L'enigma si svela. Ormai e' chiaro. Una molteplicità di ragioni concorre a creare una illusione la quale, ricontrollata alla luce dei fatti, mostra tutta la sua natura di leggenda sociologica. Il motivo per il quale in Occidente e nell'italico Suolo si manifesta il miraggio del rispetto per gli animali e' multifattoriale. Soltanto uno sguardo approssimativo puo' ricondurre questa molteplicita' di presunte forme di rispetto a una matrice unica. D'altra parte, la dissezione di questo apparente "sentire comune" nelle sue componenti indipendenti, disomogenee e riaccomodate dall'ideologia – ideologia intesa come falsa coscienza, come scarto tra l'essere e il rappresentarsi – e' un obbligo al quale, qui giunti, risulta impossibile sottrarsi.
I paragrafi di questo capitolo avranno dunque uno scopo soltanto: dimostrare come le molteplici manifestazioni di attenzione verso gli animali abbiano poco a che fare con il rispetto del mondo animale e siano invece manifestazioni plurime e disomogenee di interessi umani che, solo qualche volta, e comunque per caso, si traducono anche in lievi vantaggi per gli animali.
Dunque saranno passati in esame:
- i motivi per cui la specie umana si sente di
possedere qualche legame con gli animali,
- la ragione
per la quale i singoli "amano" il loro animale,
- la
causa che induce gruppi di hobbisti a riunirsi intorno a degli
"standard",
- il vegetarismo,
- il
versante "animalista" dell'ambientalismo,
- lo
sviluppo ipertrofico di un settore economico legato al commercio
degli animali.
- l'impegno delle istituzioni.
Alcuni punti (i primi tre) sono complessi e costituiscono un terreno sicuramente scivoloso per le difficolta' interpretative che entrano in gioco. Percio' il ragionamento potrebbe essere perfezionato con integrazioni e obiezioni. I punti a seguire, invece, hanno valenza pubblica e rispondono a logiche piu' facilmente svelabili. Basta semplicemente porvi l'occhio e guardare. Comunque, alla fine apparira' in tutta evidenza il carattere ideologico di una macroscopica allucinazione.
C'e' un atteggiamento che spesso viene interpretato come interesse per gli animali. Quando un circo si attenda in una citta', torme di genitori accompagnati da bambini si accalcano presso i botteghini per vedere leoni, tigri, orsi, cavalli. Laddove vi sono degli zoo si assiste a situazioni analoghe con la differenza che il fenomeno e' prolungato nel tempo. Per quanto gli animalisti non sappiano piu' come insistere sulle gravi sofferenze e sulle torture connesse con i metodi comportamentisti impiegati per l'"ammaestramento", la capacita' attrattiva dell'animale, in queste circostanze e in altre simili, sembra avere una forza difficilmente contrastabile.
Per quale ragione allora una specie che, nelle condizioni asettiche, della modernità infligge “torture fredde” (vivisezione, allevamenti intensivi) cerca un contatto con l’animale? Non abbiamo detto, per esempio, che sterminando i sinantropici dà mostra diretta di quanto egli non sopporti l’altro da sé? Perché li ricerca in altri luoghi dell’orrore (circhi, zoo, acquari) forzandosi d’ignorare la natura violenta di una detenzione che non invidia nulla a quella degli schiavi sotto tortura?
Occorre dire che la natura umana non è lineare e di coerenza ne possiede poca. Il suo stato alienato pone costantemente l'umano in una condizione del tipo “…vorrei e non vorrei…”. Questo accade in moltissime manifestazioni. Per esempio, la ricerca di un ambiente sano, di boschi, di mare pulito, di ambienti non saturati dalla presenza umana sono aspirazioni universali legate probabilmente a strutturazioni filogenetiche, quindi resistenti a ogni tipo di cambiamento. Eppure l’umano distrugge tutto quello che gli capita a tiro con una velocità sempre più travolgente. Maggiore è il numero di istituzioni che si curano di ambiente, maggiore è la devastazione ambientale. La loro funzione è quella di illudere che il processo di distruzione della biosfera sia dapprima frenato, poi invertito, infine risolto quando ormai appare chiaro che per dare chance al futuro di questo pianeta occorrerebbe un totalitarismo democratico universale per guidare un processo di decrescita economica finalizzata a un ridimensionamento dei consumi e della pressione antropica sul pianeta con conseguente smobilitazione di aree geografiche sempre più ampie dalla presenza umana.
Nel caso dell’ambiente, però, si può comprendere. Il cervello umano, essendo un cervello animale, non può sottrarsi alle esigenze biologiche e comportamentali che lo hanno accompagnato per centinaia di migliaia di anni. Perciò, quando si allontana dalle condizioni di vita “normali”, la reazione viene automatica e egli prova chiari segni di malessere. Ma la domanda relativa agli animali rimane aperta. Perché l’uomo li ricerca? Perchè si registra una simile ambivalenza anche per quanto riguarda il rapporto incerto dell’umano con gli animali?
Ritroviamo un'ipotesi interessante in due vecchie pagine tematiche del quotidiano “Il Manifesto” che affrontavano la questione dell'impiego degli animali nel circo. Gli articoli avevano un pezzo introduttivo [1]. E’ indubbio che il prologo esprimesse la capacità, rarissima oggi, di usare il pensiero come strumento di ricerca per costruire, nel labirinto delle idee, una visione equilibrata del problema, senza quelle brusche accelerazioni del discorso che lasciano indietro la razionalità per dare spazio a convinzioni precostituite. Queste poche righe mischiate a citazioni di John Berger [2] abbozzano una riflessione su tigri, circhi e umanità. Ebbene, in esse è rintracciabile, solo un po' nascosto da una sintassi inconsueta, un ragionamento interessante.
"In un mondo che odia gli animali, nega loro lo sguardo ("l'uomo diventa consapevole di sé stesso quando lo ricambia") trasforma le mucche in pazze cannibali, le alleva in campi di concentramento, le immobilizza ai ceppi, interiorizza il mattatoio in ogni attimo di vita che passano. In questo mondo che li ha espulsi da sé, che nega con loro il massacro della Terra, foreste e specie estinte, e nel migliore dei casi li immagina lontani, nel loro habitat come i lavoratori bambini del terzo mondo e non vuole sapere perché l'habitat e il terzo mondo non esistono più come cuore selvaggio, ma semplicemente desertica discarica dell'Occidente. Gli unici sotto tiro sono coloro che condividono, per amore o per forza, il loro destino. I circhi e gli zoo. Sono questi piccoli luoghi del passato, improduttivi, estranei alla modernità, cose di carne e sangue, che puzzano mentre la realtà virtuale non sporca, a essere additati "cattivo esempio".
E poi la chiusa non priva di immagini poetiche:
“Solo lì, o quasi, nel contatto di corpi e di sguardi, nel rischio e nel piacere del gioco con l'uomo, nella crudeltà di un rapporto eternamente conflittuale, si rinnova il miracolo che la società capitalista del XX secolo... ha cancellato. Prima che la frattura tra l'uomo e la natura si compisse "gli animali occupavano insieme all'uomo il centro del mondo". Il loro destino è il nostro.”
