Capitolo secondo – La realtà emerge dai segni



§08 – “Animale”: chi è costui?

La società italiana, in sintonia con le tendenze di un'Europa culturalmente avanzata, ama dunque gli animali? Intanto parlare di animali “in generale” ha poco, pochissimo senso. La zanzara è un animale? Certamente. Vogliamo parlarne? Ok, è una provocazione. Allora lasciamo perdere le zanzare riservando la questione a un futuro lontano. Ma un’aquila sicuramente è un animale; così come l’asino che tira il carrettino o trasporta il carico degli escursionisti in montagna; oppure come l’orso nello zoo; oppure, ancora, come il bue che viene macellato o il gatto che dorme tranquillamente sul divano di casa.

Allora l'obiettivo qui posto consiste nel visitare la condizione degli animali a seconda della funzione svolta presso l’umano per verificare quanto illusoria sia l’ipotesi che la Modernità porti con sé l'affievolimento della violenza contro i cosiddetti “senza parola”. Anzi, non sarà difficile dimostrare il contrario, e cioè che è proprio la Modernità, con le caratteristiche sue proprie, a portare sulla Terra una violenza senza fine ai nostri fratelli minori, dove “minori” sta per “succubi e indifesi” e non certo per “dotati di minor valore”. Alla fine del capitolo apparirà chiaro a una mente non viziata dal pregiudizio che la disposizione umana verso l'animale offerta in precedenza, altro non sia che una miserabile rappresentazione con la quale una società violenta, anzi, la società più violenta che sia mai esistita, cerca di mascherare le sue imperdonabili colpe. Per questo apriamo una carrellata di “situazioni” che ognuno dovrebbe conoscere, sperando che quella essenza tanto decantata dell’umano, la sensibilità, faccia sentire almeno un po' della sua influenza e giochi un ruolo nel coinvolgimento emotivo del lettore. [1]

§09 – La realtà degli animali da reddito

Gli animali da reddito sono impiegati come “materia base” nella realizzazione dei guadagni e dei profitti di un settore particolare di imprenditoria: la zootecnia. In Italia (come altrove) questa attività è letteralmente esplosa dopo la guerra e ha modificato in modo irreversibile la condizione degli animali da reddito. In precedenza, essi venivano detenuti dalla popolazione agricola in condizioni molto diverse da quelle attuali. La violenza è stata sempre un tratto fondamentale della domesticazione, ma a titolo di giustificazione occorre osservare che gli animali condividevano con l’essere umano la durezza delle condizioni ambientali. Inoltre la natura stessa del rapporto impediva la degenerazione che è sopraggiunta con l’allevamento intensivo. Senza contare che non sempre la durezza della civiltà contadina impediva a determinati individui di instaurare un rapporto intimo con il proprio animale.[2]

Poi le cose sono cambiate. La maggiore disponibilità di denaro ha fatto sì che l'uomo attuale diventasse, qualcosa di ben diverso dal maggior difensore della vita animale: piuttosto il suo miglior “realizzatore”. La società dei consumi ha imposto l'allevamento di massa. Un’infinità di bovini, maiali, galline, conigli che devono rifornire un'umanità sempre più brutalmente affamata di proteine superflue, si è trovata, per la prima volta da quando il mondo esiste, in situazioni incomparabili con quella dei loro progenitori che pure, nelle aie dei contadini, non godevano di condizioni invidiabili. Destinati a una vita cortissima, in spazi angusti, non hanno la minima idea di cosa significhi la libertà e sono destinati a patire una condizione che può solo definirsi tragica.

Per quanto vi siano leggi che dovrebbero regolare il benessere animale, e per quanto sia repellente parlare di benessere animale per soggetti che dovranno essere uccisi per il piacere del palato del consumatore, le norme in oggetto sono un monumento all’ipocrisia umana. La mancanza di libertà, la costrizione in gabbie ristrette, costituisce la prima violenza che viola i diritti di esseri che, come noi, hanno bisogno vitale di movimento. L’isolamento costituisce un’altra violazione delle necessità di socializzazione, quando non si cada nella condizione opposta, quella in cui un numero esagerato di esseri viene compresso in ambienti angusti – vedi, a esempio, le galline ovaiole – al punto che lo stato innaturale spinge gli animali a ferirsi e aggredirsi a causa delle condizioni inaccettabili di stress. La brutale soluzione umana del problema consiste nel tagliare il becco agli uccelli o nel cavare i denti dei mammiferi.

Il rispetto di un essere che richiede cibo e acqua in quantità e qualità adeguata è vanificato dalle tecniche di zootecnia che portano ad aberrazioni in nome del profitto. La società degli uomini ha dovuto provare sulla sua pelle il terrore di rischi gravissimi prima che si decidesse di eliminare una pratica ripugnante: quella di rendere le mucche cannibali somministrando ad esse farine animali ottenute dall’essicazione di parti cadaveriche inutilizzabili di precedenti ammazzamenti. E va detto che la pazzia si è annidata, prima ancora che nella testa di qualche allevatore in cerca di soluzioni alternative per lo smaltimento dei cadaveri, in qualche decantato centro di ricerca ormai scomparso sotto una coltre di colpevole silenzio.

La disponibilità a un trattamento rispettoso (secondo i canoni antropocentristi) è vanificato dalla condizione stessa dell’animale che ha perso, agli occhi dell’allevatore, la natura di essere biologico per conquistare definitivamente quello di cosa, di oggetto dal quale estrarre il massimo del guadagno. Il perfezionamento di questo atteggiamento di violenta sopraffazione si manifesta con la pratica della selezione che, rivolta alla massimizzazione – della quantità di latte, del numero delle uova, del peso dell’animale in rapporto alla qualità desiderata, in altri termini... del rapporto ricavi/investimenti – soppianta qualsiasi attenzione alle esigenze etologiche dell’animale, qualunque esso sia.

Si osservi che in fondo al destino di ogni animale, anche di quello destinato a produrre alimenti ovocaseari, c’è sempre una macellazione precoce che diventa “necessaria” quando la produzione di latte o di uova non corrisponde più a quella ottenibile da un animale più giovane. Quindi uccisione che prevede interventi di dissezione previo stordimento cioè quando l’animale è ancora vivo. Oppure, per animali più piccoli, come per esempio i polli, l’uso di catene di “smontaggio” nelle quali gli animali vengono appesi, sgozzati, impacchettati per il pronto uso della massaia che compra al supermercato un semplice oggetto nutrizionale.

Naturalmente la perfidia umana riesce a mascherare dietro i buoni sentimenti anche le pratiche più efferate. Il decreto legislativo 333/98 che recepisce la Direttiva Europea 93/119 ha per titolo: “Tutela del benessere degli animali durante la macellazione”. Nessun popolo primitivo scelto tra i più violenti e sanguinari riuscirebbe a trattare gli animali in modo analogo, sottoponendoli a torture insopportabili dalla nascita alla morte e, poi, a rispecchiarsi “umano” come fa l’uomo “civile” con lo stile rassicurante delle sue norme.

Come se non bastasse la violenza che si respira nell’allevamento e nel macello, spesso si impone all’animale anche la violenza del trasporto. Alcuni esempi presi dalla stampa.

Pranzo di Pasqua a rischio sulle tavole dei lucani. Quattromila e 200 tra agnelli e capretti destinati a due aziende di Venosa per rifornire il mercato di Basilicata e Puglia sono stati bloccati alla dogana di Gorizia. Il motivo non ha nulla a che vedere con la salubrità delle carni ma affonda le sue radici nella burocrazia. Le stalle dove gli animali dovrebbero essere scaricati per i controlli risultano piene e il veterinario capo della dogana ha intimato il blocco dei tir. L'elemento paradossale è che le stalle risulterebbero piene pur non essendolo, per un problema di tempi di scarico e ripartenza. Insomma, animali costretti a soffrire su sei tir, ma trasportatori e, soprattutto, allevatori lucani con il fiato sospeso per i rischi di morte dei capi di bestiame, deperimento merce e ritardi nelle consegne. A difesa degli allevatori lucani e anche degli animali è intervenuto il capogruppo dei Verdi in Consiglio Regionale di Basilicata....[3]

Un articolo assai istruttivo, anche se non molto diverso da tanti altri. Gioverà, visto che questo lavoro ha preso le mosse dall’attenzione della stampa nazionale verso la “questione animale”, osservare alcuni passaggi del testo. “Pranzo di Pasqua a rischio”, “allevatori lucani con il fiato sospeso”, “deperimento merce” “ritardi nelle consegne”, “a difesa degli allevatori lucani e anche (sic) degli animali”. Come si può notare, l’interesse giornalistico riconverte rapidamente – quando è il caso – l’occhio con il quale volge lo sguardo agli animali. Lo stile che altrove impiega parole come “gattini” e “cagnetti” viene riconvertito con un lessico che ruota intorno a “bestiame” e “macello”. Inoltre si osservi un fenomeno che gode raramente dell’attenzione dovuta: il disinteresse delle procedure burocratiche per il tormento di esseri capaci di sofferenza. Il “macello” per questi animali giunge sempre come sollievo.

