Immaginiamo un lettore che abbia vissuto fino ad oggi senza percepire la realtà descritta: potrà ora avanzare una delle tante giustificazioni che di norma vengono esposte. Per esempio, potrà considerare che la violenza verso gli animali, anche se costituisce un fatto sgradevole, è così radicata nella prassi umana da doversi ritenere naturale e inevitabile. Tuttavia, se ha sopportato l’onere di descrizioni tanto crude e disperanti, è probabile che si chieda se vi sia almeno rimedio parziale a tanto disfacimento morale, certo paragonabile alle peggiori violenze esercitate dall’uomo verso gli elementi più deboli della propria specie. In questo caso il suo pensiero correrà a un termine pronunciato di quando in quando in vari contesti, “animalisti”, e si porrà alcune domande. Per esempio, come si pongano gli animalisti di fronte alle brutalità raccontate e come mai le permettano; in alternativa potrà immaginare che senza la loro opera le situazioni potrebbero essere ancora peggiori; oppure potrà domandarsi se il movimento animalista abbia motivi per dubitare di sé stesso, della sua capacità di intervento, delle risorse organizzative che possiede, insomma della funzione di rappresentanza di interessi che dichiara di interpretare.
Un approccio in questi termini è mal posto e conduce su una falsa strada. Infatti quel complesso di domande parte dal presupposto che esista una realtà integrata definibile appunto come “movimento animalista”. Purtroppo questo presunto soggetto è una maestosa astrazione. Il movimento animalista esiste in senso improprio e, come cercheremo di dimostrare, è un aggregato differenziato, ambiguo, perfino colonizzato dal nemico. E’ una entità vaga, con notevoli problemi interni, troppo ricca di inadeguatezze per tentare di risolvere, o almeno modificare, la tragica condizione degli animali. Occorre tuttavia mettersi al riparo da facili obiezioni. E’ possibile che un attivista di qualche associazione animalista esprima invece la piena o parziale soddisfazione nel proprio attuale lavoro e rimandi gli ulteriori successi a un futuro più o meno lontano e subordinato a quel perfezionamento della natura umana che si dice tratto proprio del procedere storico. Come sempre, tutto dipende dalle coordinate che si assumono per promuovere i giudizi. Se un’associazione animalista ritiene soddisfacente recuperare un 2% degli animali di affezione abbandonati ogni anno e riesce a perseguire questo risultato, giudicherà assolto il suo compito rimuovendo la questione animale come l’abbiamo presentata. Purtroppo, mentre l’analisi del rapporto uomini/animali risponde a requisiti di ordine descrittivo e può essere materia di un freddo ragionamento di sociologia, la descrizione del ruolo degli animalisti introduce criteri normativi di natura soggettiva; perciò, procedere in un ambito di questo genere significa inoltrarsi in un terreno minato. Allora occorre che le carte siano posate correttamente sul tavolo. Insomma, devono essere chiariti gli obiettivi primari sui quali i dialoganti sono disposti a concordare.
Non basta ancora. E’ noto – e si possono trovare interessanti precedenti in altre questioni politiche e sociali del passato – che concordare sugli obiettivi di lungo periodo consente ai peggiori mascalzoni di occultare le proprie intenzioni. E’ troppo facile annuire su cose, principi o idee che rischiano di concretizzarsi alle calende greche e procedere oggi nella direzione inversa con la scusa che i tempi sono prematuri e la gente impreparata. Vi sono tutt’oggi – e si trovano con una facilità incredibile – strani animali umani che non esitano a dichiararsi animalisti mentre si cibano abitualmente di altri animali. In questo caso il gioco è scoperto e si può rilevare con facilità la non perfetta coerenza di persone che non risolvono storture che dipendono da loro stessi. Purtroppo ci sono situazioni più difficili da scoprire e da criticare.
Questa seconda parte si pone proprio l’obiettivo di offrire una panoramica sul fenomeno multiforme designato come “movimento animalista”. Si può dire che questa sia la parte più interessante del lavoro, poiché in Italia, alla numerosa lista di titoli che parlano dei comportamenti criminali dell’animale umano verso l’animale non umano, si affianca un solo saggio sull’animalismo italiano[1]. Fatto sorprendente che porta a due conclusioni: 1) la cultura, con le sue istituzioni alte (centri di studio e di ricerca) e basse (mezzi di informazione), non si cura di ragionare sull’animalismo, al massimo ne sostiene l’eco riflettendo sulla condizione animale; ma: 2) l’animalismo non si cura nemmeno di sé stesso. Il motivo della prima osservazione deriva dal fatto che l’estrema debolezza degli animalisti non sollecita l’attenzione di istituzioni culturali che richiedono la piena maturazione di un fenomeno per prenderlo in considerazione. Per quanto riguarda l’animalismo, la situazione è più imbarazzante. Esso non si cura di sé stesso perché guardandosi allo specchio rileverebbe tutte le sue sorprendenti inadeguatezze.