L’articolo, è fortemente criticabile sia da un punto di vista animalista, sia da un punto di vista logico: per giustificare un danno (circhi, zoo e altro) non si può evocarne uno maggiore del tutto indipendente dal primo (la realtà dei macelli e degli allevamenti), ma si dovrebbe sondare la legittimità della questione senza spostare il discorso altrove. Poi, per quanto riguarda la nostalgia per un invocato mondo perduto, si potrebbero aprire altre riflessioni non prive di punti problematici dall'esito non scontato.
Ma non è su questo che va sollecitata la riflessione. La nostra indagine cercava delle tracce che giustificassero una necessità di contatto tra animali umani e animali non umani; sotto questo punto di vista, i passaggi offerti dall'autrice indicano una possibile soluzione. Rivediamoli in una sequenza diversa:
1) Vi
fu un tempo in cui gli animali occupavano insieme all'uomo il centro
del mondo.
2) La
società capitalista del XX secolo ha cancellato un'unione
violenta, dura, ma vitale per sostituirla con un'altra ancora più
violenta e dura in cui l'animale ha perso un posto di comprimario
sotto il cielo.
3) In
questa nuova condizione, in questa improvvisa frattura tra uomo e
natura, l'odio dell'uomo per gli animali si mostra come incapacità
di offrire loro lo sguardo.
4) Eppure
l'uomo diventa consapevole di sé quando ricambia lo sguardo
dell'animale.
Si tratta di una interpretazione che, pur saltando doverosi passaggi chiarificatori, segnala nell'uomo la formazione di una specie di callo psicologico che, nei contesti asettici della modernità, priva gli animali dello status di esseri sensibili. E' interessante notare che questa visione implica il distacco dall'impostazione classica dell'antropocentrismo. La linea di demarcazione che introduce alla perdita di senso di una relazione vitale, non è individuata nella cultura giudaico - cristiana, bensì nel capitalismo che si afferma definitivamente, come prevalenza dell'industria sull'agricoltura, nel XX secolo.[3] Allora, la ricerca dentro la società moderna di un contatto con l’animale, garantito da certe istituzioni culturali materiali o mediatiche – si pensi alla onnipresente produzione documentaristica –, si configurerebbe come la riemersione del desiderio profondo di recuperare una relazione antica, offuscata da un sistema di vita che pretende di cancellare la filogenesi dell'Homo Sapiens; offuscata, non cancellata. La rimozione integrale e definitiva non sarebbe possibile perché supporrebbe l'inamissibile cancellazione di esigenze profonde inscritte nelle zone più nascoste dell'encefalo umano. Allora, il sistema sociale imporrebbe la sua logica generale distraendo l'uomo dallo sguardo dell'animale, ma la soggettività permetterebbe a molti di infrangere la regola generale e di ricercare una esigenza antica che ritornerebbe a galla non appena certe condizioni lo rendessero possibile.
“Il loro destino è il nostro”, conclude l’articolo. E qui si coglie un nocciolo duro che probabilmente la natura umana conserva, a dispetto delle pieghe assunte dalla “cultura” e dalle evoluzioni del sistema sociale. Una opinione simile la si ritrova anche in un pezzo di Michele Serra di cui sono già state riportate alcune parti nel primo capitolo. Riportiamo il resto dell'articolo perchè, muovendo intorno al tema che stiamo trattando, si merita la citazione integrale.
Su questo giornale, da qualche giorno, si è acceso un dibattito, nella rubrica della posta, sulla natura delle bestie: se siano o non siano senzienti, dotate di spirito, aventi diritto a qualcosa, se l'appiccicoso pietismo animalista non abbia a che fare più con la noia e la paranoia degli umani che con la vita vera degli animali. Beh, la storia di Gaston soccorre gli uni e gli altri, gli animalisti e gli anti, dimostrando che non è poi così importante buttarla in etica. La vita è vita e basta, piace e commuove quando vive, nuota, palpita, rattrista quando smette di essere. Si amano le bestie per l'ovvia ragione che ci apparenta a loro il vivere e il morire, giocano la nostra stessa scommessa, cercare di farcela e di star bene il più a lungo possibile, stare a cavallo della piena piuttosto che farsene travolgere. Tanto è vero che per provare orrore e schifo, vedendo il videuccio criminale nel quale i compari di Bin Laden impestano di gas un povero cane, ci basta immaginare il suo respiro nel nostro, e il nostro nel suo, l'identica onesta fatica di riempire i polmoni di ossigeno per non smettere di essere nella vita e sulla Terra. Per capire Gaston non ci serve la filosofia, ci basta il racconto. Lo squasso d'acqua che arriva e stronca il collega elefante e perfino il collega ippopotamo, e invece solleva Gaston come una palla veloce e lo fa schizzare lontano. Il disorientamento (ah, la libertà, che pericoloso affare sa essere!), il riordinarsi veloce dei neuroni e dei muscoli attorno a un progetto di salvezza, l'intuizione di un qualche mare con qualche pesce da qualche parte, il viaggio a cercare vita magari più perigliosa, magari più divertente. Si tifa per Gaston perché si tifa per la luce e per il respiro, per l'approdo riposante e per lo stomaco pieno, per la pienezza ammirevole dell'essere vivi. La foca, poi, è una specie di parente acquatico del cane, ha la stessa balordaggine giocosa, lo stesso muso vibratile, abbaia perfino. Poco importa sapere se sia pensierosa alla nostra maniera, elaboratrice di strategie o collezionista di esperienze: se la vediamo reggere un urto bio-cida come quello di un'alluvione, cercare di trasformarlo in viaggio e in sopravvivenza, non possiamo non riconoscerci in lei, partecipare alle sorti del suo naufragio, credere che ci rappresenti, che sia caduta dalla nostra stessa barca. Il lutto praghese per la morte di Gaston è perfettamente lecito, non leva niente al lutto per le vittime umane e anzi aggiunge, a quelle perdite, un suggello più generale, quello della ferita che il disastro ambientale infligge, appunto, a tutto l'ambiente, a tutto il vivo nel quale viviamo. Quando gli animali morti galleggiano gonfi sopra una piena, o segnano di resti carbonizzati le foreste incendiate, ci impressiona che la qualità della loro fine sia così simile alla nostra. Abbiano o non abbiano un'anima gli animali, dal momento che si ignora perfino se l'abbiano i migliori tra gli umani, non è poi un gran rovello. Si sa che hanno un corpo, sovente bello e lucente come quello di Gaston, e che formano, insieme a noi, il corpo del mondo. Curarlo per curarci, non è questo che facciamo quando proviamo affetto e sollecitudine per le bestie? (21 agosto 2002)
Sì, il loro destino è il nostro. Difficilmente si può descrivere questo pensiero con parole migliori. Per quanto la cultura cerchi di farcelo dimenticare, la natura riemerge s'impone. Ora, non necessariamente questa presa d’atto, anche quando si manifesta, costituisce una garanzia per l’animale. Per nulla. Essa è una proiezione che funge soltanto da specchio per ricordare la nullità della condizione umana. Inoltre il terrore che ne consegue ci riconduce poi a distogliere questo sguardo per riconquistare la nostra posizione antropocentrista e trarre conforto dal potere che siamo in grado di esercitare; anche sulle “bestie”.
