ambiente urbano che rurale;
-        favorire la ricerca, lo studio e la divulgazione delle tematiche
          animaliste ed ambientali, mediante l'approntamento di corsi
          di formazione professionale;
-        favorire l'integrazione e la collaborazione con Servizi ed Enti Pubblici
          e Privati che operino nel settore animale e ambientale.

Formulazioni deboli, certo. Non necessariamente inutili. Ogni ente capace di buona volontà porta il suo contributo ritenendolo importante perché, se sentito, dà un senso alla propria esistenza e favorisce un frammento invisibile di cambiamento. Ma un immenso dolore nascosto, ma vivo nel cuore di chi lo sente, sta lì a ricordarci che ben altre iniziative dovrebbero essere messe in campo per registrare anche i più piccoli progressi.


§31 – Il disastro delle complicanze soggettive nell’ambiente protezionista

Abbiamo chiarito le debolezze strutturali e tipiche del protezionismo. Preso atto che il protezionismo possiede limiti strutturali e serie difficoltà a alleggerire la tragedia della condizione animale all’interno della cultura vigente, si potrebbe tuttavia immaginare che possa assolvere un ruolo minimale, ma concreto, entro la logica welfarista già descritta. In fin dei conti esistono innumerevoli associazioni, alcune anche molto grandi e con cospicue risorse. Esse, tutte insieme, potrebbero esercitare  una specie di azione di lobby e ottenere qualche sensibile miglioramento entro i limiti concessi dalla loro stessa impostazione di fondo. Ma allo stato attuale le speranze di un’azione coordinata che ricomponga su obiettivi importanti le principali associazioni protezionistiche, pur in un contesto di rispetto delle singole specificità associative, sono possibili? In altri termini, si può o non si può confidare in un ruolo minimale, ma utile sia pure entro la logica protezionista? Purtroppo no. Il protezionismo non è in grado di rivendicare quel ruolo che pur potrebbe assolvere, per ulteriori motivi di ordine soggettivo. Le cause della sua assoluta debolezza non stanno tanto nella sua natura dato che l’animalismo debole protezionista è costruito proprio per avere un ruolo di mediazione con le istituzioni, quanto nell’inadeguatezza delle persone che animano queste associazioni a tutti i livelli. I limiti soggettivi introducono fattori a tal punto pesanti da vanificare qualsiasi speranza. Così il protezionismo dimostra una sostanziale marginalità e, se non esistesse, la condizione animale sarebbe poco diversa da quella oggi riscontrabile.

Sia chiaro; incolpare il protezionismo delle violenze subite dagli animali sarebbe ingeneroso. La tradizione antropocentrista con cui l’umano antepone i suoi più insignificanti e futili interessi alle esigenze vitali e di natura psichica e fisica dei Popoli Muti[8] gode di un tale strapotere sulla recentissima sensibilità animalista da rendere impossibile anche la minima inversione di tendenza entro tempi prevedibili. Ma questa difficoltà non può diventare un comodo alibi per giustificare la disastrosa politica di gestione protezionista della questione animale. Non è escluso che, pur entrando nella logica di lento riformismo, qualche piccolo risultato si sarebbe potuto vedere se il livello di inadeguatezza delle associazioni non fosse stato così elevato. Di sicuro la concreta condizione animale sarebbe stata la stessa, ma almeno le prospettive avrebbero potuto essere più promettenti.

Quali sono i motivi di una così pesante disfatta? Nessuno sa quante siano le associazioni in Italia perché manca un censimento preciso, ma di certo sono parecchie centinaia. Molte sono piccole associazioni locali, altre possono contare su una presenza su tutto il territorio nazionale. Sono proprio quest’ultime che hanno la responsabilità dell’aura di inerzia che avvolge il protezionismo. Si è accennato alla duplice funzione verso la società e le istituzioni. Ebbene logica vorrebbe che per quanto attiene alla relazione intrattenuta con le istituzioni, le associazioni, pur svolgendo un’opera finalizzata e particolare (chi per la caccia, chi per la vivisezione, ecc.), si presentassero unite nella richiesta di un pacchetto di proposte al Parlamento, e che facessero seguire le richieste alla necessaria pressione per concretizzarle. Insomma, un’azione di lobby.