Il presidente Zanotto aspetta da Roma il via libera per aumentare l'import di animali (...) La decisione di aumentare il flusso degli animali è però nelle sole mani dell'autorità sanitaria. Il nullaosta per far fronte all'ormai tradizionale emergenza pasquale aumentando il turn over nelle stalle della Sdag deve arrivare da Roma. (...) Rimarca il presidente: «La dogana ha assicurato che non farà perdere neppure un minuto in più agli autotrasportatori. Le pratiche di sdoganamento saranno completate durante la sosta degli ovini e gli accertamenti sanitari fatti dai veterinari. La palla, in altre parole, passa proprio al responsabile di questo servizio. Sì, si può arrivare a 30 mila capi sdoganati contro gli attuali 24 mila. Aspettiamo di sapere se sarà possibile arrivare a utilizzare le stalle su quattro turni, aumentando quindi l'import di altri dieci camion». Da ieri e fino a metà della prossima settimana saranno giorni di alta confusione alle infrastrutture confinarie di Sant'Andrea. La marea di oltre 150 mila ovini si concentrerà in poche giornate. Sabato e domenica la dogana è chiusa (...).[4]

L’articolo, del tutto privo di qualsiasi compassione per animali che sono destinati a morire per un superfluo piacere degli umani, ci ricorda tempi diversi in cui attraverso l'Europa circolavano certi carri piombati che conducevano altri viventi verso innominabili mattatoi. [5]

La Modernità! E’ lei la responsabile della tragedia che ha travolto gli animali da reddito traghettando il quotidiano dolore degli animali dell'epoca preindustriale in una condizione ancora piu' tragica. La Modernità: con la disponibilità di energia che permette di mandare agnelli, cavalli, buoi, struzzi in giro per il mondo a prezzi irrisori. Talmente irrisori che mittenti e destinatari si possono permettere perfino il deperimento di parte della “merce” per fame, per sete, per stenti. Tanto l’energia non costa nulla e viene ampiamente ripagata dalla “merce” che riesce a giungere a destinazione. Cosicché tutto può essere spedito, anche l’inverosimile, mostrando la follia di una specie che ormai si ritiene semplicemente onnipotente. Ecco un caso di spedizione assurda segnalato dalla LAV.

Centinaia di carpe di circa cinque chilogrammi ciascuna sono morte per probabile asfissia nel lago artificiale «S. Rosalia» di Ragusa. I malcapitati pesci, circa duemila esemplari, sono arrivati dal Nord Europa per essere introdotti nell'invaso, a cura della Provincia di Ragusa, destinati a finire infilzati dagli ami dei pescatori "sportivi". Evidentemente il lungo viaggio nei camion all'interno di grosse vasche ha debilitato fortemente le carpe che, non potendosi adattate al nuovo ambiente estraneo, sono purtroppo morte. "Si tratta di un vero massacro annunciato poichè migliaia di animali viventi in ambienti del Nord Europa non avrebbero mai potuto sopravvivere in un lago artificiale siciliano - dichiara Ennio Bonfanti, responsabile "fauna" della LAV - le carpe sono state sacrificate per il solo "piacere" dei pescatori che si sarebbero dovuti divertire infilzandole con le loro canne. (Comunicato della LAV: 16.04.2003)

La Modernità ha fatto incontrare quattro giocatori al tavolo dell'inferno per gli animali: il sistema industriale, la fantasia, la smania di denaro, la propensione verso la violenza da parte della specie umana; tutto questo per inventare la moderna zootecnia e la sua fredda ferocia la quale spinge nel gorgo della distruzione anche esseri che non sono mai appartenuti a una “tradizione culinaria” locale. Un esempio.

Al via la possibilità di poter macellare gli struzzi. L'assessorato regionale alla Sanità ha autorizzato il mattatoio comunale di Troina, a poter eseguire la macellazione degli struzzi. Si tratta della prima autorizzazione consentita ad un ente locale. Non esiste infatti, in tutta l'isola, una struttura idonea ed autorizzata alla macellazione di questo animale, il cui allevamento si estende sempre più e aumenta periodo dopo periodo. L'unica possibilità di macellazione è a livello privato, in una zona del Catanese. Due le sale, all'interno del mattatoio, che sono state adibite per questo scopo, avulse dalle stanze ove avviene la macellazione dei bovini. In queste stanze avviene l'uccisione degli animali e di conseguenza tutta la filiera che va dallo spennamento alla lavorazione della carne. (...) L'attenzione per gli allevamenti di struzzi si sta sempre più concentrando nella nostra isola. Diversi studi hanno infatti dimostrato che le particolari condizioni climatiche presenti in Sicilia, rispetto al Nord, favoriscono in maniera anticipata lo schiudersi delle uova. «Sono soddisfatto - ha detto l'assessore comunale all'agricoltura La Barbera - per questo provvedimento. A tal proposito il 30 aprile, ma stiamo redigendo il programma, svolgeremo una cerimonia di inaugurazione alla presenza di diverse autorità regionali e provinciali e - ha concluso La Barbera - con tutti coloro che hanno contribuito alla realizzazione di questa importante e funzionale struttura».[6]

Poi ci sono gli “animali da pelliccia”. Proprio così: vengono chiamati “animali da pelliccia”. Sono centinaia di migliaia. Chiusi dentro gabbie sulle cui sbarre si consumano i denti. Ma non importa poiché il loro valore sta altrove: in un manto che non deve essere sciupato e per il quale “si è costretti” a somministrare la morte per scossa elettrica con due elettrodi piazzati nella bocca e nell’ano. Inutile segnalarlo a chi tanto ama vestirsi con le pelli di questi esseri martoriati. Di nuovo riemerge l’immensa doppiezza del nostro Paese che produce leggine che rinviano a tempi lontanissimi, e sempre procrastinati, le ristrutturazioni che dovrebbero migliorare di un infinitesimo la vita dei condannati alla morte elettrica. Forse un giorno sarà sancita la “riconversione degli allevamenti” affinché l’Italia non sia più macchiata da questa attività disumana. Se qualcuno vorrà una pelliccia, ma solo allora, dovrà accontentarsi di un capo di importazione. Di animali allevati nelle gabbie di qualche paese lontano, lontano dagli occhi degli animalisti. Come sempre, la modernità tende a ripulirsi del peccato delegando la pratica al boia. Lo fanno i cittadini, che a differenza dei contadini, si cibano di esseri che non sono stati da loro uccisi; lo fanno gli stati “civili” che delegano ai “barbari” le pratiche sconvenienti come la tortura. Ripulirsi l’anima, magari col conforto delle loro tenebrose religioni!

Come chiudere un capitolo sugli animali da reddito? In un solo modo; con le nude cifre dell’olocausto messo in atto dai membri della molto onorevole specie Homo Necans, sezione Italia:

Volatili
Suini
Agnelli
Pecore
Manzi
Vitelli
Equini
“Da pelliccia”
850
13
5,5
2,5
3,5
1,5
0,5
0,35
milioni
milioni
milioni
milioni
milioni
milioni
milioni
milioni

Ce ne sono ancora. Ma entreranno in capitoli a parte.

§10 – La realtà degli animali da sperimentazione

Vivisezione è un termine antico normalmente associato alla “dissezione di un animale da vivo”. Oggi la ricerca ha esteso i modi di manipolazione degli animali al punto che la vivisezione vera e propria non è più la pratica dominante anche se è tutt’altro che abbandonata. Così, nel tentativo di rendere pulita una condotta che mantiene tutto il suo orrore, negli ambienti ovattati della ricerca, si preferisce impiegare l’espressione “sperimentazione animale". Come sempre, l’Occidente, sconfitta la nitidezza comportamentale dei suoi soggetti peggiori, deve rivestire le sue abiezioni con espressioni connotative che allontanino i pensieri sgradevoli dall’uomo evitandogli quei complessi di colpa che lo rendono fragile e insicuro.

La “sperimentazione animale” viene attuata su centinaia di milioni di animali in tutto il mondo nel silenzio e nella segretezza dei laboratori. Gli artefici sono individui sui quali una precedente generazione di maestri ha provveduto ad effettuare l'occorrente opera di desensibilizzazione. La vivisezione impiega animali di ogni genere: fondamentalmente roditori di varie specie, ma la ricerca è estesa anche ad animali “superiori” come cani, gatti, scimmie. Per ricerche particolari non si disdegnano uccelli e pesci, ma anche altri mammiferi. Pochi animali si salvano, probabilmente perché la “scienza” non ha ancora rivolto loro la dovuta attenzione.

La vita delle incolpevoli vittime si sviluppa lungo una via di sofferenza che nessun popolo primitivo o barbaro ha potuto mai concepire né attuare. Basta immaginare un'esistenza fatta di reclusione totale in ambienti innaturali, spesso priva di contatti con i propri simili, in attesa della sperimentazione che può spaziare dalla farmacologia, allo studio delle protesi, alla ricerca tossicologica, alla ricerca cosmetica, persino – notare bene – alla sperimentazione in psicologia. Gli esperimenti vengono effettuati sia nei laboratori delle industrie private, sia nei laboratori pubblici e nelle università. Si tratta di autentici luoghi dell’orrore in cui la violenza viene spesso prodotta senza impiego di anestesia.