Possiamo allora concludere che tutte le manifestazioni tendenti a ricercare i luoghi di un'antica relazione perduta – circhi, zoo, maneggi, acquari, mostre, centri di pet therapy o certi agriturismi attrezzati per l’uopo – siano mezzi tendenti a usare gli animali come scopo per bisogni umani e non abbiano nulla a che vedere con il principio della dignità dell’animale e il riconoscimento delle sue esigenze fisiche e psicologiche.
Un secondo motivo che spesso viene considerato segno di un inedito sodalizio con gli animali è costituito dalla invasiva presenza di questi nelle case degli umani.
Si tratta di un aspetto diverso da quello che è stato trattato nel paragrafo precedente. Infatti, un conto sono le ragioni della “specie umana”, un altro sono le ragioni di un individuo che fa una scelta propria. In questa confluiscono aspetti specificamente “locali”, propri; psicosociologici vorremmo dire. Quella descritta in precedenza, la traccia che potremmo chiamare “antropologica”, è sicuramente proficua e dispone di notevole potenza esplicativa, ma costituisce solo un fondo abilitante sul quale si possono innestare altri fenomeni più superficiali che tuttavia richiedono l’attualizzazione in una dimensione prettamente emozionale. Allora, potremmo chiederci: perché l’italiano si è messo in casa milioni di animali? Perché afferma di amarli e proteggerli?
La prima indicazione è quella della solitudine. Si pensi a un classico del cinema, Umberto D. Come si ricorderà, il protagonista, un vecchio pensionato afflitto da una vita solitaria e immiserita dalla povertà, dopo una serie di peripezie decide di suicidarsi. Ma prima vuole sistemare il suo piccolo cane Flik. Cerca di affidarlo a qualcuno ma inutilmente. Allora decide di morire con lui. Si porta presso un passaggio a livello, ma mentre il treno sta per arrivare, il cane si divincola impedendo il doloroso progetto del padrone. Quando Umberto D. prende una pigna e la lancia, Flik partecipa al gioco e gliela riporta. Umberto D. viene illuminato dallo sguardo innocente del cane sul mondo e ne risulta trasformato recuperando un barlume di insperata felicità.
La condizione di Umberto D. è più comune di quanto non si creda ed è senz'altro uno dei presupposti che ha comportato il trasferimento degli animali dalla campagna alla città. Pare che ben quattro milioni di anziani vivano con un animale in casa. L'isolamento in cui esseri deboli, sia dal punto di vista fisico che esistenziale, sprofondano nelle nostre metropoli induce spesso a rivolgersi a creature che si concedono totalmente sul piano affettivo chiedendo in cambio poco o nulla. Il potere medicamentoso che i cani e i gatti hanno sulle afflizioni dell'animo umano è sorprendente e perciò non c'è da stupirsi se una società che si impegna a creare forme sempre più acute di solitudine spinge l'uomo che ha perduto la sua socialità a rivolgersi verso esseri la cui mancanza di parola costituisce un reale punto di forza.
L'anomia della società moderna non investe però soltanto le persone anziane, ma strati sempre maggiori di popolazione. Perché, se è vero che l’anomia agisce soprattutto su esseri deboli e isolati, allontanati dai processi produttivi e con ridotti legami sociali, è anche vero che molte di queste condizioni coinvolgono strati sempre più ampi di umani.
Vi è inoltre la condizione dei piccoli umani i quali sono dotati di una naturale curiosità. L'occhio del bambino è potenzialmente immune dai condizionamenti che segnano la vita dell'adulto, almeno per una lunga fase e nonostante l'influenza della televisione; ed è largamente disponibile a riconoscere nell'animale due qualità che lo rendono unico: è sensibile (a differenza degli oggetti con i quali ha dimestichezza quotidiana) e non è virtuale (a differenza degli animali visti al cinema, alla televisione o nei fumetti che spesso sono i promotori del desiderio dell'adozione). A sua volta la curiosità, se accompagnata da integrazioni educative da parte degli adulti, è ritenuta veicolo di un notevole perfezionamento della personalità. Si insiste molto sul fatto che:
"Per i bambini i contatti con l'animale da compagnia possono essere un importante strumento pedagogico: per l'impegno che comporta averne cura, per il gioco, per l'osservazione del comportamento, per le prime conoscenze con fenomeni biologici complessi come quelli legati alla sfera riproduttiva."[4]
La solitudine degli anziani e la curiosità dei bambini sono certamente due stimoli che hanno influenzato la diffusione di massa dell'animale da compagnia. Unite insieme, esse indicano una delle tante reazioni a forme di vita spersonalizzanti e tristi della società moderna. L’animale diviene veramente un compagno col quale scambiare una relazione affettiva: diviene un animale di “affezione”.
Ma, qui giunti, occorre porsi qualche domanda. Abbiamo davvero bisogno di animali di affezione? In natura nessun animale richiede compagnie di elementi di altre specie. L’unico animale che sembra possedere questa necessità è proprio l’uomo. Ma non potrebbe soddisfarsi con i suoi simili e lasciare in pace gli altri animali? Un conto è una necessità di presenze costruita filogeneticamente che potrebbe sostanziarsi in modo pur diverso dalle distorsioni illustrate nel paragrafo precedente; un altro è la presenza fisica dell'animale nella sua casa, autentica forzatura che segnala, una volta di più, l'alienazione in cui l'umano è precipitato con lo sviluppo della civiltà. Chi lo obbliga a chiamare in vita esseri che senza le sue ossessioni non esisterebbero? A esercitare il diritto di proprietà su altri esseri viventi? Come si permette, viene da chiedersi? Dove sta la necessità intrinseca di questo sodalizio unico nel suo genere? E’ inutile porsi queste domande. Gli esseri umani “vogliono” e basta. Certo, offrire cibo, cure e riparo a un essere è meglio che violentarlo, torturarlo o mangiarlo, ma si dimenticano tanti effetti collaterali che inducono a riconsiderare la positività di una relazione che comunque rimane di “possesso”. Per esempio, che l'acquisto di un animale alimenta un commercio che meglio sarebbe se non esistesse e, spesso, anche aspetti di illegalità. Oppure che l'acquisto (o la chiamata in vita) di un animale di affezione vuol dire svolgere un ruolo attivo nella dannazione di altri animali: quelli da allevamento. O, anche, che la frequente concessione della riproduzione apre esiti incerti per i nuovi nati che non sempre trovano sistemazione. Tutto questo a prescindere dalle situazioni esplicitamente negative che generano direttamente maltrattamenti e abbandoni.
Gli animali di affezione rappresentano dunque la testimonianza di un terribile fallimento collettivo e non costituiscono la negazione di tutti gli altri “usi” di animali, bensì la spietata riconferma di un atteggiamento egocentrato che nulla ha a che fare con la presa d'atto che gli animali posseggono dei diritti che vanno rispettati.