E’ noto che nella società odierna la pressione sulla legislazione non viene fatta dai cittadini, come la retorica della democrazia suggerisce per convincere le anime candide. D’altra parte la complessità della società sistemica non potrebbe consentire un collegamento diretto tra i cittadini e il loro delegato. Una volta che l’eletto si insedia, il tenue legame si interrompe. La forza delle cose spinge gli interessi a rapprendersi dando luogo a centri di potere la cui costellazione determina la legislazione e le politiche dei governi. L’idea di “lobby” in genere viene associata ai grandi gruppi monopolistici, ma in realtà le aggregazioni di interessi possono coinvolgere posizioni molto più vicine al cittadino, anche se meno pregnanti di quelle rappresentate dai poteri forti. Così i consumatori, i tassisti, i farmacisti e altre categorie (riesce ormai piuttosto difficile parlare di “classi”) sono in grado di esercitare delle pressioni o delle negoziazioni sia in attacco (quando prendono un’iniziativa) sia in difesa (quando la subiscono). I protezionisti avrebbero da imparare da una categoria a loro prossima, anche se animata da intenzioni opposte: i cacciatori. I cacciatori sono suddivisi in gruppi e associazioni che non si amano, ma quando devono difendere la loro attività si muovono con una impressionante capacità lobbistica.

Gli animalisti protezionisti, no, non sono in grado di operare in modo simile, anzi, si comportano in modo opposto. Se una associazione elabora un progetto, se lo tiene ben stretto finché non trova un parlamentare a cui consegnare la proposta che magari non verrà discussa in tutta la legislatura. Ma i suoi dirigenti sono soddisfatti, perché la loro associazione potrà presentarsi all’opinione pubblica come l’ideatrice di un grande progetto che dimostra capacità di riflessione, di azione e di amore per gli animali. In generale ogni associazione è ripiegata sulle proprie povere iniziative e sulla gestione del proprio marchio che cerca di affermare a spese degli altri. Non solo non cerca un’azione comune, ma talvolta, quando si presenta l’occasione, sgomita per evidenziare la propria azione e oscurare quella delle altre associazioni. Se si creano le condizioni per una manifestazione comune (ogni tanto accade), le partecipazioni non manifestano una precisa intenzione unitaria, ma l’esigenza di rendere visibili i propri simboli e le proprie bandiere per non favorire i concorrenti.

Molte di queste situazioni sono determinate dai personalismi di animali dominanti che hanno colonizzato le associazioni per ragioni che, pur nate sotto intenzioni pure, via via sono diventate sempre più viziate da interessi particolari. Non sono rari i casi di impiego dell’attività animalista come trampolino di lancio verso la carriera politica in onore a ambizioni personali. In altri casi si sono costituite delle perverse condizioni di funzionariato che assorbono ingenti risorse sottratte agli scopi originari. Le ragioni, nascoste anche all’interessato (l’inconscio funziona bene in questi casi), sono sempre le solite: ambizioni, desideri di riconoscimento, ma anche buoni stipendi in nome di un’attività di rappresentanza presso le istituzioni giudicata conditio sine qua non per condurre iniziative a favore degli animali. E non è difficile che si creino le condizioni per le quali, nelle cene di rappresentanza, si dia un calcio alle proprie convinzioni vegetariane.

Dunque, il protezionismo, soprattutto quello costituito da associazioni non piccole, esprime tutte le vergogne tipiche dell’individualismo moderno. L’attenzione alla possibile carriera in gruppi politici ritenuti interessanti, i bilanci non presentati o inferiori al prodotto dei tesserati per la quota minima, l’ansia di protagonismo, le invidie, la pochezza umana di certi personaggi, la mancanza di lealtà verso le altre associazioni, l’arroganza verso le associazioni minori e, per questo, più pulite, sono le gravi colpe che ora questa, ora quella, ora in sinergia tra loro, prosperano dentro le associazioni protezionistiche. Come sempre accade in un’epoca di tramonto delle ideologie gestita da nani, l’organizzazione che nasce con un nobile scopo riduce i suoi interessi nella mera riproduzione delle sue strutture. L’obiettivo diventa durare e basta, naturalmente coprendo questa miseria con grandi campagne che si riducono a semplici distribuzioni di volantini.