Gli animali vengono devocalizzati per impedire loro di urlare; vengono avvelenati, ustionati, accecati, affamati, mutilati, congelati, decerebrati, schiacciati, sottoposti a ripetute scariche elettriche attraverso elettrodi conficcati nel cervello, infettati con qualsiasi tipo di virus o batterio, anche quelli che non colpiscono gli animali, come il treponema pallidum per la sifilide o l'HIV per l'AIDS. Tutti i test sono dolorosi per l'animale; non vi sono mai casi in cui non ci sia sofferenza; la prigionia in sè è già una tortura significativa. Inoltre, il 63% degli esperimenti (dati britannici) viene compiuto senza anestesia, un altro 22% con anestesia solo parziale. Gli esperimenti di psicologia sono particolarmente crudeli, perché sottopongono gli animali ad ogni forma di stress fisico e psicologico, nel tentativo assurdo di riprodurre e studiare le malattie mentali degli esseri umani e le loro cause. Si compiono, ad esempio, migliaia di esperimenti sulla "deprivazione materna", sull'isolamento e sull'aggressività. [Questo passo e quelli seguenti sono tratti da www.novivisezione.org - a cura di Stefano Cagno]

L'antivisezionismo classico sostiene che:

Questi esperimenti non portano ad alcuna reale conoscenza sugli effetti di una eventuale sostanza da provare (come ad esempio un farmaco), perché animali di specie diverse, come pure di razze diverse o addirittura di ceppi della stessa specie, rispondono in modo diverso ad un dato stimolo. E' sufficiente dire che il 60% delle risposte dei topi differisce da quelle dei ratti, specie a loro molto simile. E, dunque, se il risultato ottenuto sul topo è diverso da quello ottenuto sul gatto, diverso da quello ottenuto sul cane ed anche da quello ottenuto sul ratto, a chi somiglierà di più l'uomo: al topo, al gatto al cane o al ratto? La risposta non si può sapere a priori. Solo dopo aver sperimentato sull'uomo si scoprirà, volta per volta, a quale specie e razza egli assomigli di più in quel particolare caso.

Ma perché viene continuata questa pratica se le cose stanno in questi termini e se la sperimentazione animale richiede successive validazioni sull’uomo per confermare o smentire i dati precedenti? Per molte ragioni:

la sperimentazione sugli animali fornisce ai produttori di farmaci la possibilità di selezionare la risposta, variando la specie animale o semplicemente le condizioni dell'esperimento, con il fine di commercializzare, in un'ottica di profitto, migliaia di farmaci che, una volta in commercio, si rivelano spesso inutili e talvolta dannosi. La sperimentazione animale fornisce così una comoda (ma per noi pericolosa) tutela giuridica alle aziende farmaceutiche. Esistono circa 200.000 specialità farmaceutiche in commercio nel mondo, mentre quelle ritenute utili dall'Organizzazione Mondiale della Sanità sono soltanto 300-400.

Ma vi sono altri motivi. La vita dentro le università è scandita dal numero delle pubblicazioni prodotte. Concorsi, cattedre, carriere hanno bisogno dell’imprimatur della “pubblicazione” in onore ad una tradizione che arriva dai tempi della fondazione secolare degli istituti universitari. Per quanto riguarda gli istituti privati le cose non cambiano: la pubblicazione è la ratifica di un successo personale o di gruppo che si sostanzia nella propria segnalazione nell’olimpo delle riviste scientifiche. E allora, perché non fare esperimenti su animali che possono essere reiterati, con piccole variazioni, quante volte si vuole facendo piovere il proprio nome su una sterminata letteratura?

Infine una ragione che gli antivivisezionisti tendono sempre inconsciamente a occultare, forse per un difetto di ottica che converge troppo sul problema animale, e che fornisce la terribile prova che nessun approccio “riformista” avrà mai ragione di questa immane violenza. L’atteggiamento cartesiano che riduce tutto a macchina, anche il vivente, ha bisogno di creare una desensibilizzazione assoluta nella psicologia del ricercatore. Non soltanto la medicina e la ricerca biologica svolgono un ruolo ambiguo, ma anche la fisica, la chimica, la sociologia, l’informatica (chissà se si salvano la letteratura e l’arte). Altrimenti non avremmo sotto gli occhi il mondo che vediamo. E allora è possibile che la sperimentazione animale svolga proprio la funzione di allenare a distanza – come pratica sociale normalmente accettata – altri “sacerdoti della conoscenza” in attesa che prenda forma, in una delle mille forme possibili, la violenza che successivamente sarà estesa all’uomo e alla natura. E così continuano le infinite torture da parte di una specie che per continuare a guardarsi allo specchio si inventa eccezioni a cui non riesce nemmeno a dare seguito.

Una di queste eccezioni è stata la direttiva 93/35/CE, che ha imposto la cessazione dei test cosmetici sugli animali a partire dal 1 gennaio 1998. Questa data è slittata, purtroppo, con la direttiva 97/18/CE, al 30 giugno 2000, perché non erano stati ancora "validati" metodi sostitutivi. [7].

Una specie che rifiuta persino frammenti di etica che potrebbero essere raccattati gratuitamente con l'impiego di banali disponibilità tecnologiche:

Una drastica riduzione del numero degli animali uccisi, sarebbe possibile evitando le ripetizioni degli esperimenti già compiuti. Occorrerebbe dunque un Centro di Elaborazione Dati al quale far affluire i risultati di tutti gli esperimenti compiuti, come minimo, in tutta Europa. Invece, il decreto 116/92 si limita a definire, come unico obbligo per il Ministero della Sanità, la raccolta di dati statistici sul "numero e specie di animali utilizzati in esperimenti" e viene anche precisato che non saranno pubblicate le informazioni pervenute quando esse "rivestono un particolare interesse commerciale". Come dire che non si saprà mai niente degli esperimenti compiuti dalle industrie farmaceutiche.

Non solo non ci si lascia alle spalle quanto potrebbe essere semplicemente abbandonato, ma coerentemente con l’inappagabile spinta al delirio di onnipotenza, si provvede a spingersi oltre, in un’ansia di mettere il mondo a soqquadro inventando nuove forme di dolore che la natura non è mai riuscita a concepire in nessun angolo della Terra e, forse, dell'Universo.

§11 – La realtà degli animali sinantropici

I sinantropici sono per definizione animali che vivono nell’ambiente antropizzato, ovvero in comunanza con gli uomini. Si eviterà però di considerare i domestici (trattati altrove - §13) per riferirci a quella fauna che si trova a interferire con l’uomo e le sue attività. Di norma, la cultura antropocentrista non rifiuta necessariamente la presenza di altri animali nel suo ambiente. Tuttavia, se le “altre presenze” arrecano qualche disturbo, oppure manifestano comportamenti concorrenti anche in piccola misura con le attività umane, allora lo sterminio viene invocato e subito messo in pratica con il placet delle istituzioni. Di quali animali si sta parlando? Prima di dare questa risposta conviene fare un ragionamento per l’evidente rischio di confonderli con quelli del prossimo paragrafo: gli animali selvatici.

Abbiamo detto che i sinantropici interferiscono con l’ambiente umano, ma dove finisce l’ambiente umano? Non certo nelle città. Sarebbe bello (e impossibile). Ormai l’ambiente umano copre tutto il pianeta, a parte certe zone impervie e qualche parco soggetto ad amministrazione particolarmente severa. La presenza umana nel territorio assomiglia al sistema sanguigno. Concentrato in certe parti del corpo, distribuito in altre. Ma si può dire che quasi non esista un luogo privo di umani. Quindi, a rigore, gli animali selvatici non dovrebbero più sussistere, essendo praticamente tutti sinantropici. Tuttavia non estremizziamo il concetto fino a questo punto: chiameremo sinantropici gli animali che interferiscono con le attività umane laddove queste sono significative, ovvero negli spazi più o meno coinvolti da intensi insediamenti abitativi o agricoli.

Così, circoscritto l’ambito di definizione, l'aggettivo “sinantropico” può essere esteso a molte specie di animali. Innanzitutto ai piccioni torraioli, quelli che incontriamo nelle nostre città. Analogamente, possiamo considerare altri tipi di uccelli che solo ultimamente hanno incominciato a insediarsi negli ambienti urbani attratti dalla maggior sicurezza o dalla disponibilità di cibo abbondante. Poi quelli che non vediamo facilmente, come topi o altri roditori adattatisi bene agli ambienti ricchi di rifiuti. Se ci spostiamo nelle zone agricole troviamo altri vicini, ad esempio le talpe e le nutrie. E come considerare quegli uccelli, come storni, gazze e corvi, che si dice saccheggino con furore i campi acconciati con la semina?

Se i sinantropici fossero dei semplici ologrammi starebbero persino bene nell’ambiente cittadino o agricolo. Una popolazione di piccioni che occupasse gli spazi urbani passando (in quanto ologramma) attraverso i tram, o attraverso le case sarebbe un magnifico effetto speciale anche se, come tutti gli effetti speciali verrebbe presto a noia a una specie che, se non prova esperienze sempre nuove, si ammala di esistenzialismo e depressione. Comunque i piccioni non sono ologrammi. Sono fatti di carne e ossa, sangue e piume e quindi, come tutti i viventi, producono cataboliti, cioè cacca. Che i piccioni cachino è da molti considerato intollerabile. Strano perché i piccioni da sempre sono nostri vicini di casa e da sempre cacano, ma ciò non ha mai costituito problema. Tuttavia la trasformazione sociale del dopoguerra ha creato la sindrome del lindo e del pulito, dello splendente e dell’igenico portando a livelli ossessivi la giusta aspirazione all’igene. Avete mai visto come viene rappresentato un water closet nella pubblicità? C’è sempre un raggio di luce che promana dalla coppa e l’insistenza su queste rappresentazioni ha comportato un’autentica trasformazione antropologica unitamente a tante altre manifestazioni sociali, come per esempio l’immaginario dell’uomo bionico il quale, per successive sostituzioni di pezzi potrà vivere pressoché in eterno. Così l’umano non riconosce più il proprio corpo, la propria materialità. L’uomo moderno quasi deve pensare di essere lindo e privo di impurità. Analogamente, così come l’umano “singolo” non può più sopportare qualche macchia sulle lenzuola stese, così la specie non può più tollerare analoghi effetti sull’arredo urbano (bello il neologismo). Allora si inventa la leggenda delle malattie. Insomma i piccioni sono diventati i moderni untori portatori di malattie e pertanto animali da debellare.