Andiamo oltre. Oltre il sentire antropologico della specie “Homo”; oltre le singole scelte psicologiche che, aggregandosi, diventano espressione di “psicologia sociale”. Troveremo un ulteriore campo: quello di coloro che estendono l’hobbistica agli esseri senzienti.
Il lettore è già stato avvertito che gli umani non hanno lo stesso tipo di comportamento nei confronti dei 43 milioni di animali che ospitano nelle loro case. Un conto è avere in casa un cane o un gatto. Ma abbiamo osservato che i tradizionali “amici” dell’uomo sono una netta minoranza rispetto al totale: solo 14 milioni. Gli altri sono uccelli e pesci. Ma non mancano roditori (topi, conigli, scoiattoli), rettili (l’ultima moda) e persino aracnidi e altri insetti. Ora, difficilmente si può pensare che gli animali che vengono rinchiusi in casa siano tutti animali di affezione. Il possesso di certi animali è già sospetto e non ha niente a che fare con un desiderio di esprimere amore, pur stigmatizzabile in virtù del principio etico enunciato nel paragrafo che precede secondo cui la specie umana “dovrebbe fare per sé”.
Inoltre, non bisogna incorrere nell’errore di pensare che tutti gli animali che sono in grado di scambiare una relazione con l’umano, siano trattati come “compagni di vita”. Il fatto stesso che esistano club di personaggi che si dichiarano amici di uno standard canino o felino o di altra specie, è la prova lampante di un’interesse che travalica l’aspetto “nobile” dell'affettività, la quale, quando si manifesta, si esprime anche verso il più “bastardo dei bastardi”. Ecco dunque che emergono, con tutto il loro potenziale negativo rispetto alla Questione Animale, le cosiddette “associazioni zoofile” e aggregati affini. Ai risvolti perniciosi (dal punto di vista animalista) di cui sono portatori, vanno aggiunti gli effetti di coloro che, agendo individualmente, ripropongono su scala minore, la stessa logica.
La logica “zoofila” consiste in un puro e semplice hobbismo applicato alla materia vivente. I gatti smettono di essere gatti e diventano “persiani”, “siamesi”, “certosini”. I cani sono anch’essi classificati in razze e sottorazze per essere meglio associati alla tappezzeria della casa o alla personalità del detentore. L'aspirante proprietario, soggetto al fascino delle forme, delle misure e dei colori, non andrà a rifornirsi di “materia vivente” presso i canili o i gattili – luoghi rifuggiti come il diavolo rifugge l’acqua santa – bensì presso quei centri chiamati “negozi per la vendita di animali” i quali sono riforniti senza sosta da allevatori il cui primo interesse e' il diritto all'imprenditoria e il cui ultimo e’ costituito, forse, dai diritti degli animali .
Si puo’ obiettare che la scelta di un animale dotato di pedigree non impedisce al detentore di instaurare un rapporto corretto (per quanto possa essere corretto un rapporto di proprietà). Vero. Difatti non è possibile generalizzare. Ma è anche vero che la nascita di una relazione come quella qui descritta non garantisce certo quel legame intravisto nel paragrafo precedente. Che dire inoltre di coloro che trattengono un serpente di due metri in una teca di vetro piu’ corta di tale lunghezza? Cosa significa far correre un rodiore ingabbiato su una ruota per fargli dissipare quella energia che l’animale vorrebbe spendere in altro modo? Cosa significa inserire tribu' di roditori in labirinti di vetro per il piacere di bambini corrotti dalla superficialità dei genitori? Cosa significa esibire aracnidi esotici dentro scatole di plastica? Perche’ animali che non sono mai appartenuti alla “tradizione detentiva” devono essere incorporati nella sfera dell’interesse umano? La risposta a tali domande e’ una soltanto: forme, colori e misure sono la quintessenza dell’ennesima distorsione umana: quella di chi fa dell’animale un addobbo della dimora. Che tale vizio sia individuale e moltiplicato per miriadi o alimentato da associazioni di appassionati che si strutturano in club della tale specie o razza, il discorso non cambia.
Abbiamo visto come il legame umano con gli animali possa assumere varie manifestazioni. Ne abbiamo osservate tre. Tutte non posseggono alcun legame con il rispetto per i diritti degli animali [6]. Il fatto che tale numero corrisponda alle formazioni dell’encefalo umano può suggerire un’interessante osservazione.
La moderna neurofisiologia ha rilevato tre formazioni nell’encefalo umano. La prima è il cosiddetto cervello “rettiliano” o proencefalo; la seconda è il cervello primitivo detto anche di “mammifero antico” o sistema limbico; infine il terzo è il neocervello, quello che apparentemente caratterizza l’uomo nella sua interezza. E’ lecito avanzare dubbi sulla capacità del proprietario di questo incredibile strumento di raccordare in una volontà chiara e distinta (secondo l’idea che la nostra cultura possiede della parola “volontà”) le sue componenti evolutive. Non è escluso che tale raccordo non esista e che le tremende complicazioni che la specie umana produce a sé stessa e al resto della natura dipendano proprio da una strutturale incapacità di sedare pulsioni contrastanti che nascono dentro il cervello.
Ma per ritornare alle nostre questioni, occorre rilevare che il cervello di formazione più antica, il rettiliano, è deputato a gestire quelle forme di comportamento che sono stabilite geneticamente e che tendono a “ricondurre a casa”, intendendo con questa espressione la metafora di un recupero delle manifestazioni più arcaiche della propria filogenesi. In questo senso si potrebbe pensare che la ricerca di contatto descritta nel §17 abbia il suo fondamento in una vita condotta in ambiente comune per milioni di anni con gli altri animali e che, offrendosi l'occasione, riconduce a antichi avvicinamenti la cui natura appare insospettabilmente altra finché non la si scandaglia al di là di ogni apparenza.
Il cervello del mammifero antico, o sistema limbico, svolge invece una particolare funzione nel comportamento emotivo ed è la sede deputata alle emozioni anch’esse strutturatesi nell’arco di una infinita evoluzione. Il sistema limbico sembra quindi quello che ci conduce a ricercare relazioni ravvicinate a carattere affettivo con gli animali domestici (v. §18).
Infine la neocorteccia, o cervello recente. Essa elabora, nella sostanza, le informazioni attraverso i cinque sensi ed è esposta alla crescita dell’informazione esterna e alle sirene delle manifestazioni culturali. Con ogni evidenza, il possesso dell’animale come oggetto (v. §19) è legato alle determinazioni sociali e dall’esigenza capitalistica di attivare il ciclo Denaro-Merce-Denaro attraverso tutte le possibili opportunità; perciò esso si sviluppa in direzione dell’uso economico-culturale dell’animale. In effetti, visto dal lato dell’“offerta”, tale sistema si caratterizza come appartenente alla sfera dell’economia, ma osservato dal lato della domanda esso appare semplicemente come determinazione culturale.
Dunque, si puo’ pensare che quelle esaminate siano tre modalita’ diverse con le quali gli strati dell’encefalo umano trovano la propria soddisfazione per mezzo dell’animale concepito ora come parte della natura vitale, ora come compagno, ora come oggetto.