Non sempre questo accade. Vi sono delle associazioni oneste che fanno un lavoro degno, intendendo come tale un’attività priva delle miserie che abbiamo riportato, cioè arrivismo politico, smania di protagonismo o uso improprio del denaro. Restano però tutti gli altri difetti: concentrazione intorno alla propria onorevole, ma misera iniziativa, incapacità di ragionare in grande cercando collegamenti con altre associazioni attraverso la formulazione di proposte pur interne alle modalità di intervento del protezionismo, sfiducia nella possibilità di esercitare qualche pressione verso un potere considerato troppo forte, assenza di chiare finalità, tendenza a operare giorno per giorno, soggezione alle frustrazioni derivanti da sconfitte ripetute e ritenute inevitabili, scarsa o nulla capacità di organizzare quelle riflessioni teoriche indispensabili a qualunque iniziativa di una certa complessità. Nei casi migliori il protezionismo è un semplice prodotto naif con un grande cuore, ma con una scarsa capacità di sagionare sul ruolo che potrebbe assumere nella società. Lo si vede anche dai loghi che sceglie: orsacchiotti, pupazzetti, animaletti che ridono nei volantini che vengono proposti con timidezza ai passanti dai banchetti organizzati per un pubblico di norma distratto. La parola d’ordine è “non irritare”, “non infastidire”, trasmettere un’immagine di letizia per suggerire come sarebbe bello il mondo se anche questi esseri potessero vivere felici e liberi. Oppure, al contrario, presentare le violenze (però mediate o filtrate degli aspetti più duri perché – si sostiene – l’eccessiva crudezza di immagini e filmati porta le persone a chiudersi) ma sempre in chiave pietistica e lacrimosa in un perenne timore di invadere la privacy del prossimo. Si comprende come un tale approccio frammentario e riduttivo sia, soprattutto in una società ricca di stimoli comunicativi, sempre coperto da fatti ritenuti più importanti e non emerga a livello di percezione sociale.

Fin qui abbiamo parlato delle soggettività più rappresentative dei gruppi animalisti, ma sotto di loro c’è una massa notevole di soci-attivisti impegnata su più fronti, spesso faticosi, come la gestione di canili, di colonie feline, di campi contro il bracconaggio ecc. Si tratta di persone che dedicandosi con passione alle diverse iniziative maturano l’ovvia aspettativa di conseguire, prima o poi, risultati anche minimi, ma tangibili. Ma come è stato messo in evidenza nella prima parte di questo studio, il dichiarato miglioramento della condizione animale non ha nessun fondamento reale e la condizione generale è perfino peggiorata. Questo fatto genera negli attivisti di base – quelli che hanno meno occasioni di consolarsi con le soddisfazioni relazionali dei dirigenti – una frustrazione  molto elevata  e chi volesse coglierne la dimensione potrebbe esplorare su internet le varie mailing list e osservare le cicliche manifestazioni di aggressività esasperata tra iscritti e partigiani dei vari gruppi[9]. Le mailing-list sono una vera cartina di tornasole per misurare umori neri e frustrazioni. Basta una parola per ritenersi offesi e generare una guerra che si assopisce solo per stanchezza, in attesa che un altro diverbio riemerga come l’araba fenice. I motivi sono diversi e, quello che stupisce, ricorrenti anche nei temi. Le gazzarre e incomprensioni che si scatenano sono facilitate anche dalla difficoltà della posta elettronica di rendere conto di elementi paraverbali e extraverbali importantissimi per una corretta percezione della comunicazione.

Tendenzialmente sembrano presenti due categorie di persone:

-         gli spalatori di liquame,
-         gli stastieristi

E facile decifrare le espressioni. I primi sono quelli che non desiderano ascoltare nessuna argomentazione che non sia riferita a cani da salvare, colonie feline da accudire, circhi da boicottare. Insomma concepiscono internet come una rete di occasioni per un attivismo orientato all’azione immediata. Chi solleva interrogazioni sulle associazioni e su problemi più generali è uno stastierista, ovvero uno che perde tempo anziché tirarsi su le maniche e spalare liquame nei canili, espressione che indica una dedizione totale all’impegno concreto. E’ inutile osservare che lo spalatore di liquami, mentre risponde, stastiera anche lui. Del resto è difficile trovare uno stastierista che non si dia da fare in qualche attività di base. Ne consegue che la differenza tra i due gruppi, ammesso che esista, è in verità assai sfumata e non serve per caratterizzare due prassi alternative, bensì per giustificare i diverbi che avvengono tra protezionisti appartenenti a associazioni diverse.