In molte città si scatena periodicamente una gara allo sterminio. Uno dei tanti esempi.

30 dicembre 2002 - Un piano proposto da Alberto Fermi e approvato qualche mese fa dalla Giunta provinciale di Piacenza, reso possibile da una nuova legge regionale, fortemente voluta e sollecitata dallo stesso Fermi e che ha trovato l'approvazione e l'impegno dell'assessore regionale Marioluigi Bruschini, prevede l'eliminazione dei piccioni sia nei centri urbani che nelle aree extraurbane. Nei centri urbani la Provincia aiuta i Comuni a ridurre presenza e siti riproduttivi degli animali, con loro cattura e soppressione, sotto la supervisione dell'Asl e fruendo del monitoraggio sanitario dell'Istituto Zooprofilattico. In ambito extraurbano viene attuato il controllo diretto in due modi: a) con armi da fuoco, dal 1° agosto al 31 ottobre (ma il termine quest'anno è stato prorogato fino al 31 gennaio 2003) e dal 1° marzo al 30 giugno; b) con trappole selettive, per tutto l'anno. (…) Gli operatori abilitati sono gli agenti e gli ufficiali di pubblica sicurezza e i seguenti operatori: proprietari o conduttori dei fondi su cui si attua il piano; guardie forestali e comunali e agenti ed ufficiali di Pubblica sicurezza; coadiutori (DGR 1068/98) abilitati e selezionati attraverso specifici corsi di formazione; guardie giurate volontarie.[8]

Come anzi detto, è importante fare riferimento al fatto che il piccione domestico e diventato “portatore di malattie potenzialmente pericolose per la salute umana...". Qualcuno le enumera: «la salmonellosi, l'ornitosi, la borrelliosi e la toxoplasmosi». Ma con estremo candore non si rinuncia a sottolineare le cause che veramente danno fastidio. «Il sovrannumero di colombi è pure una delle principali cause del degrado urbano: monumenti, immobili, viali, opere sia pubbliche sia private, produzioni agricole, marciapiedi, stabili e davanzali vengono di continuo imbrattatati dagli escrementi che, non potendo essere eliminati completamente, corrodono e rendono l'ambiente in cui viviamo sempre più sporco»[9].

Certo, i piccioni talvolta possono anche essere numerosi, ma perché non si attivano politiche di controllo incruente e ampiamente sperimentate? E poi la specie umana che si lamenta dei sinantropici è certo più numerosa e, in termini di “impronta ecologica”, più incidente. La specie umana è più aggressiva verso l'ambiente e costituisce, lei sì, un autentico problema non solo per la biosfera, ma anche, più prosaicamente per quell’arredo urbano messo in crisi da quegli animali umani che la società non riesce più a integrare nei suoi ranghi e che vagano spaccando e imbrattando deliberatamente “l’ambiente in cui viviamo”. Senza contare le polluzioni industriali e civili rispetto alle quali parlare di colombi sotto qualsiasi punto di vista risulta risibile. Se i marmi diventano gessi le cause vanno ricercate altrove. Rimangono le malattie. Ma bisognerebbe che tutte le ASL d’Italia definissero quanti concittadini hanno preso da un piccione la salmonellosi, l'ornitosi, la borrelliosi e la toxoplasmosi. Sterminare decine o centinaia di migliaia di animali per delle malattie inesistenti quando la messa in circolo nell’aria, nell’acqua, nella terra di un’infinità di veleni è causa di un’infinità di malattie gravissime e dolorose è veramente un atto che soltanto la specie assassina (l’unica vera specie assassina) può compiere.

Può capitare che il desiderio di pulizia sia talmente alto che gli amministratori trascurino le più elementari norme di sicurezza. Il lettore è libero di giudicare se il caso che segue rientri o meno nel discorso.

A tutti è balzato agli occhi quello che hanno segnalato i media domenica 27 luglio 2003. A Vicenza nella zona Maddalene si è svolto un "tiro al piccione" che ha terrorizzato alcuni abitanti della zona. Ha raccontato Morena Bigoli: «Spari, botti continui, come essere in guerra, erano in tre, vestiti come "rambo", con la bandana in testa...piovevano pallini sulla nostra casa insieme ai colombi». Questi "rambo" ad oggi, con le informazioni che abbiamo, sembra siano agenti della Polizia Provinciale o cacciatori autorizzati dalla stessa (…) La legge 157/92, legge quadro sulla caccia, art.21 lettera F, prevede che non si possa sparare a meno di metri 150 in direzione di stabili immobili o fabbricati, i "rambo" erano "sopra" il tetto del capannone e sparavano in qualsiasi direzione. (…) Sparare agli animali, per limitarne il numero e per "contenerli", riteniamo sia una scelta sbagliata, prima si dovrebbero mettere in campo tutte le forze possibili e non fa certo onore al Sindaco una decisione di questo tipo. Esiste, infatti, l'ordinanza del Sindaco, Enrico Hullweck che, per quanto inaccettabile, segnala un punto importante: non si devono arrecare sofferenze inutili agli animali, sparare agli uccelli in questo periodo, periodo di riproduzione, significa condannare a morte sicura centinaia di piccoli nel nido tra atroci sofferenze per sete e fame. [10]

L'articolo dimostra che di tanto in tanto è più facile trovare sensibilità nel cronista che nelle istituzioni cittadine. In generale, il primo può disporre di un bagaglio di umanità personale, mentre l’individuo che entra nell’istituzione deve spogliarsi della sua eventuale tolleranza per diventare egli stesso “istituzione” con tutto ciò che ne consegue. Altrimenti le lobby possono farlo fuori alla prossima tornata elettorale.

Purtroppo le ragioni fin qui analizzate (salute dei cittadini e dei monumenti) non sono le uniche. Spesso si fa riferimento anche ai prelievi inaccettabili di semi dai campi agricoli. Qualcuno sostiene che in questi casi si coglie al volo un’occasione per ripristinare una vecchia pratica messa fuori legge (il tiro al piccione) consentendo alle tribù di cacciatori di sollazzarsi con l’abbattimento dei colombi considerata la scarsa disponibilità di selvaggina. Insomma una gradevole perentesi di sterminio che va ad aggiungersi a tutte le altre nei periodi di apertura della caccia. L’ipotesi non è peregrina. Leggete il pezzo che segue e tentate di respirare la gioiosa aria di battaglia che può alimentare lo spirito di 1000 spavaldi guerrieri. Risulterà facile provare lo stesso dubbio.

L'8 marzo prenderà il via la campagna di depopolamento dei piccioni torraioli approvata dalla Provincia di Bergamo che sarà attuata dagli agenti del Corpo di Polizia provinciale con la collaborazione di una vera e propria task-force di 1000 operatori appositamente istruiti e formati dal settore agricoltura caccia pesca attraverso corsi di preparazione. L'obiettivo è quello di abbattere anche quest'anno 40.000 piccioni terraioli negli ambienti rurali della provincia. Il pretesto è quello dei danni all'agricoltura, in particolare la sottrazione di semi di soia, girasole e mais, impiegati nelle semine, nonché un fantomatico pericolo per la salute umana a causa di non precisate malattie che sarebbero trasmesse dai piccioni[11]

Se difficilmente si possono contrastare le violenze ingiustificate sui miti volatili di città, con maggiore difficoltà può essere tentata la loro difesa nel caso del prelievo delle sementi nei campi. Quando entra in ballo il concetto di “interesse” non c’è pietà che tenga. L'interesse apre la strada a tutte quelle considerazioni che coinvolgono altri tipi di sinantropici. Gli animali che vivono nella campagna, e che hanno la naturale tendenza all'autoconservazione di ogni abitante di questo mondo, qualora esercitino un piccolo prelievo sulle attività della specie invasiva che gli ha colonizzato tutto il territorio, hanno ampie possibilità di vedere attuata nei loro confronti tutta una vasta gamma di attività di sterminio. Non a caso, la l.n.157/92 non si applica “alle talpe, ai ratti, ai topi propriamente detti, alle arvicole. Insomma animali privi di qualsiasi protezione. Dopotutto nel ‘600, membri di queste popolazioni hanno portato la peste in Europa, che diamine!