Possiamo ora riprendere il nostro rapido viaggio intorno alle false e illusorie supposizioni del crescente rispetto dei diritti degli animali. Una di esse ruota intorno alla confusione esistente a livello sociale tra due termini: ambientalismo e animalismo (termine, quest'ultimo, che in prospettiva dovrà essere sostituito col più pregnante “antispecismo”).
Nella maggior parte delle persone questa confusione risulta assai netta. Può essere rilevata in un grandissimo numero di situazioni, anche in ambienti istituzionali. Questi ultimi sono più gravi in quanto, a livelli alti, la distinzione dovrebbe essere ben chiara. Purtroppo gli animalisti contribuiscono alla confusione perchè ancora incapaci di presentarsi con un profilo distinto. Con ogni probabilità, un eventuale sondaggio rileverebbe la confusione esistente tra LAV e WWF, tra ENPA e Lega Ambiente, tra LAC e LIPU. La confusione non si esprimerebbe magari a livello di riconoscimento delle sigle; piuttosto verrebbe a mancare chiarezza sul ruolo espletato (o tentato...) dalle prime rispetto alle seconde. LAV, ENPA, LegaAbolizioneCaccia sono associazioni animaliste protezioniste il cui scopo statutario consiste nel difendere gli animali dalla violenza degli uomini. Pur con molti distinguo e con una certa approssimazione le associazioni animaliste ritengono che gli animali siano degli “individui” con diritti irrinunciabili e si battono con i loro mezzi affinché gli uomini instaurino con essi un rapporto basato sul rispetto. In altri termini, le associazioni animaliste sono portatrici, sia pure con una timidezza irritante e con tutta una serie di gravi incertezze teoriche e pratiche, di una estensione del concetto di rispetto verso il singolo organismo vivente caratterizzato come “individuo”.
WWF o Lega Ambiente – o, sul piano politico, anche i partiti ambientalisti come il partito dei Verdi – hanno altri scopi: quello di rendere compatibile l’attività umana con il rispetto della natura che l’idiozia della cultura “sviluppista” ha completamente dimenticato mettendo a repentaglio le stesse possibilità di sopravvivenza della civiltà umana nel lungo periodo. Poiché gli ambientalisti ritengono – correttamente, del resto – che la vita sia un prezioso tessuto di interdipendenze tra specie diverse messo in atto dalla natura attraverso tentativi e errori lungo un processo temporale di milioni di anni, parimenti ritengono che tale legame vada difeso rendendo compatibile l’accesso umano alle risorse con l’effettiva disponibilità di esse. Se qualche risorsa incomincia a flettere per l’eccesso di prelievo, la posizione ambientalista pretende che tale risorsa venga lasciata riposare affinché si raggiunga la condizione di un possibile nuovo prelievo. Poiché gli animali fanno parte della natura, ad essi viene riservata l’attenzione che compete a qualunque altra risorsa “materiale”. Considerato che lo sviluppo industriale e demografico dell’umanità sta mettendo sotto pressione tutte le risorse, gli ambientalisti riservano agli animali la stessa attenzione che riservano alle foreste. Ma il loro occhio non coglie sofferenze di esseri sensibili, bensì il rischio che una risorsa o una specie venga a mancare per sempre e diventi perciò indisponibile per le necessità umane. Non bisogna stupirsi se il WWF si batte per la difesa delle balene in una fase in cui le balene corrono il pericolo di estinguersi. Qualora tale rischio venisse a mancare, la battaglia per la difesa delle balene cesserebbe di sussistere.
L’ambientalismo ha una lunga tradizione, almeno rispetto all’animalismo. Ciò e’ dimostrato dal fatto che esistono movimenti ambientalisti e partiti ambientalisti mentre l’animalismo può contare soltanto su associazioni, cioè espressioni di rappresentanza – si converrà – piuttosto deboli e quasi invisibili ai più. Ne consegue che nell’immaginario di larghissime fasce di opinione pubblica si crea una specie di corto circuito che associa la protezione delle balene o altre specie di animali al problema assolutamente diverso dei diritti animali. Cosicché la diffusione delle tematiche ambientaliste diventa, ipso facto, diffusione delle tematiche animaliste. E come spesso l’antropocentrismo ambientalista viene interpretato erroneamente espressione di “difesa dei diritti animali”, così, altrettanto spesso accade che gli animalisti vengano presi per ambientalisti. Due esempi.
Dopo alcuni mesi di picchettaggi presso un'azienda che praticava la vivisezione, picchettaggi assai fastidiosi per il personale che veniva disturbato da volantinaggi e da slogan, un membro del Consiglio Provinciale, con una interpellanza alla Presidente di tale organismo, chiedeva quali iniziative riteneva di dover prendere per far cessare le intemperanze degli ambientalisti.
Ancora più emblematico un caso avvenuto a Roma. Un certo anno, in occasione della Pasqua, un'associazione di cristiani eterodossi ha coinvolto con un colpo di mano un assessore della Città di Roma affinché contribuisse a finanziare un manifesto piuttosto cruento in cui si invitava la popolazione a evitare il consumo di agnello. Il manifesto è apparso in tutta la città con il logo del Comune creando l’ira violenta delle lobby filonecrofaghe. Naturalmente il Comune di Roma ha fatto marcia indietro sconfessando l’iniziativa e ha affidato a una sua rappresentante il compito di diffondere un comunicato che, dopo le frasi di circostanza, concludeva così:
Rispettiamo le opinioni di tutti, figuriamoci se non quelle dei vegetariani [qui inizia l'equivoco, n.d.r.]. (...) Voglio concludere questa mia breve sottolineando che la sensibilità verso un nuovo tipo di alimentazione è testimoniata dalle iniziative intraprese dal mio assessorato in questi due anni: per la prima volta è stato istituito un albo dei produttori agricoli, i quali per accedervi devono documentare la tracciabilità del prodotto e il luogo di provenienza; sono stati stampati, a spese dell'Amministrazione, un milione di opuscoli per i consumatori indicanti i prodotti locali e di stagione, di cui forse i più giovani e non solo, hanno perso memoria; stiamo dando un largo spazio al mercato biologico, progettando un centro di grande distribuzione che ne può far scendere i prezzi. Insomma, rispettiamoci tutti e avremo una città più accogliente, pacata e serena.
Grazie. Daniela Valentini (e-mail postata su peacelink 18/4/2003. Oggetto: Per una Pasqua di tolleranza)
Da sbellicarsi, non è vero? Insomma, la confusione tra mercato biologico delle carni, la tracciabilità dei bovini e le tematiche animaliste che pongono l’assoluto rispetto degli animali, opera in grande stile anche nella mente di amministratori locali e nazionali. Analogamente i gruppi politici ambientalisti che spesso ricercano, specie sotto le elezioni, il consenso di animalisti grulli sono decisamente antianimalisti e in genere non disdegnano di proferire affermazioni che è difficile superare in chiarezza:
Così ha esordito ieri pomeriggio a Ca' Corner, poco dopo aver partecipato al corteo animalista conclusosi al Molo di San Marco, in occasione del forum "Fauna selvatica ed emergenza caccia: le nostre proposte", organizzato dal gruppo di lavoro "Diritti animali" della federazione dei Verdi [[sic!]], in collaborazione con il gruppo consiliare dei Verdi della Provincia di Venezia. «Intendiamo mantenere aperto il dialogo con la parte del mondo venatorio che, come l'Arci Caccia, condivide le nostre posizioni. È assolutamente necessario non rompere l'equilibrio della legge, e mantenere l'Italia nei limiti delle normative europee senza forzature. La fauna va tutelata entro il quadro costituzionale che prevede, come affermato recentemente in una sentenza della Cassazione, la competenza dello Stato sui calendari venatori e le modalità di esercizio della caccia.