Molti sono i temi su cui si manifestano i disaccordi che spesso degenerano in conflitti. Prima delle elezioni si scatena il confronto su vari opzioni. C’è chi non vota, chi vota per la sinistra, chi si oppone osservando che “la sinistra per gli animali è come la destra”, chi dice che comunque è meglio di niente, chi sostiene che è colonizzabile dalle idee animaliste, chi lo nega con forza. Se qualcuno invita a protestare contro i cinesi che si mangiano i cani, subito emergono rigurgiti razzisti (non dimentichiamoci che stiamo parlando di persone talvolta spoliticizzate che riflettono lo spettro sociale in tutte le sue diverse manifestazioni) che evidenziano la barbarie dei cinesi, dalla quale si giunge per meccanismi associativi alla barbarie degli islamici con la loro macellazione rituale (che strano: gli ebrei, con la loro carne kosher, non vengono mai nominati). Da qui il passaggio ai parlamentari italiani che l’hanno resa possibile è breve, generando risse sulle diverse responsabilità.

Spesso gli animalisti sono agnostici o atei. In qualche modo sono obbligati a esserlo. E’ naturale: essi osservano leopardianamente la natura nella sua intrinseca crudeltà e violenza, e non possono credere a narrazioni che escludono l’animale dalla retribuzione per la sofferenza che subisce[10]. Perciò è facile che la religione appaia all’animalista un losco trucco di classi sacerdotali rigurgitato in tempi arcaici dalla Mezzaluna Fertile per assoggettare i popoli. Però è immaginabile che non ci sia qualche animalista animato da profonda religiosità che incominci a affermare che Cristo era vegetariano, oppure che gli animali, grazie alla loro innocenza, non potranno che andare in Paradiso? ci mancherebbe; e allora su argomenti simili si scatena un finimondo con argomenti tanto strampalati sui quali sarebbe bene invocare un pietoso silenzio.

Talvolta la contesa è animata da altre autentiche assurdità. L’ansia di certi protezionisti di difendere gli animali induce a argomenti talmente ridicoli e imprecisi da esporsi al buon senso di altri critici in un misto di sarcasmo, di ira o di scherno in cui si perde il filo del problema. Se uno parla del gonfiore delle mammelle delle mucche e aggiunge che sono così gonfie di latte che gli animali devono coricarsi, spunta fuori l’altro che nota come sia possibile che una mucca che peserà 6-700 chili non riesca a reggere delle mammelle di qualche decina di chili. Il massimo dell’assurdo si ha quando qualcuno entra nelle liste per denunciare la sofferenza dei vegetali. Anziché snobbare il provocatore di turno, si apre una defatigante querelle in cui i benevoli spiegano come ciò sia insostenibile, mentre altri reagiscono con violenza. Due azioni entrambe assurde, quando basterebbe lasciare cadere la provocazione.

Vi sono anche ambienti più tranquilli, naturalmente. Sono quelli in cui si registra  una certa omogeneità di chi li frequenta. Si tratta  di spazi riservati a buonisti naif che discettano sulle minuzie più insignificanti e si danno ragione l’un con l’altro con scarsa capacità di approfondire i veri problemi della questione animale. I temi sono quelli di sempre: come comportarsi in casi di recupero di un trovatello; consigli sui vaccini e sulle malattie  più comuni; come alimentare i propri beniamini in circostanze particolari; rilancio di notizie apparse sui giornali; ricette vegane in occasione delle feste; proteste verso le amministrazioni locali per qualche negligenza. Si tratta insomma di nicchie il cui scopo fondamentale consiste nel condividere una sensibilità, per nulla operative sotto alcun aspetto. Sembra che gli iscritti a queste liste ricevano conforto a registrare l’esistenza di una comunità virtuale in cui si trovano bene immersi, come il feto nel liquido amniotico, quasi fosse necessario trovare un riparo di fronte alle brutture del mondo, in particolare quelle agite verso i senza parola.