Come risolvere il problema? In vari modi che l’inascoltata LAC (Lega per l’Abolizione della Caccia) e vari esperti nel settore hanno più volte indicato. Ma queste misure si scontrano con pigrizie degli amministratori locali, ignoranze diffuse, desideri di sterminio, esigenze varie. In genere gli agricoltori non accettano rese agricole intaccate da altri abitanti del mondo e le amministrazioni locali non vogliono pagare gli indennizzi agli agricoltori (è vero che devono pagare degli sterminatori, ma così accontentano turpi bramosie e allestiscono clientele). Complessivamente il problema può essere visto in termini molto semplici. Una specie ha colonizzato il territorio e ha deciso di estirpare tutti gli esseri altri da sé.

Ma c’è di più. Un vero scandalo. Talvolta gli agricoltori protestano per la presenza di selvatici che diventano sinantropici. Ciò accade quando i cacciatori liberano abusivamente o legalmente animali come i cinghiali che poi devastano le culture in luoghi in cui non si era mai manifestata la loro presenza. Spesso si tace questo assurdo preferendo immaginare che i cinghiali si siano diffusi naturalmente. Allora le amministrazioni provinciali si attivano con convegni per proporre la deregolamentazione della caccia al cinghiale pensando di risolvere il problema con grande soddisfazione dei soggetti che li hanno allevati e liberati. Alla richiesta di una amministrazione provinciale che ha realizzato uno di questi convegni, l’INFS (Istituto Nazionale Fauna Selvatica) ha risposto molto significativamente in questo modo:

In mancanza di informazioni dettagliate, questo istituto non è in grado di esprimere un giudizio preciso sulla “totale deregolamentazione” della caccia al cinghiale come mezzo per il conseguimento dell’obiettivo evidenziato da codesta Amministrazione (l’amministrazione provinciale di Vercelli [ndr]). Va tuttavia sottolineato come possibilità di prelievo del cinghiale da parte della generalità dei cacciatori senza limiti di carniere e di modalità rischierebbe di indurre un interesse venatorio ancor più allargato, con risultati opposti a quelli desiderati.

Sembra di capire così: se permettete ai cacciatori di prelevarne quanti ne vogliono, loro ce ne metteranno ancora di più. Si assiste a un paradosso. L’INFS, che è un istituto che si occupa di fauna selvatica, deve interessarsi anche di animali che sono allevati. Rimane il fatto che, in genere, tutti i danni di cui una comunità si lamenta, sono prodotti dalla comunità stessa attraverso il gioco delle parti attuato dai suoi membri con funzioni diverse.

Il discorso sui sinantropici potrebbe concludersi qui. Ma riteniamo che vada ancora detta qualche parola su una specie di castorino chiamato “nutria”. Il roditore era diffuso in Sud America ed è stato importato in Europa per la sua “pelliccia”. Naturalmente anche in Italia. Si da il caso che alcuni individui siano fuggiti dagli allevamenti dando luogo a popolazioni autoctone. Questi animaletti vivono in prossimità di corsi d’acqua e si sono guadagnati il ruolo di sinantropici e, quindi, di aspiranti allo sterminio. Le amministrazioni provinciali attribuiscono a questi esseri ogni sorta di nefandezze, non ultime la responsabilità di inondazioni e alluvioni per la loro abitudine di creare piccole dighe con rametti e stecchini. Insomma, di nuovo il desiderio di annientamento si manifesta in tutto il suo fulgore, e periodicamente vengono organizzate, con la collaborazione entusiastica di fucilatori, delle battute di caccia per liberare il territorio da questa “infestazione”. Anche in questo caso abbiamo l'ennesimo esempio di irresponsabilità umana. L’uomo crea un (falso) problema che successivamente decide di risolvere facendolo pagare alla vittima della sua scarsa lungimiranza e del suo egoismo.

§12 – La realtà degli animali selvatici

Esiste veramente l’animale selvatico? Affiora un consistente dubbio a cui nessuno, crediamo, ha posto attenzione. Potremmo tentare illustrare questo dubbio partendo da uno strano paradosso. In un puntuale resoconto, Danilo Selvaggi della LIPU (Lega Italiana Protezione Uccelli) scrisse a proposito di certe manovre parlamentari sul tema della caccia:

Le nove proposte di modifica alla Legge 157/92 (Tutela degli animali selvatici e disciplina della caccia) raffigurano uno scenario gravissimo che, pur nella già drammatica situazione dell'ambiente italiano, non riuscivamo davvero a figurarci. O forse sì, ci riuscivamo. Che cosa sono, che cosa rappresentano gli animali selvatici? Un patrimonio indisponibile dello Stato? Un bene preziosissimo e indisponibile dell'umanità? Niente affatto, o almeno non più. Presto diventeranno res nullius, cosa di nessuno. La Legge 157 del '92 aveva ribadito solennemente, già all'Articolo 1, il principio dell'indisponibilità della fauna selvatica: gli animali selvatici sono un patrimonio comune, preziosissimo, tutelato nell'interesse di sé stesso e dell'umanità. Ora questa grande conquista rischia di scomparire nel nulla. Con essa, l'unica legge italiana di tutela generale degli animali selvatici. Scomparire nel nulla così come l'applicazione delle Direttive Europee, della Convenzione di Berna, della Convenzione di Bonn... (…) La nuova legge ripristinerebbe lo stato di "nullità" per gran parte e in un certo senso la totalità degli animali selvatici. Finalmente considerati un patrimonio indisponibile dello Stato e dell'Umanità, gli uccelli migratori tornerebbero ad essere res nullius (cosa di nessuno), una condizione giuridica e pratica del tutto incompatibile con qualsivoglia idea di tutela della natura. Come e perché si dovrebbe proteggere qualcosa che è di nessuno, che è nulla? Secondo la nuova 157, proteggere gli uccelli migratori non avrebbe più alcun senso, alcuna ragione di essere.

Dunque, il paradosso è questo. Prima dell’esistenza dello Stato-Nazione esisteva certamente la caccia, attività crudelissima come del resto si presenta oggi. Ma la caccia era un atto sopraffattorio e violento di uno o più membri di una specie su uno o più membri di un’altra specie. Finché i primi non si impossessavano delle spoglie dei secondi, non si poteva dire che quest’ultimi appartenessero ai primi. Nessuna relazione giuridica definiva le modalità di prelievo. L’azione umana era del resto talmente limitata che nessuno sentiva la necessità di mettere ordine normativo. Si può dire che l’animale, essendo “res nullius” si trovava proprio nella condizione ideale a cui l’animalismo più avanzato desidera per gli animali che non devono essere che di sé stessi e completamente liberi da qualunque relazione con l’umano in una visione radicalmente anti antropocentrista. Oggi, però, avrebbe poco senso proporre una cosa del genere perché, come affermato da Danilo Selvaggi, lo stato di res nullius vorrebbe dire estinzione rapida di molte specie a rischio. Vorrebbe dire che l’atto sopraffattorio della specie umana si svilupperebbe in tutta la sua potenza creando un deserto terrificante. Ma ciò significa che il prolungamento della mano umana, attraverso le istituzioni, rende queste specie molto poco “selvatiche” giacché la loro esistenza dipende dalla protezione di qualcuno e, in via di principio e di fatto, regolate da una legge.

Insomma, con la progressiva espansione antropica e l’assoggettamento di tutto il territorio alla specie umana sotto la forma dello Stato, la categoria del selvatico tende a sfumarsi e a confluire nella sinantropica. Ormai neanche la tigre indiana può essere fregiata del titolo di “selvatica”. Probabilmente, con l'inclusione dell'ultimo metro quadrato di terra entro quelle strane linee invisibili chiamate “confini”, è scomparso l'ultimo animale selvatico. Infatti, se un ente produttore di Diritto, lo Stato, assorbe tutto il territorio per sottoporlo a regole, l'animale selvatico si trova impigliato, prima ancora che nelle trappole dei cacciatori, in un sistema normativo che stabilisce in modo diretto o indiretto il suo destino.

Dunque, la tanto citata legge 157/92 protegge gli animali selvatici nei termini di conservazione di un “patrimonio faunistico” da cui attingere purché si riproduca per il successivo prelievo (“La fauna è un albero da frutto che più si pota e più riproduce” ha detto un giorno l'ex ministro Allemanno). Onorate tribù di gentiluomini e gentildonne devono poter continuare a sparare ad uccellini che pesano meno della cartuccia del loro fucile. Basta che rispettino la regola fondamentale di osservare le condizioni della riproduzione. Questo è il “rispetto ambientalista” per le specie che devono continuare a sussistere, o in funzione del godimento umano o perché quella determinata specie è “utile” o ha una “funzione da svolgere”. Insomma, “appartiene” all'umanità. Sotto questo profilo il “conservazionista” e il “potatore” si assomigliano. Perché, sia ben chiaro, l’uomo, quando corre di lusso, non si cura che di se stesso.

Ma almeno servisse. Almeno servisse per validare le dichiarazioni di una specie che dice di desiderare il rispetto e la buona vita degli animali selvatici in funzione propria. Non accade neanche questo. Per i motivi detti prima. Perché tutto il territorio è antropizzato e “gestito” per l’interesse umano. [12] Allora ogni sforzo conservazionista si scontra con aspetti che inevitabilmente prevalgono: pressione antropica, concezione dello sviluppo illimitato (anche se talvolta detto “sostenibile” da certi loschi figuri che riescono persino a inzuppare il biscottino nelle problematiche ambientaliste), organizzazione capitalistica della società e sviluppo di nuovi mercati, ricerca da parte degli individui di nuove “esperienze e emozioni”, sostegno delle istituzioni alla propensione distruttiva della specie.