Luana Zanella deputata verde. (e-mail postata su peacelink 20/5/2003. Oggetto: Giornali internet 18/5/2003)
Del resto, tutta la cultura ambientalista è intrisa di convinzioni come quella che segue, la quale potrebbe trovare posto in una corposa antologia:
''Quando ci si incontra su questioni tecniche - concorda Paola Peresin, di Legambiente - cacciatori ed ambientalisti possono convivere: se fatta bene, anche la caccia rientra nella conservazione del territorio''. Michelangelo Federici di Gorzone, del Coordinamento veneto, ha sostenuto la proposta, perche', a suo dire, ''la Regione attualmente non ha uno strumento tecnico altamente qualificato in materia, che e' invece necessario per assumere le importanti scelte di gestione''. Mazzon ha evidenziato che e' necessario partire dalla tutela dell'ambiente e dell'attivita' agricola. ''Garantito questo - ha detto - la caccia sara' una conseguenza logica di un rapporto di equilibrio''. (ANSA, Venezia – 6/11/2002).
Si comprende dunque come le iniziative ambientaliste non possano essere scambiate come attività di protezione degli animali. Abbiamo dunque individuato un altro segno che distorce e falsifica la realtà alimentando l’idea sballata secondo la quale gli animali possano contare su un fronte allargato di solidarietà del tutto inesistente.
Il §07 ha descritto la “mirabile” ascesa del vegetarismo in Italia valutato come pratica alimentare del 5% della popolazione. Non basta: il vegetarismo sembrerebbe una tendenza in espansione fino all’incredibile cifra dei trenta milioni di adesioni tra neanche mezzo secolo. Sembrerebbe di trovarsi dinanzi a un fenomeno travolgente e foriero di grandi trasformazioni. Basta pensare come cambierebbe il nostro mondo qualora non si “usassero” più animali, se non altro, per mangiarli. Purtroppo la base del discorso è minata da tante ambiguità e imprecisioni da rendere l'analisi sul vegetarismo completamente campata per aria.
Innanzi tutto è dubbio il dato di partenza. Il 5% della popolazione vegetariana è un sogno che deve aver condizionato i ricercatori e gli intervistatori. Chiunque, può fare un controllo intorno a sé e scoprirà, a meno che non frequenti una società di vegetariani, che non esiste assolutamente, nel suo entourage, un vegetariano ogni 20 conoscenti. Il dato italiano, spesso è presentato insieme con quello degli altri paesi europei. I dati offerti sono tutti dubbi e suggeriscono metodologie di rilevazione diverse. Ancora più stravagante è l’estrapolazione dei trenta milioni di vegetariani nel 2050. I sociologi scoprono la realtà nel momento in cui si manifesta e magari anche un poco dopo. Figuriamoci le tendenze fra mezzo secolo.
Poi occorre ricordare quella protesta di animalisti rivolta ai centri di ristorazione autostradale. Alla richiesta di commercializzazione di panini per vegetariani, la direzione della società ricordava che esistevano dei panini che oltre a pomodori e verdure varie, contenevano anche tonno e gamberetti. Perché non acquistare quelli? Anzichè spernacchiare l’ignaro dirigente ristoratore, si osservi come la sua risposta rappresenti un utile strumento per comprendere come sia lontano il concetto di vegetarismo, nella sua pur intuitiva precisione, da tutta una serie di approssimazioni sociali che, o per scarsa attenzione alla domanda, o per distorsioni cognitive, finisce per indirizzare su interpretazioni sbagliate del termine. I “vegetariani” che credono di essere tali perché “non mangio carne, ma solo pesce” sono un’infinità. E ciò costituisce un punto cruciale per indicare quanto poco funzioni il vegetarismo come concetto associato al rispetto di animali e alla diffusione di una nuova etica.
In realtà il vegetarismo è di fatto ancora sentito come un’esigenza salutista e, come tale, risulta legato essenzialmente alle mode. In concomitanza con grandi epidemie e diffusioni di morbi tende a aumentare in ragione di timori sociali più o meno fondati e alimentati dai mass media. Si tratta insomma di un vegetarismo che viene e che va e sul quale non si può fare alcun affidamento di stabilità e crescita,.
Oltre a ciò va posto l’accento su un aspetto paradossale. Il vegetariano, nella concezione più diffusa, non rinuncia ai prodotti lacto-ovo-caseari. Ora è noto che la produzione intensiva di latte, uova e formaggio non impedisce, anzi, implica le più pesanti distorsioni etologiche sugli animali produttori e impone prima l’uccisione dei piccoli maschi e poi, quando il rendimento della produzione tende a flettere, anche delle madri. Perciò, il vegetarismo, a meno che non sia “stretto” (il cosiddetto “veganismo”) non risolve il problema della sofferenza animale, anzi, tende a perpetrarlo nelle sue forme peggiori.
L’aspetto paradossale è il seguente: se si escludono i vegetariani salutisti, i vegetariani etici – coloro che fanno la scelta alimentare in nome dei diritti animali – frequentano ambienti fisici e virtuali in cui l’argomento sopra richiamato è ripetuto fino alla nausea. Eppure non riescono a staccarsi (per molti è obiettivamente difficile, ma questo è un altro discorso) dalla dieta lacto-ovo-casearia. Sanno ma “non possono resistere” alla frittata o al capuccino con la brioche. Ora, fra un carnivoro che non si è mai posto il problema, che vive una condizione di ignoranza, lontano dalla consapevolezza dei suoi atti, e un vegetariano che conosce benissimo l’effetto dei suoi atti, chi è il personaggio più problematico? Purtroppo dietro le abitudini vegetariane rimane ben occultato l’atto criminoso della violenza inaudita del macello.
Insomma, il vegetarismo è una categoria così contraddittoria che non può essere considerata la prova di un accresciuto impegno verso i diritti degli animali.
Il §20, a proposito del “consumo di animali” nel nostro Paese, ha riportato la seguente affermazione: «Visto dal lato dell’“offerta”, tale sistema si caratterizza come sfera dell’economia, ma osservato dal lato della domanda esso appare semplicemente come determinazione “culturale”». Di certo la pseudoantropologia liberista sostiene che lo stimolo dell’economia con nuovi prodotti avviene per mezzo della domanda, la quale induce i capitalisti a intraprendere la produzione in quanto “socialmente richiesta”. Poiché parlare di richiesta diretta farebbe sbellicare anche gli ingenui, allora si fa riferimento a una specie di inconscio di massa. In tal modo un sistema che vuole occultare il suo potere di condizionamento, trasferisce sul consumatore la responsabilità del modello dei consumi. Troppo facile. E’ evidente che il prodotto deve in qualche modo inserirsi in una “plausibilità naturale” senza la quale l'offerta non sarebbe sostenuta, ma scaricare la responsabilità su una domanda metafisica del consumatore, il quale, prima che il tale bene non compaia sul mercato, non potrà mai sospettarne l’esistenza, significa compiere un’operazione talmente ideologica da far nascere il sospetto di malafede. Perciò, la proliferazione del commercio degli animali è un atto che gli animalisti ritengono sconveniente e gravissimo, alimentato da personaggi di ogni genere operanti in una pluralità di settori diversi.