Ma insomma: chi sono gli animalisti? Il tema è complicato, soprattutto se visto dall’esterno, per motivi che via via appariranno chiari. Ma la complicazione deriva anche da fattori di tipo linguistico. Occorre precisare che il termine animalisti con i suoi derivati ha una genesi recente. La cronaca stabilisce una data di nascita, il 1982, quando ancora la percezione sociale delle battaglie a favore degli animali era piuttosto vaga. Successivamente l’espressione ha invaso anche le esperienze precedenti a tale data informandole di sé. Insomma, è diventato un marchio per indicare esperienze diverse sia in termini di concezioni che di pratiche. Cosicché la parola “animalismo”[2], usata in modo superficiale dall’opinione pubblica e dai media, contiene almeno tre sostanze diverse – di cui una senz’altro impropria rispetto al nostro discorso – corrispondenti a altrettante fasi storiche e momenti di sviluppo delle battaglie per gli animali. Se vengono tutte catalogate con quel termine, ciò deriva in parte da incapacità di discriminazione del mondo esterno, in parte da incapacità delle varie componenti dell’animalismo di presentarsi all’opinione pubblica con una fisionomia precisa.
Per aiutare il lettore a addentrarsi nella non banale materia anticipiamo che la parola “animalismo” viene attribuita alla zoofilia, al protezionismo, al liberazionismo cioè ai tre atteggiamenti che costituiscono gli stadi di una ricerca e di una pratica soggetta a evoluzione. Se i tre atteggiamenti sono cronologicamente determinati, è anche vero che, a differenza degli stadi dei missili, il passaggio al seguente non implica la dismissione del precedente il quale, anzi, sembra continui a vivere di vita propria contaminando le nuove tendenze. Insomma il vecchio continua a permanere con il nuovo creando notevoli disorientamenti. Il tutto viene complicato dall’esistenza di zone grigie che costituiscono il passaggio da un concetto-sostanza all’altro. Infatti i tre stadi non sono separati ma compenetrati e anche questo comporta un’ulteriore difficoltà interpretativa per chiunque tenti di districarsi nella pletora dei soggetti da esaminare.
Perciò il giudizio sull’idoneità o sulla inedeguatezza delle risorse animaliste esistenti rispetto agli scopi dichiarati, non può prescindere dall’esplorazione preliminare delle importanti differenze interne contenute in una parola troppo generica. Dunque sarà necessario esplorare le tre sostanze contenute dentro la parola animalismo per evitare quel disordine che ancora ipoteca il discorso. Il presente capitolo è riservato all’analisi della zoofilia cioè di quanto oggi potrebbe essere definito sia una scoria dell’animalismo, sia qualcosa che lo precorre. Nei capitoli successivi, invece, si metteranno in evidenza le caratteristiche delle due effettive polarità del movimento, il protezionismo e il liberazionismo.
“Zoofilia” è composto da due derivati greci, il primo dei quali indica "animale" mentre il suffisso, filo, sta per "amore, simpatia, affinità per...". In qualche modo “zoofilo” sarebbe appropriato per definire chi, genericamente, sviluppa una certa attenzione verso gli animali, dunque essere sinonimo di "animalista". Ma a dispetto dell’etimologia della parola, il termine genera fastidio nell’ambiente animalista propriamente detto.
La zoofilia nasce nell’Inghilterra vittoriana e prende origine dai movimenti umanitari che hanno prodotto i primi passi di legislazione a favore degli animali. Per comprendere bene la natura della zoofilia e capire quanto essa sia distante dalle successive evoluzioni, è necessario cercare di immedesimarsi nello spirito dell’Inghilterra del XIX secolo. Allora, in quel paese, si era fatta strada l’idea che l’Inghilterra costituisse il culmine della civilizzazione del mondo e che l’attenzione per la sorte degli animali facesse parte di tale inarrestabile evoluzione. Occorre considerare che in quel periodo la presenza degli animali nella società non era periferica come oggi. La gente aveva quotidianamente sotto gli occhi animali sia in campagna che in città; basti pensare il ruolo svolto dai cavalli nei trasporti. E’ naturale che tra persone d’animo gentile emergessero attenzioni vivide per i crudeli destini che si compievano sotto i loro occhi. Così nacquero le prime organizzazioni umanitarie e i primi esempi di legislazione rivolti alla protezione degli animali. Poiché la società vittoriana coltivava di sé l’immagine di punta avanzata del progresso, era conseguenza delle cose che l’estensione della benevolenza umana verso gli animali venisse interpretata proprio come un segno di crescita civile. Dunque, la zoofilia nasce come partecipata consapevolezza delle ingiustizie e delle crudeltà patite dagli animali.