Questo è spesso il mondo del protezionismo sul quale un antropologo potrebbe effettuare studi interessanti. Ma la domanda fondamentale è: dentro l’area del protezionismo c’è possibilità di veri confronti? E’ uno spazio efficace per trovare gli strumenti di cui c’è bisogno per tentare di chiudere, o almeno di ridurre lo sterminio degli animali generato dalla società moderna? Sembra che i protezionisti siano incapaci di organizzare concetti, di confrontarsi, di approfondire[11]. Prima dell’avvento di internet il problema non si poneva. Ogni tribù viveva nella sua porzione di deserto, aveva la sua piccola funzione e le sue risorse e tirava a campare[12]. La grande rete ha indotto i protezionisti a nuovi incontri che non sempre si sono mostrati produttivi introducendo, accanto a nuove opportunità, anche tensioni oltre al rischio di banalizzare la questione animale. In conclusione si può sostenere che le periodiche esercitazioni di confronto che gli animalisti protezionisti mettono in azione in internet servono a poco se non, addirittura, a aumentare la frustrazione di gruppi oppressi dalla propria debolezza. Ma la triste incapacità di puntualizzare i problemi veri per dare maggiore smalto all’attivismo va vista con indulgenza considerando come i protezionisti impegnati siano talvolta vittime della loro ideologia rinunciataria dalla quale, per la difficoltà dei tempi e del compito, è difficile sfuggire; talaltra di professionisti che li strumentalizzano a scopi di protagonismo e di carriera.

Si comprende dunque come mai da decenni l’ambiente protezionista si riproduca stancamente senza essere in grado di apparire come serio interlocutore presso un personale politico sordo e incapace di recepire persino quei miglioramenti della condizione animale compatibili con l’attuale civiltà dell’olocausto animale. I dirigenti delle associazioni, quelli collusi col potere, hanno un ruolo e gli attivisti di base possono riconoscere in sé il candore dell’anima. E ciò basta agli uni e agli altri.


§32 – Studio di un caso

Quanto precede costituisce il sommario di una possibile critica, non del protezionismo in sé (che pur costituendo la versione debole dell’animalismo, potrebbe  tuttavia svolgere il ruolo di promuovere la crescita della sensibilità verso la condizione  animale) bensì del porsi concreto dell’associazionismo animalista nelle sue relazioni esterne e interne. E’ comunque possibile andare oltre semplici generalizzazioni pescando nell’immenso serbatoio della storia delle associazioni e dei loro rapporti. Il discorso riceverà notevole forza dalla rapida descrizione di un evento indicativo dell’inanità animalista nella sua accezione protezionista.

 

Ministoria della legge 189/2004

Nel 2000 l’associazione UNA promuove una petizione popolare di modifica dell’allora attuale art.727CP relativo ai maltrattamenti sugli animali. La petizione si risolve in una presa d’atto dell’inadeguatezza dell’articolo e chiede un adeguamento delle sanzioni: “I sottoscritti cittadini chiedono di modificare l’articolo 727CP, configurando il fatto di maltrattare, torturare, e uccidere animali come delitto, pertanto punito con la reclusione”. Si presenta poi un periodo di latenza finchè, nel 2002, altre associazioni animaliste e protezioniste ritengono di scendere in lizza chi sfruttando relazioni privilegiate in Parlamento, chi presentando ipotesi di ddl alle istituzioni. Nascono così:

1.        la proposta di legge della LAV
2.        il disegno di legge Buccero ENPA
3.        la proposta di legge della Lega Nazionale del Cane
4.        la proposta di legge di modifica dell’art.727 cp degli Animalisti Italiani