Il modo migliore per osservare come “economia” e animali si integrino in una problematica simbiosi consiste nel digitare la parola “animali” in un buon motore di ricerca su Internet. Si vedranno apparire, accanto a associazioni protezioniste, gruppi di affaristi, veterinari, allevatori, venditori. Persino equivoche associazioni di hobbisti. La stimolazione sottile all’acquisto avviene in vari modi; parlando di hobbismo, di gestione delle cucciolate, di pet terapy, di consigli dell’esperto, ma altrettanto spesso, senza giri di parole, si va al sodo: la vendita. Tutto ruota intorno alla vendita di esseri che pagano con la loro infelicità giri d’affari per centinaia di milioni di euro.
Non mancano “portali” con offerte di ogni genere. In questi supermercati troviamo tutti i servizi possibili e immaginabili:
... addestramento, agenzia matrimoniale, riferimenti ad allevamenti, assicurazioni, animali smarriti, animali da piazzare, pensioni, informazioni legali, mercatino ecc. Ebbene, proviamo a compilare un elenco dei termini utilizzati nella presentazione della attività commerciale: staff, operatori di settore, capacità operative della struttura commerciale, 'card', programma di franchising, clientela, struttura collaudata e efficiente, esperienza, professionalità, supporto informatico, sistema, software gestionale apposito opportunamente realizzato, punto vendita, prodotti qualitativamente superiori, competenza, successo della formula. Tutto il corredo semantico di una trasformazione culturale che riduce definitivamente l'animale da compagnia a merce pura e semplice. La società del XX secolo, con la sua forza totalizzante, riesce a stravolgere la possibilità di comunicazione tra uomo e animale da compagnia trasformandolo in una merce come del resto è merce tutto ciò che può essere venduto o acquistato[7].
Persino certe trasmissioni televisive – non si comprende con qual livello di buona fede visto che dichiarano intenzioni opposte – alimentano il desiderio di esotismo per mezzo dell’animale che proviene da paesi lontani e il dubbio sull'effetto sia pure indiretto di certi film cade anche su opere “edificanti” se è vero che la riedizione della...
..."carica dei 101" ha causato una strage di dalmata: non c'è riuscita Crudelia De Mon, ma c'è riuscita la Crudele Realtà paradossalmente generata dallo stesso film. Gli allevatori, naturalmente, non si sono fatti trovare impreparati e il ragazzino uscito dal cinema ha potuto acquistare il suo dalmata presso il negozio più vicino. In una società opulenta si può comprare un cane, giocarci un po' e poi buttarlo via. [7]
Naturalmente non c’è solo internet, non ci sono solo condizionatori a distanza. I negozi che vendono animali, i veri terminal di questo processo di influenza collettiva, i luoghi dove materialmente è possibile approvvigionarsi di merce, sono numerosissimi e, come in ogni negozio, la merce viene esposta in bella vista nelle vetrine ornate con la vita per raccogliere l’attenzione del passante. Si può ancora pensare che una pluralità di imprenditori non giochi un ruolo trainante nel soddisfare voglie che, guarda un po', nascono tutte insieme “autonomamente” in milioni di persone?
Uno degli argomenti fondamentali della tesi del crescente impegno per i diritti degli animali si basa sulla produzione legislativa che ha per oggetto i loro interessi: una legislazione spesso ritenuta “rilevante”.
In effetti la produzione di leggi sul “benessere animale” non è né rilevante né irrilevante. E’ semplicemente normale. Ormai in Europa questa materia è, con minime eccezioni, oggetto di adeguamenti alle varie direttive comunitarie. Se viene posta attenzione a una particolare situazione, questo accade perché una direttiva comunitaria o l’adesione a un protocollo internazionale sollecita i parlamentari e i governi a ordinarissimi aggiornamenti. In tal contesto la parola “benessere” viene largamente impiegata e spalmata su articolati di ogni genere.
Non si cada però nell’errore di prendere per buone le espressioni accattivanti impiegate; lo scopo precipuo e unico di tali interventi, in sede europea e nazionale, non ha come oggetto tanto l’animale quanto la salute del consumatore. Le malattie che hanno colpito in questi ultimi anni gli allevamenti di bovini, pecore, polli, malattie dovute essenzialmente all’innaturale affollamento del metodo intensivo, spingono le autorità ad adottare soluzioni del male minore intorno a quello che viene considerato un dogma indiscutibile: il valore economico degli allevamenti e il sostegno assoluto all’industria dello smontaggio di esseri sensibili. Le soluzioni del male minore, contrabbandate per interventi a favore del benessere animale altro non sono che riduzioni del danno economico; sono misure che, qualora fossero trascurate, non farebbero che peggiorare la qualità del pezzo di cadavere che viene servito nelle tavole dei buongustai necrofagi.
Poi vi sono altri splendidi esempi di eccelsa umanità che riguardano le norme che prescrivono come i cacciatori devono ammazzare gli uccellini o la fauna “selvatica” allevata in capannoni e liberata per essere graziosamente fucilata nell’ambiente naturale. Oppure il modo con il quale altri tipi di persone, pur esse amanti degli animali, devono provvedere a somministrare farmaci o smembrare col bisturi topi, cani, scimmie per produrre quei farmaci che successivamente potranno essere ritirati dal mercato per manifesta nocività sugli umani.
Rimane un residuo: le leggi indirizzate al benessere di quella parte di animali giudicati “di affezione” e una legge generica che faccia da ombrello a maltrattamenti altrettanto generici. Si tratta delle uniche norme che non hanno come oggetto diretto o indiretto l’attenzione verso la salute del consumatore. In Italia esiste la “rivoluzionaria” legge 281/91, che, appunto, dovrebbe regolare il possesso di cani e gatti, e la 189/04 che ha riscritto le disposizioni contenute nel Codice Penale. La prima è stata congegnata male e ha consentito, pur senza volerlo, la penetrazione del crimine nella gestione del randagismo. La seconda ha riscritto in termini peggiorativi (eccezion fatta per un paio di paragrafi) una norma minimalista che vigeva fino al rifacimento recente.
Grosso modo, senza quegli approfondimenti che il lettore può cercare altrove [8] e che qui non riportiamo per esigenze di agilità del testo, questo è lo stato dell’arte.
E’ possibile chiedersi come mai lo Stato riversi tanta enfasi nella produzione della normativa specifica. Non sarebbe più logico (e onesto) che si considerassero gli animali come semplici oggetti sussunti al totale arbitrio umano senza mediazioni di sorta?
Che razza di domanda sarebbe mai questa?