La zoofilia però è un atteggiamento tutto imbozzolato in uno stile ideologico che vede il problema animale soltanto come strumento per perfezionare la natura umana, un modo per farle raggiungere quella dimensione della benevolenza universale che rappresenta l’ideale morale intorno al quale muovere le risorse sociali collettive. Ora, ragionare in termini di benevolenza, bontà, compassione, felicità nella prospettiva di una buona vita può avere, sì, qualche risvolto positivo per gli animali, ma costituisce pur sempre un atteggiamento caritatevole con caratteri di ambiguità. Se la società si comporta bene verso gli animali, acquisisce i titoli di una condizione di avanzata di civilizzazione, ma la benevolenza che ne scaturisce si presenta inevitabilmente come atteggiamento paternalista. E difatti la zoofilia non nega la legittimità dell’uso degli animali come mezzi per soddisfare i bisogni sociali. Reclama la necessità che si sostituisca a una condotta dura e disattenta, una condotta degna e rispettosa.
Va da sè che nella concezione zoofila, l’animale rimane al margine della considerazione morale umana. L’azione crudele verso l’animale viene considerata di seconda categoria rispetto a una offesa equivalente perpetrata verso un umano, e, in ogni caso, la cultura zoofila destina attenzione all’animale solo dopo che tutti i bisogni umani siano soddisfatti.
Per chiarire ulteriormente la natura della zoofilia si possono considerare particolari trasmissioni televisive a carattere documentaristico. Talvolta infatti si va ben oltre l’aspetto ambientalistico che studia gli animali in termini di attenzione alla loro sussistenza in quanto specie. Spesso registriamo un clima benevolente, caldo, ben orientato a sviluppare la comprensione verso i fratelli minori e le loro esigenze, ma a ben guardare, nel momento più bello, si potranno ascoltare inviti a mangiare carne biologica anziché carne di allevamenti intensivi. O a evitare di infrangere la legge e, se proprio vuoi un pappagallo, “evita di stimolare l’importazione irregolare e comprane uno degli allevamenti autorizzati”. Altri stimoli per comprendere la natura della zoofilia sono offerti dalla legislazione dei vari paesi europei: in ognuno dei casi concreti, non ultimo quello italiano, si contemplano prima gli interessi umani, anche quelli più frivoli e inconsistenti. Soddisfatti questi, si enunciano norme meschine per dimostrare l’attenzione della società civilizzata verso l’insieme del mondo vivente. Per quanto il Legislatore non sia zoofilo, raccoglie spesso tali istanze.
Un’associazione che si cura di estendere l’attenzione sociale, poniamo, ai furetti, potrà ben farlo con le migliori intenzioni. Per esempio, quella di introdurre un nuovo amico nella società degli umani in una logica di rispetto dell’animale e di soddisfacimento delle sue funzioni compatibilmente con le condizioni urbane. Altrettanto potranno pensare i sostenitori di maneggi e equitazione. Oppure alla pet terapy, che mentre considera gli effetti benefici su umani problematici, sostiene parimenti condizioni di attenzione per gli animali impiegati. Diciamo che l’atteggiamento zoofilo possiede un afflato che proclama il completamento morale della società grazie alla presenza di altri esseri viventi impiegati con la funzione di test. Non è affare dello zoofilo se la società umana non riesce nemmeno a pensare a sé stessa. Il suo atteggiamento buonista scaricherà le responsabilità dell’incidente, dell’abbandono, del maltrattamento sull’individuo che lo compie giacché non è in grado di cogliere la correlazione esistente tra una società umana infestata da tratti patologici e i danni inevitabili che le vittime (gli animali, ma non solo loro) sono costretti a subire in termini di grandi numeri: un difetto tipico che alligna in ogni idealista, qualunque sia l’oggetto della sua attenzione.