E così, in linea con le elevate esperienze di tutte le altre tribù umane, nel territorio dello Stivale a noi riservato da Dio e dalla Storia, i selvatici conoscono una débacle mai conosciuta in nessuna epoca.

Biodiversità. WWF: in Italia sta sparendo 68% della fauna. Lontre, orsi bruno, lepri appenniniche ma anche tartarughe marine, aquile del Bonelli e persino le lucertole delle Eolie: l'Italia rischia di perdere molti dei suoi animali, per l'esattezza ad essere in pericolo e' il 68% dei vertebrati, molti dei quali sono "rarita'", prodotti tipici della fauna che vivono esclusivamente nel nostro territorio. Nella lista rossa sono finite 42 specie di pesci, 28 di anfibi, 34 di rettili, 170 uccelli nidificanti, 69 mammiferi. Ma il numero e' approssimato per difetto in quanto, spiega il WWF che a Roma ha presentato il dossier "Biodiverso e' bello" (in occasione della giornata internazionale della diversita' biologica), per diverse specie le informazioni sono troppo frammentate. In percentuale, la classe piu' a rischio e' quella dei pesci (56,3%), seguita dai rettili (40,8%) e dagli anfibi (40,5%). A preoccupare anche il fatto che, per oltre il 50% delle specie esaminate, il trend e' negativo, mentre appena l'8% delle popolazioni fa registrare un certo aumento. La principale minaccia per la biodiversita', spiega il WWF, e' costituita dalle trasformazioni e modificazioni dell'habitat da parte dell'uomo: ad esempio, la bonifica delle zone umide e' la prima causa di minaccia per il 77% delle specie di uccelli, mentre l'uso massiccio di pesticidi mette a rischio soprattutto pesci e mammiferi (63% dei casi), la distruzione dei boschi incide soprattutto su uccelli e mammiferi (62% dei casi).[13]

Già, anche i pesci. Essi sono proprio “selvatici” perché, a differenza degli animali terrestri, abitano veramente luoghi di nessuno (cioè di tutti). Per loro la situazione non è meno grave di quanto non sia quella degli animali terrestri. [14]. Anzi, sono sempre più frequenti gli studi che evidenziano il drastico impoverimento della ittiofauna in tutti i mari del mondo connesso alla devastante introduzione della tecnologia nella pesca. Studi ovviamente contrastati dai portavoce dei grandi industriali della pesca. Ma al di là della differenza di vedute, chi si crede che la spunti? Il profeta (lo scienziato) che grida nel deserto o la fusione degli interessi degli industriali e dei lavoratori del settore, dei consumatori, dei buongustai? Ovunque la predazione della specie assassina produce immani distruzioni con sistemi razziatori consentiti dai “progressi tecnologici”: i sonar e reti lunghe chilometri consentono un prelievo “più adeguato”, e le vittime, milioni, non hanno scampo. Semplicemente soccombono.

Oltre alle questioni sollevate merita riflettere su altri aspetti fin qui taciuti. Per il “selvatico di mare” non è prevista l’attuazione di quelle pratiche “umanitarie”, assolutamente ridicole e offensive, che si dichiarano – anche se spesso nemmeno si rispettano – per ridurre il dolore degli animali destinati al macello (assaporare bene questa parola!). I pesci, che sono anche “selvatici da reddito”, non godono delle “protezioni” previste dalla Legge per gli animali degli allevatori.

Poi, per tutta un’altra classe di animali, uccelli e mammiferi cioè i “selvatici di terra”, si presentano ulteriori aggravanti. In primo luogo non si attivano pratiche umanitarie quando ce ne sarebbe maggior bisogno, visto che sparare fucilate significa, in tantissimi casi, non centrare la vittima al primo colpo. Ma a ben vedere, parlare di protezioni umanitarie per i selvatici ha poco senso. Logica vorrebbe che scattasse un ovvio e assoluto divieto di questa pratica, visto che si spara per puro divertimento. Infatti, con la caccia non crolla qualsiasi alibi della specie assassina? Gli animali da alimentazione devono essere abbattuti perché “servono” per far crescere sani i rampolli; gli animali da sperimentazione perché “servono” per verificare la validità dei farmaci di cui non possiamo fare a meno; i sinantropici perché ci rubano le sementi e si mangiano le patate o perché portano malattie. Ma gli uccellini? Le lepri? Certo, vengono mangiati, ma lo scopo per cui vengono cacciati non è questo perché il costo di quel bocconcino, tra fucili, cartucce, benzina, addobbo da rimbo, risulta veramente esagerato. No; lo scopo è il puro divertimento associato a una attività che esprime, come poche altre, tutta la prepotenza umana. Ecco un servizio sull’argomento pubblicato sull’Espresso. Pur legato alla passata legislatura è assai illuminante per definire tendenze periodicamente emergenti.

Ma lo sapevate che parlar male dei cacciatori d´ora in poi sarà come offendere le istituzioni? Secondo il ministro delle Politiche agricole Gianni Alemanno, è fatta da "italiani più italiani degli altri" questa categoria, finora guardata con comprensibile diffidenza da chi rispetta gli animali o più banalmente ama passeggiare per boschi e campagne senza sentirsi fischiare le pallottole nelle orecchie. Alemanno è infatti deciso a regalare una nuova legge, ovviamente ben più permissiva di quella che c´è oggi all´esercito delle doppiette, una delle lobby più blandite e corteggiate dal centro-destra. Da qualche tempo i nostri cacciatori non sono più un gruppo sociale declinante, ultrasessantenni scesi dal milione e mezzo del 1990 agli 800 mila di dieci anni dopo. Non solo la tendenza si è invertita, con 4 mila nuove licenze ottenute l´anno scorso. "Anche se molti non se ne sono accorti, c´è ormai accanto alla vecchia guardia un cacciatore di tipo diverso, più giovane e colto, che frequenta i nuovi agriturismi per la caccia, che ha una visione scientifica di questo grande sport", si entusiasma Fausto Prosperini, presidente di quella macchina da guerra che è la Federcaccia, 430 mila iscritti divisi in più di 7 mila sezioni sparse sul territorio, una forza che nessun partito italiano può vantare. Tra i fiori all´occhiello di Federcaccia ci sono anche i primi gruppi al femminile, come le cacciatrici di Vicenza coordinate da Caterina Marigo, una ragazza di 27 anni che appena può corre con le amiche a sparare passeri, lepri e fagiani (...) C´è nel nostro Parlamento un campionario impressionante di proposte di legge che spaziano dalla autorizzazione a cacciare nei parchi naturali alla licenza di usare i pallettoni e di sparare dalle auto in corsa. Quasi tutte sono state presentate da parlamentari del Polo. Una viene, sia pure a titolo personale dalla cossuttiana Katia Bellillo, già campionessa di kick-boxing e nota per aver aggredito fisicamente in diretta tv Alessandra Mussolini. Questa volta, forse per compiacere i molti cacciatori del suo collegio elettorale di Orvieto, ha teso una mano al centro-destra, proponendo diversi tipi di liberalizzazione (…).[15]

Il servizio infine, si conclude con il perfetto intendimento dell’attuale inclinazione che si annida periodicamente nei parlamentari di maggioranza e di opposizione:

Il coniglio dal cappello è comunque quello della “selezione”, cioè dell'abbattimento di animali nocivi all´agricoltura, dai corvi ai cinghiali, dai tordi fino ai passeri e ai cervi. In qualunque momento dell´anno si potrà decidere che vadano decimati: facendo così diventare realtà il vecchio sogno proibito della caccia continua.[16]

Cosa c’è di più eccitante di uccisioni lungo tutto l’arco dell’anno? Il bello è il ricorrente tentativo delle forze politiche di includere nelle stragi anche quei cani e gatti che l’irresponsabilità della specie irresponsabile chiama “di affezione” e poi disperde nel territorio. Brutto bastardo, non ci interessi più; ti abbiamo cacciato di casa per darti una chance ma ora dobbiamo ucciderti perché abbiamo scoperto che disturbi la selvaggina. Scusa se anche mi diverto … Ben si comprende: la pressione di migliaia di cani e di gatti rinselvatichiti può costituire una concorrenza inaccettabile su una fauna selvatica già scarsa. E' conseguente perciò che i cacciatori premano le istituzioni per liberarsi di un concorrente che, tra l'altro, può anch'esso diventare componente di divertimento sadico. E non si può escludere che certe associazioni ambientaliste vedano di buon occhio lo sterminio di animali “inutili”, anzi, “nocivi”. Nel recente passato almeno quattro Regioni italiane hanno tentato la bonifica degli ambienti naturali dai domestici rinselvatichiti [17]. Di nuovo si presenta lo schema classico: la specie degenere 1] promuove un’azione (mette in vita animali per il suo sollazzo); 2] la situazione gli sfugge di mano (crea i randagi); 3] fa pagare, e in maniera brutale, il prezzo alle vittime della sua perversità. Questo aspetto riguardante cani e gatti randagi, oggetto di tentativi di stermini istituzionalizzati, è particolarmente ignobile. Non perché, ovviamente, i cani e i gatti “valgano” più di altri animali, ma perché, per esercitare queste stragi, le istituzioni devono esibire un particolare strabismo. Che ci sia una legge nazionale per la protezione dei randagi e che a livello locale si tenti di legiferare i modi del loro abbattimento e' un prodotto tipico del Bel Paese.