Da quando in qua, le società dell’Occidente rinunciano allo scarto tra dichiarazioni e processi sostanziali? Non si parla forse di protezione dell’ambiente mentre l’ambiente viene sottoposto a attacchi irreversibili? Non si parla di indissolubile aspirazione alla pace mentre le guerre prodotte direttamente o indirettamente dall’Occidente fioriscono in ogni parte del mondo? Non si aspira al soddisfacimento delle elementari esigenze materiali dei popoli mentre vengono semplicemente negate da interessi, brevetti, “protezioni”? Il processo civile avviato con l’Illuminismo ha trasferito il carattere dell’ipocrisia borghese ad ogni tratto umano. L’insistenza sui presunti tratti nobili dell’umanità, tratti che la borghesia dichiara di avere distillato con la sua opera civilizzatrice, altro non fa che accompagnare la loro progressiva perdita. Il mondo allora deve essere letto alla rovescia: l’esaltazione di ogni tratto nobile è semplicemente la deformazione di processi reali che accompagnano il declino dell’umanità. Non possiamo stupirci allora se, in un’ansia di perfezionamento spirituale del tutto avulso dalla realtà, le istituzioni politiche umane desiderino disegnare un percorso di perfezionamento che coinvolga magnanimamente anche gli animali, magari dietro la spinta di gruppi e associazioni che si accontentano di dichiarazioni per oggi e di belle speranze per il futuro. Ma solo i semplici e i cuorcontenti possono scambiare la realtà con i propri desideri.
Sappiamo che il succedersi delle mode è ciclico. L’Occidente, anche non avendo, una visione rigorosa della ciclicita' dell'Essere come quella orientale (in particolare, cinese), è costretto a rilevare avanzamenti e regressioni nella sua stessa produzione concettuale. Ogni visione si porta dietro la sua contraria. Sembra quasi che un’idea che appare con notevole forza perda per strada la sua energia propulsiva, si affievolisca riaprendo spazi alla sua opposta, accompagnando poi il processo con revisionismi e reinterpretazioni.
Naturalmente vi sono cicli di diversa ampiezza a seconda del grado di penetrazione delle idee nel corpo sociale. Più si radicano nella materialità dell'organizzazione sociale, più tempo occorre, in genere, perché si faccia strada la visione concorrente. Probabilmente la giustificazione della schiavitù (intesa come concetto) può restaurarsi solo con qualche tracollo di civiltà. Non sembra che possa riemergere senza qualche sconvolgimento profondo. Questo semplice esempio evidenzia come certe idee siano in realtà dipendenti dalle condizioni materiali e dall'organizzazione della produzione materiale della società di cui sono soltanto un riflesso. Il radicamento di tali idee è legato al modo stesso in cui le forme di vita sono intessute.
Invece, quando le idee sono semplici ghirigori indipendenti dalle forme di vita, possono essere cambiate – anzi si cambiano – con la stessa rapidità con la quale passiamo dal desiderio del dolce a quello del salato. Sembra che il dinamismo stesso delle propensioni e delle convinzioni, in questi casi, poggi proprio sul piacere del cambiamento inteso come categoria fondativa dell’antropologia umana. Su questi presupposti possiamo riprendere a ragionare sul nostro tema.
Nel presente capitolo i segni del tutto artefatti sul presunto miglioramento della relazione uomo/animale sono stati smascherati e illuminati da una luce che ne ha messo in risalto gli autentici profili. Quei segni sono costantemente fraintesi; ambientalisti, vegetariani, zoofili, proprietari di cani, leggi sul benessere animale non sono affatto segni di un’effettiva rivoluzione civile e concettuale capace di restituire al mondo animale una considerazione di rispetto che, se mai si è avuta, è stata comunque peggiorata con l’avvento della Modernità.
Occorre però chiedersi se l’attuale fase non possa offrire, ad un eventuale Soggetto che si ponga l'impari compito di combattere per l'alterità animale, una chance attraverso le opportunità che essa presenta. Se l’attuale periodo, oggi caratterizzato da venature zoofile, si volgesse in cultura zoofoba, quel Soggetto si troverebbe di fronte a difficoltà ancora superiori alle attuali. Anzi si potrebbe dichiarare conclusa, almeno fino all’incerta apertura di un altro ciclo, la speranza di fondare un autentico movimento di allargamento etico a altre forme del “vivente”.
L’attuale periodo che, come è stato chiarito, non è una fase favorevole al riconoscimento dei diritti animali, può diventarlo se si verificano condizioni capaci di fondare un Soggetto in grado di intravvedere i passi necessari per contrastare un nemico pervasivo e infido e, magari, per aprire la fase nuova. Per alcuni questo soggetto già esiste, sia pure sotto forma di arcipelago. Si tratta di elementi frantumati agenti per proprio conto ma operanti, si dice, tutti nella stessa direzione. Questa vaga espressione è chiamata “animalismo” o “movimento per i diritti animali”.
Esiste davvero? E’ adeguata alla difficoltà dell’impresa? Ecco l'argomento di indagine della seconda parte di questo saggio.
Note
[1] Il Manifesto – 16 aprile1996 – Mariuccia Ciotta: "In un mondo che odia gli animali".
[2] John Berger – "Del guardare" – Sestante, 1995
[3] Il ragionamento corrobora il sospetto che le forme elitarie del pensiero non toccano le masse. Prima del capitalismo del XX secolo gli animali non dovevano essere percepiti come insensibili (nonostante Cartesio); semmai doveva essere diffusa tra gli esseri umani una insensibilità per la loro pur riconosciuta sensibilità. Ma questo è un altro discorso che va visto in rapporto alle dure condizioni di vita del passato. Abbiamo la possibilità di verificare questo schema con una certa facilità. Basta volgere il nostro sguardo verso i paesi poveri. Vedremmo un rapporto duro, violento, ma non privo di una riconosciuta sensibilità per l'altro da sé.
[4] Quaderni della Giunta Regionale del Piemonte, N. 17 – Mario Valpreda: "Animali da affezione in città".
[5] Ma, come è stato osservato nel secondo capitolo, non tutto funziona sempre al meglio. Gli anziani, anche quando non sono fuori di testa e riflettono i loro disagi verso i loro piccoli amici imprigionandoli in luoghi e abitudini etologicamente inaccettabili hanno un grave difetto: spesso lasciano i loro amici beneamati in eredità poco gradite e a alto rischio. Analogamente i bambini, se non sono accompagnati nel loro processo di sviluppo emotivo, possono vedere nel cane o nel gatto un semplice elemento di passaggio di cui ci si stanca rapidamente. Questo accade quando i genitori non sono il massimo da un punto di vista delle capacità educative. A questo punto l’animale, di nuovo, rischia la dispersione nel territorio. Casi di questo genere sono infiniti e la cronaca ne trasuda senza posa.
[6] Per ora, come del resto e’ stato fatto in precedenza, si impiega questa nozione, “diritti animali” che comunque, nella seconda parte sara’ interpretata sotto luce corretta.
[7] Fonte: www.liberazioni.org/ra/ra/sez1-02.htm
[8] Valerio Pocar – “Gli animali non umani: Per una sociologia dei diritti” – Laterza, 2004