Queste richieste si distinguono per articolati precisi tendenti a fornire al Legislatore un’indicazione ritenuta pertinente sulla base di esigenze inderogabili. A questo punto si pongono quattro osservazioni. Punto primo. Le associazioni si sono presentate in ordine sparso quando avrebbero potuto concordare con l’UNA un’azione comune. Non è chiaro se l’UNA si sia mossa con un formale invito alle altre associazioni e queste abbiano lasciato cadere la proposta preferendo un’azione propria, o se questo non sia accaduto. Occorre valutare comunque che il naturale atteggiamento solipsistico tipico degli animalisti che li spinge a muoversi in modo autonomo e slegato, se talvolta può avere una giustificazione associata alle specializzazioni degli interventi, è aberrante nella proposta di definizione di una legge generalista sui maltrattamenti. Punto secondo (...il naturale portato del punto primo) Le proposte sono disorganiche e differenziate offrendo un esempio eclatante della dispersività del movimento animalista italiano. Punto terzo. Si assiste a un fenomeno incredibile. Tre delle proposte animaliste offrono in modo esplicito, senza rendersene probabilmente conto, un elemento che recepito dal Legislatore in termini formali e inequivocabili, sarà in grado di bloccare e peggiorare il potenziale evolutivo del vecchio articolo del CP. Si salva parzialmente una delle quattro associazioni la quale non pone eccezioni all’estensione della copertura della legge, ma dimentica l’esistenza di selvatici e sinantropici, sui quali, una legge del genere, dovrebbe ben dire qualcosa. Punto quarto. Nei mesi successivi, mentre la Commissione Parlamentare Giustizia incomincia a muoversi, si assiste a un disgustoso balletto in cui i promotori delle varie iniziative si attribuiscono il merito di aver promosso l’iniziativa parlamentare. C’è persino chi chiama la futura legge, “legge XXX” dove al posto delle XXX bisogna intendere un singolo promotore. Ognuno tira la coperta per sé in un goffo atteggiamento propagandistico.

Ne è derivata una legge che, se introduce delle nuove figure di reato legate ai combattimenti clandestini degli animali, sotto molti punti di vista arretra rispetto a una norma precedente generalista, riguardante cioè tutte le manifestazioni di gestione umana degli animali. In seguito a tira e molla parlamentari, esce una legge che strappa il plauso di alcune associazioni protezioniste e zoofile molto rappresentative. Animalisti Italiani, Enpa, Forza Piccoli Amici, ­Lav, Lega nazionale per la difesa  del cane, Lipu, Wwf, affermano che “Nonostante alcuni  emendamenti peggiorativi approvati, rimane un testo innovativo ed utile per  contrastare violenze, abbandoni e combattimenti”.

Sarebbe lungo e complesso illustrare i dettagli dello sviluppo di quello che è accaduto dopo. Basterà ricordare che in seguito all’iniziativa lodevole dell’UNA, della LAC e della LIDA, si è creato un cartello di una cinquantina di associazioni che, insieme, hanno compiuto uno sforzo di messa a punto di tutte le aberrazioni che la legge conteneva e, con un’abile attività di informazione, hanno creato un caso che ha raggiunto il Parlamento stesso. A questo punto, le sette sorelle sono diventate quattro per la defezione sofferta di tre associazioni che non avendo il coraggio di porsi in rotta di collisione con una parte così vasta di opinione animalista sono transitate nel campo avverso. La legge è passata ugualmente ma visto che alcuni parlamentari della Commissione hanno fatto opera di ponziopilatismo, è lecito chiedersi se sarebbe stata votata qualora anche la LAV e l’ENPA, le due associazioni più rappresentative presso l’opinione pubblica, avessero ritirato l’appoggio a una legge che una accurata analisi ha evidenziato come peggiorativa rispetto alle risorse di protezione che gli animali possedevano in precedenza.

Questa storia ha visto come corollario una straordinaria (e mai vista in precedenza) unione del protezionismo migliore sotto un’unico provvisorio cartello. Ma contiene un deprimente insegnamento: passato il momento della coalizione contro qualcosa che appariva indifendibile, questo fronte si è disfatto e ognuno è ritornato a affaccendarsi intorno alle proprie cose dimenticando che solo una integrazione delle forze su programmi chiari e riconosciuti dagli stessi attivisti di base, può fornire quella forza capace di dare al protezionismo un ruolo pur limitato ma non trascurabile. Purtroppo non sembra che sussistano concrete possibilità di un progetto del genere. Ma a titolo di giustificazione, per vedere la cosa sotto una luce più benevola, c’è da chiedersi se ciò non nasconda piuttosto l’incapacità degli animalisti a uscire dai confini ristretti in cui la loro genesi e la cultura minimalista che è loro propria li ha consegnati.




Note


[1] Termine che riprende in modo paradossale il termine “welfare” che applicato alla società umana, indica “stato del benessere” [del cittadino]. Ma il cittadino non viene assistito per essere poi accoppato o sottoposto a sperimentazione mengeliana. Il protezionismo invece aspira a questo: non potendo evitare il massacro si impegna per limitare la sofferenza dell’animale fino a giungere al suo completo annullamento. Il protezionista concepisce (talvolta) un rispetto assoluto dell’animale che lo renda indisponibile per scopi umani, ma questo aspetto rimane sullo sfondo delle sue capacità immaginative, poiché l’azione di cui si fa carico è votata e limitata a ottenere migliori condizioni per gli esseri che si impegna a proteggere. Come si vedrà, la parola “diritti” associata agli animali, può essere connotata in modo più forte.