§13 – La realtà degli animali “di affezione”

Precedentemente (§7) si è rilevata la sorprendente quantità di animali che l’italiano decide di adottare e portarsi a casa: 43 milioni di individui! Da questa immensa quantità di esseri con i quali l’uomo decide di convivere, si è anche fatto derivare il segno di una decisiva alleanza. Si potrebbe dedurre, a prima vista, che il buon rapporto con l’animale in casa predisponga a maggior benevolenza verso tutti gli altri. Cosa può esserci di meglio, per un addolcimento dei costumi, di una convivenza stretta con un essere che ci ricorda quotidianamente la comune origine naturale, la capacità di esprimere affetto e, per ritornare al manifesto del CARE, “sofferenza, gioia, amore, coscienza di sé, altruismo, comunicatività”?

Sembrerebbe perciò che tra la specie umana e le specie animali segnate da un lungo processo di domesticazione si sviluppi una particolare empatia. In effetti cani e gatti sono vicini agli esseri umani da epoche remote e il lungo processo di simbiosi potrebbe aver generato effettivamente un rapporto privilegiato. D’altra parte, la stessa espressione “animale di affezione” sottolinea l'inclusione di certi animali in una dimensione prettamente umana. Magari fosse così. Il principio universalmente accettato del “minor male” potrebbe consentire agli animalisti di dedicarsi a tutti gli altri fratelli sfortunati avendo già, gli umani, dichiarato pace e messo al sicuro il destino dei cani e dei gatti. Invece le cose stanno in maniera diversa.

Innanzi tutto occorre considerare che non tutti i 43 milioni di animali dichiarati rientrano nella classe degli animali di affezione. La maggior parte di essi appartiene alla classe che verrà presa in considerazione nel paragrafo successivo. Infatti, da un punto di vista etologico, è difficile considerare “di affezione” la maggior parte di essi, nonostante la l.n.281/91 (che regola la relazione umana con gli animali di affezione) tenda confusamente a suggerirlo [18]. Per quanti sforzi si facciano, difficilmente si riuscirà a scambiare affetto con il pesce rosso dentro la boccia di plastica posta a mo’ di soprammobile. Dunque qui si intenderà, per animale di affezione, l’insieme dei cani, dei gatti, nonché dei roditori (topi, conigli, criceti, scoiattoli ecc.) che una mania sempre più dissennata sta portando nelle case degli italiani. Questi animali, in base alla ricerca Irisme, già citata, sarebbero circa 15 milioni.

Ebbene, questo numero di animali è più che sospetto anche solo dal punto di vista quantitativo. Un popolo dotato di capacità minime di ragionamento considererebbe la carring capacity del territorio e comprenderebbe che il peso di tutti questi animali sull’ambiente, dal punto di vista ecologico è un lusso insostenibile anche a prescindere da considerazioni “animaliste”. Del resto, una specie che soffoca il territorio con la sua presenza quantitativa e con il peso di consumi insostenibili, che ha talmente interiorizzato la sua separazione dalla natura un po’ per suggerimento divino, un po’ per ossessione di onnipotenza, non si pone questi problemi. Perciò ritiene che ci sia posto per milioni di cani e di gatti. Non solo: di furetti, conigli, criceti e tant’altri esseri fino a poco tempo fa ignorati e gradualmente elevati al rango di “animali di affezione”[19].

Chiunque è in grado di comprendere come, a fronte di un numero immenso di animali, una cospicua percentule di essi debba necessariamente fare una fine non consona ai motivi per i quali sono stati adottati. E’ evidente! Un animale che pure è “destinato a ricevere affetto” ha alte probabilità di finire male (cioè di uscire da un normale ciclo di sviluppo nascita – buona vita – morte) in termini direttamente proporzionali alla facilità con cui è facile procurarselo e alla leggerezza con cui si sceglie di adottarlo. In effetti ogni anno si sviluppa una carneficina di animali. Di solito, nei mesi estivi, fonti autorevoli dichiarano decine di migliaia di abbandoni. Pur considerando l'estate un periodo particolare, sono centinaia di migliaia all’anno gli animali abbandonati destinati a morire nei primissimi mesi dopo l’abbandono per malattie, investimenti, stenti (non sono animali capaci di cavarsela facilmente considerando che sono nati nelle case e privi dell’apprendimento delle tecniche di sopravvivenza tipiche dei selvatici). Quelli che sopravvivono perché segnalati, raccolti e inviati ai canili, talvolta vengono reinsertiti nel ciclo della normalità attraverso adozioni presso famiglie di cittadini che non sono interessati ai cani di “razza”. Ma spesso il cane entra in una struttura senza avere speranza di uscirne in vita. Inoltre non tutte le strutture di ricezione sono decenti; talvolta si tratta di autentici lager con cibo marcio, spazi ristretti, maltrattamenti, inserimenti nelle stesse gabbie di situazioni incompatibili che portano a sbranamenti, mancanza di sterilizzazioni, abbattimenti eseguiti per far posto ai nuovi arrivi. Tutto questo per una legge rinomata, la già citata l.n.281/91 che ha permesso l’introduzione dell’interesse privato in iniziative che avrebbero dovuto avere soltanto carattere umanitario.

Naturalmente il problema, nei termini descritti, non riguarda soltanto i cani, ma anche i gatti. Vi sono i gattili, ma sarebbe meglio che non esistessero, visto che si condannano animali che richiedono grandi spazi a stare in gabbiette dalle dimensioni intollerabili. Ma l’alternativa qual è? Semplicemente l’abbandono nelle strade e nei cortili. Ora chiunque può constatare che questo fenomeno che non può essere confuso con quello apparentemente identico di quaranta anni fa o prima ancora. In quell’epoca ormai lontana gli ambienti cittadini potevano accettare una fauna felina che viveva di stenti, ma poteva vivere grazie a ambienti protetti, caccia e accesso ai rifiuti. In tal modo poteva, sia pure con grandi difficoltà, riprodursi in modo autonomo. Oggi invece l’ambiente cittadino ha moltiplicato le difficoltà a tal punto che gli animali sarebbero destinati a scomparire se non in particolari colonie feline protette. Perciò la presenza di questo animale è assicurata da continui afflussi prodotti da una specie, quella umana, che di affetto ne ha bisogno, ma non troppo, e quindi scarica il sovrappiù in luoghi diversi con l’unica preoccupazione che l’animale non torni indietro.

Quali sono le cause di questo orribile trattamento sanzionato dalla legge con “punizioni esemplari”?[20] Uno studio approfondito, ma sfortunato per il disinteresse che l'ha circondato, ha individuato queste cause:[21]

Il randagismo è il risultato delle due tendenze prima delineate. In primis, è l'effetto di una diffusione di tipo consumistico di animali prima acquistati e poi liberati quando l'irresponsabilità prevale. La leggerezza con cui andiamo incontro a esperienze "tanto per provare" non considerando le conseguenze (mai ferire il proprio Ego con rinunce!) è fatto comune e altamente diffuso. Le discariche della nostra civiltà sono silenti monumenti a testimonianza del furore distruttivo col quale trasformiamo tutto in rottame. Gli animali spesso seguono lo stesso ciclo e diventano, per un po' di tempo, rottami vaganti finché non muoiono.

Questa è la prima tendenza. L'abbiamo definita come fusione di leggerezza e irresponsabilità da consumismo cieco. Ma vi è anche un randagismo che si caratterizza come conseguenza di tendenze 'buone'.[22]

L'anziano che solidarizza con l'animale, normalmente è una garanzia, assai più del bambino che talvolta può rappresentare persino un pericolo.[23] Gli anziani, per via dell'isolamento di cui soffrono sono tra coloro che hanno più da guadagnare dal rapporto con il gatto, il cane o il canarino. In effetti, pare che ben 4 milioni di loro vivano con un animale in casa. Hanno solamente un difetto. Sovente anticipano il loro animale nella dipartita da questo mondo. E spesso chi eredita non esulta per una bestiaccia che non vuole minimamente includere nella propria vita. E' un problema che attualmente non ha soluzioni.

Altre forme di affetto sono, purtroppo, vettori di randagismo. In questi casi il fenomeno diventa nuovamente correlato a tendenze 'buone'. Vediamo di che si tratta. L'esistenza nelle case di animali non sterilizzati comporta fughe, accoppiamenti e lieti eventi. Un tempo, una maggiore determinazione induceva all'eliminazione immediata delle cucciolate. Oggi, la maggior parte di coloro che provano la bellissima esperienza del parto dell'animale di casa non se la sente di adottare tale pratica; a volte neanche con l'aiuto del veterinario. La ricerca spasmodica di una buona sistemazione presso amici, parenti, conoscenti ottiene, dopo molti affanni, un risultato positivo. Una parte dei cuccioli sarà fortunata, un'altra parte avrà una sistemazione a rischio, una terza vivrà una condizione di latenza verso lo stato del randagismo. Tutti quanti, però, dopo neanche un anno saranno pronti per altre riproduzioni (a meno che non siano stati sterilizzati). Si stabilisce così una devastante catena di sant'Antonio in cui le soluzioni accettabili finiscono per tendere verso lo zero mentre le nascite, inesorabili, proseguono con cadenze geometriche o malthusiane. In breve un atteggiamento che parte da buone intenzioni diventa disastroso e va a sommarsi con gli altri effetti. Ancora non abbiamo preso coscienza che questo mostruoso processo si avvia a diventare la prima causa di randagismo nel nostro Paese.