Inevitabile lo scivolamento nelle braccia di cattive compagnie. Nei §§ 13, 14 e 23 si è discusso intorno a atteggiamenti sociali che mobilitano interessi di vario ordine intorno agli animali. Si tratta di interessi in genere esterni rispetto all’atteggiamento zoofilo. Tuttavia si comprenderà come essi possano fondersi con venature di questo genere. La commistione tra zoofilia e sfruttamento animale, pur celato a occhi inesperti, balza all’evidenza dei fatti non appena si cerchi di approfondire la relazione malata che si instaura quando l’umano cerca l’animale per possederlo o per usarlo. Anche con le migliori intenzioni. Dunque è inevitabile che si crei una alleanza oggettiva tra chi vede nell’animale colori e misure – e manifesta senso di protezione e affetto solo verso il proprio animale – e chi accetta la diffusione dell’animale sulla base di una necessità di completezza sociale, lo zoofilo. Allora si comprende perché questa parola sia utilizzata dagli animalisti con un certo disprezzo: ai loro occhi la zoofilia indica una condotta che contiene in sé, prima ancora che aspetti virtuosi, la matrice della degenerazione del rapporto umano verso gli animali. E’ nella natura delle cose che lo zoofilo si trovi impegolato con le fiere degli animali, con i vari concorsi e mostre canine o feline; naturale anche che si scopra gomito a gomito con persone che non esitano a mostrare una certa attenzione solo per il canarino, o per il gatto oppure per il molosso delle Ande, cioè con persone che rischiano di regredire persino a livello di hobbismo quando dimenticano la sensibilità del soggetto che possiedono. Purtroppo il legame tra industria dell’animale e zoofilia rimane sempre stretto. Non basta che la zoofilia assuma uno sforzo generalista investendo con il suo buonismo la moltitudine del regno animale; essa rimane pur sempre e infelicemente all’interno di una logica ambigua.
L’unico punto a suo vantaggio sta in un effetto indiretto da non sottovalutare. Infatti accade che molti animalisti veri, quelli di cui si discuterà nei capitoli seguenti, inizino il proprio percorso personale di riflessione e di azione partendo da considerazioni e atteggiamenti zoofili che, grazie alla loro diffusione, possono più facilmente influenzare una persona sensibile. Se il rapporto di simpatia e condivisione con il proprio animale si incontra con esperienze e persone giuste, è facile che la zoofilia si trasformi in un atteggiamento che porta a ripensare il rapporto tra umani e animali secondo schemi più avanzati. Si tratta però di una conclusione debole che non scalfisce l’ostilità degli animalisti verso l’atteggiamento zoofilo[3]. La zoofilia è considerata da molti animalisti talmente esterna alla loro cultura che, dovendo tratteggiare le caratteristiche del loro movimento, non la riterrebbero mai oggetto di indagine. Però vi sono sufficienti ragioni per prenderla in considerazione. La prima è una ragione storica; infatti costituisce la radice primaria da cui scaturiscono le successive evoluzioni. Inoltre tracce zoofile si sono protratte e sono ancora registrabili nella cultura del protezionismo, la fase successiva che tra poco sarà discussa. Ma è ancora più importante il fatto che purtroppo essa svolge un ruolo determinante nell’immaginario ideologico collettivo. La maggior parte delle persone sollecitate a dare una descrizione dell’animalismo corre col pensiero alla zoofilia. Il lettore attento avrà colto echi simili a quelli qui descritti nella prima parte di questo lavoro, quando sono stati reinterpretati nella chiave giusta quei segni che potevano essere immaginati fallacemente come forme culturali di rispetto verso gli animali. Anzi, alla luce di queste note, molte critiche descritte nella prima parte dovrebbero apparire più chiare. Dunque, un motivo importante per tentare di sbarazzarsi di un equivoco che danneggia il movimento per i diritti degli animali.
Note.
[1] Mentre scrivevamo queste pagine ritenevamo che l’unico volume esistente fosse “Dichiarazione di guerra”, di Screaming Wolf (pseudonimo) edito da Nuova Etica, pamphlet che comunque ha un taglio politico-filosofico e riguarda la realtà anglosassone. Invece l’estate del 2007 ha visto la pubblicazione di un libro interessante: “Diritti animali: Storia e antropologia di un movimento”, di Sabrina Tonutti Ed. Forum. Si tratta di uno studio approfondito sulla genesi del movimento, ma a differenza del precedente che è un testo militante, questo si configura come uno sguardo dall’esterno di natura socio-antropologica sulla figura dell’“animalista”. La singolarità del volume nel panorama degli studi sul settore non modifica il giudizio sul disinteresse attuale verso l’animalismo da parte degli ambienti culturali. Sarebbe però molto positivo se fosse il battistrada di un nuovo filone di ricerca.
[2] Occorre osservare che il termine non è un calco linguistico proveniente da altri idiomi. Nei paesi anglosassoni, antesignani delle pratiche animaliste, “animalism” e “animalist” sono vocaboli che non hanno alcuna relazione con tali pratiche
[3] Atteggiamento che abbiamo indicato come pseudo-animalista per indicare la non appartenenza alla cultura del “protezionismo” affermatasi in seguito, ma anche la derivazione di questo dall’humus che lo ha preceduto)