[2] Questi sviluppi si spiegano con l’evoluzione stessa dell’animalismo: la diffusione nell’ambiente di una cultura del rispetto o la pressione di movimenti più radicali spingono scelte iniziali finalizzate a proteste circoscritte in direzioni più onnicomprensive. La LAV, ad esempio, nasce come lega antivivisezionista, ma presto si sobbarca di tutte le tematiche della violenza sugli animali. Ovviamente nei termini in cui la sua natura essenzialmente protezionista glielo permette.

[3] Non mancano anche grandi associazioni con natura sfuggente. Per esempio, associazioni come l’ENPA o della Lega per la Protezione del Cane sono difficilmente definibili.

[4] Sfavorevole all’economia che usa gli animali; cioè favorevole ad essi: l’esempio della l.n.189/04 discusso al § 32 è illuminante.

[5] ...cioè alla società dei proprietari, espressione in questo caso particolarmente indovinata, considerando che gli animali sono equiparati a cose di proprietà di qualcuno.

[6] Basta pensare al busines delle vendite e degli allevamenti, ai servizi dei veterinari ecc. Consulta, in proposito, il § 23

[7] “L’associazionismo animalista ha ormai una certa anzianità in Italia e, come sottolinea Erik Neveu, «un movimento sociale che dura e ha successo tende a cristallizzarsi in gruppi di pressione, a disporre di accesso abituale ai luoghi di decisione» e pertanto utilizza tipologie di azione e linguaggi adeguati a interagire e negoziare con le istituzioni.” [Sabrina Tonutti (v. nota 1) – Diritti Animali.... pag 217]. Si comprende come questa osservazione, rilevabile da tempo immemorabile in varianti diverse, descriva con molta precisione un condizionamento letale per organizzazioni che si trovano a chiedere l’impossibile a un potere che per cultura e (soprattutto) per interessi, non ha niente da offrire se non qualche miserabile promessa.

[8] Espressione bellissima per indicare gli animali ideata da Annamaria Ortese in “Bambini della Creazione”. Tratto da “In sonno e in veglia” Ed. Adelphi

[9] Sabrina Tonutti, [Diritti Animali – pag. 220-1], osserva giustamente che vi sono altre due tipi di risposta alla frustrazione da insuccesso (ma sarebbe meglio dire, da angoscia dovuta a sapere e non potere). La prima comporta un ripiegamento depressivo in un privato in cui ci si limita a comportamenti individuali coerenti (es. vegetarismo). Il secondo comporta la cancellazione mentale della dimensione esterna ritenuta fuori dalle proprie possibilità e la circoscrizione del proprio spazio di vita a ambienti di animali salvati e accuditi. La dedizione alla sfera del possibile e l’eliminazione dello sguardo sull’olocausto può effettivamente portare all’estinzione dell’angoscia.

[10] E’ possibile che la feroce ostilità che anima la Chiesa nei confronti degli animalisti derivi proprio da una dimenticanza irreparabile – la remunerazione della sofferenza animale – che diventa un problema inconscio per i teologi cattolici e cristiani in genere. Rare le eccezioni che comunque sembrano dettate più dalla sensibilità personale che da fondamenti teologici (Es. Paolo De Benedetti – Teologia degli animali; Andrew Linzey – Creatures of the Same God).

[11] Ben si comprende come questa loro debolezza determini, a livello sociale, lo stereotipo della persona semplice e dalle idee confuse. Interpretazione esagerata rispetto alla realtà. Ma si sa che i gruppi minoritari sono soggetti a fornire di sé un’immagine deformata proprio in ragione della loro marginalità che li espone certe volte a disprezzo, altre a indifferenza.

[12] Naturalmente il discorso va riferito agli attivisti, che sono gli utenti di internet. I responsabili e i dirigenti delle associazioni protezioniste, anche prima dell’avvento del web, hanno dato luogo a litigi, conflitti, scissioni.






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