Poiché il martirio di questi poveri esseri si rinnova ogni anno riducendo l'esistenza dei malcapitatia una vita breve, mentre l’esistenza di un cane o un gatto ben curato supera talvolta di molto i 10 anni, è facile calcolare come la violenza esercitata dall’uomo nei confronti degli animali “da affezione” rasenti il 50% degli animali nati.

Poi non c’è solo il randagismo. C’è il maltrattamento. Talvolta palese, talvolta occulto. I modi sono molti: la catena corta e continua, l’isolamento su balconi, la dimenticanza per lunghi periodi, l’abbandono per le vacanze, le percosse, l’alimentazione scarsa, le cucce non regolamentari, l’esposizione al freddo e all’umido, l’abbandono intorno alla casa (arrangiati!), l’isolamento da elementi della propria specie quando desiderato e non concesso. Spesso i veterinari delle ASL e le guardie comunali negano il maltrattamento quando l’animale ha evidenti segni di percosse, o è ridotto a pelle e ossa, figuriamoci se sono disposti a accettare di ammettere il maltrattamento di un cane solo perché passa tutta la sua vita in un cortile da solo. E pensare che la legge sui maltrattamenti parla chiaro e si sciacqua la bocca continuamente con le “condizioni etologiche di specie” che devono essere rispettate, ripetendo una formula stereotipata che chissà come è venuta in mente la prima volta e a chi. Questa formula, la quale viene ripetuta come un’eco infinita e che pare dettata da qualche “professore” consulente del Legislatore, sarebbe talmente devastante, qualora venisse realmente considerata, che non può che rimanere lettera morta. Ma allora perché è stata invocata? Si presume perché in questa società le varie elìtes amano relazionarsi in reciproci riconoscimenti che comportano status e onori per tutti in un clima di meri atti celebrativi. Atti privi di sostanziali conseguenze quando l'attenzione viene rivolta ai veri ultimi (animali o umani che siano).

E qui il discorso casca inevitabilmente nel destino di animali diversi da cani e gatti e regolarmente venduti nei negozi. Può uno scoiattolo vivere in gabbia per girare in una rotella vita natural durante? E anche se l’energia posseduta dall’animale non fosse così devastante, è logico trattenerlo in gabbia tutta la vita? Ha senso tenere un criceto in gabbia o in un appartamento? Non è violenza istituita sullo stravolgimento di condizioni di vita di un essere? Ma perché poi? Dove sta la ragione di questo connubio? Quale mente malata ha dato origine a questa moderna tratta degli schiavi? E nel continuo rimbombare da legge in legge, da codice in codice del “rispetto delle condizioni etologiche di specie”, non si erge un etologo con un pizzico di coraggio che levi la sua voce per dichiarare l’inammissibilità della detenzione di animali che non sono fatti per essere detenuti in famiglie per le quali le “condizioni etologiche di specie” sono un semplice rumore della bocca. No! A loro che gli frega! Basta gestire la cattedra e partecipare a congressi.

Il lettore intelligente avrà capito. Anche gli “animali di affezione” sono animali da reddito. Ogni considerazione ulteriore è superflua.

§14 – La realtà degli animali esotici

Giungiamo infine all’ultima delle “categorie funzionali”: quella degli animali esotici i cui individui vengono prelevati dallo stato di naturale libertà nei territori di origine per essere deportati in ambienti a loro estranei. Essa configura la summa delle malefatte umane verso gli animali. Perché, se è vero che le precedenti “categorie” (compresa quella degli animali di affezione) nascondono una relazione malata inducendo gli umani a giustificare il sacrificio e lo scempio di esseri remissivi e miti, qui si giunge a misurare in modo incontrovertibile il vero rapporto esistente tra uomo e animale. Un rapporto di assoluta inutilità che non si riesce più a mascherare dietro la categoria della necessità. Il trattamento degli esotici aiuta a comprendere come, anche in tutti gli altri casi, dietro al rispetto peloso rivestito di discorsi e misure legislative, ci sia un rapporto patologico.

Per quale ragione un animale che vive in Africa o in Brasile in stato di libertà deve finire nella casa di qualcuno? Questa domanda, veramente topica perché in grado di illuminare l’essenza della natura umana, ammette una risposta soltanto. Il principio del piacere va alimentato ad ogni costo senza tenere conto della legittimità degli interessi degli altri esseri a vivere in modo congeniale alla loro natura. Un africano potrebbe vedere nella scimmia un concorrente alle sue coltivazioni e quindi entrare in conflitto con l’animale, ma un europeo che necessità ha di chiudere in una gabbia un animale di terre lontane? La risposta è anche contenuta nella definizione che alcuni hanno dato proprio per sottolineare l'assurdità di questo “possesso”: animali da decorazione o da addobbo.

Proprio così. La natura spesso strana di animali di terre lontane permette al personaggio di turno di mettere in casa una nota di colore o di capriccio, una nota esotica. Ricco o povero che sia, il motivo è la stesso. Convogliare sulla sua persona l’attenzione del prossimo attraverso il possesso dello “strano”. “Io ti stupisco”: questa è la chiave interpretativa. Stupire perché possiedi un Morandi non è un segno di grande intelligenza, ma solo di notevole facoltà economica. Tuttavia si può dire che il giudizio sull'appropriazione privata di un quadro, o sulle norme che rendono possibile l’acquisto personale di qualcosa che dovrebbe appartenere all’umanità, può essere considerato fatto interno della specie umana. Insomma si potrebbe concludere: “Essere umano, se ammetti e accetti tutto questo, son cazzi tuoi”. Ma l'introduzione degli esotici nella società è un fatto che segna in modo indelebile la natura perfida di un ente che non esita a fare ciò che nessun altro vivente farebbe nella terra: torturare, lungo tutto l’asse della sua esistenza, un animale per la sua forma la quale, essendo ritenuta strana, si presta a essere esibita.

E così milioni di animali vengono trasferiti in condizioni “bestiali” attraverso i continenti patendo indicibili sofferenze. Non tutti, spesso pochi, giungono a destinazione ma il profitto dei trafficanti è assicurato. Qualcuno propone un dato impressionante: il traffico di esotici sarebbe inferiore soltanto a quello della droga e delle armi. Ma in base ad altre valutazioni sarebbe addirittura al secondo posto prima ancora del traffico delle armi. Con un piccolo sforzo di astrazione è possibile immaginare di sollevarsi dalla Terra e vedere, nel globo che si parerebbe ai nostri occhi, i canali aereo-navali-terrestri che prelevano animali esotici da zone umide sempre più ridotte e devastate per trasportarli nelle case di occidentali annoiati.

In Italia la fauna esotica dilaga. Ci sono almeno 3000 persone che non possono vivere senza un grande felino nella loro tenuta. Poi si stimano 70.000 rettili e decine di migliaia di testuggini. Ma gli uccelli sono ancora di più mentre i pesci battono tutti per la sopraggiunta passione dell’acquariofilia.

Bisogna sapere che anche in questo campo le leggi non mancano. E sono severissime. Prova a farti beccare all’aereoporto senza l’opportuna documentazione con un esotico, o anche con un oggetto prodotto con un animale esotico, e la multa può tramortirti. L’origine di tanta severità deriva dalla legge 150/92 che disciplina in Italia l’applicazione della Convenzione di Washington sulle specie animali e vegetali in via di estinzione. Tale legge regola anche la commercializzazione e la detenzione di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possono costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica.

Si comprende? La severità non protegge animali inadatti a vivere in cattività. No. La legge istituisce un’interesse pubblico nazionale anche per flora e fauna di aree lontane considerandole una ricchezza per l’umanità. In effetti, come osservato, la legge recepisce le preoccupazioni sorte a livello internazionale che, a loro volta, hanno determinato la definizione di specie a rischio. Una volta che il rischio di estinzione è evitato la tortura può essere riattivata. Si capisce quindi come questo complesso di misure sia rivolta all’uomo; non solo alla sua sicurezza rispetto a animali capaci di creare problemi di incolumità pubblica, ma anche alla sua pretesa di vedere tutto il mondo, le specie esistenti, l’equilibrio ambientale – quell’equilibrio che nonostante persegua non riesce minimamente a concretizzare – in funzione propria. L’interesse dell’animale non esiste. E siccome l'animale umano non vuole rinunciare a nulla, ha risolto il problema brillantemente. Il tal pappagallo è protetto dalla Convenzione di Washington? Bene, creiamo allevamenti di quella specie; in tal modo, non essendo i suoi membri prelevati dall’ambiente selvatico, potranno essere liberamente commercializzati. In effetti, se abbinati alla necessaria documentazione che attesti il legittimo possesso, ogni animale può trovarsi in prossimità del personaggio che non può vivere senza un tocco di esotismo in casa. Si stabilisce un doppio binario e anche – sembrerebbe – una doppia morale che fingendo di interessarsi di animali, si interessa invece degli uomini e del loro mondo che deve essere difeso dalla scomparsa delle specie a rischio di estinzione. Per il resto, tutto è concesso.

§15 – Conclusioni di mezzo

La riclassificazione degli animali in base alla “funzione” svolta presso gli umani è stata assai produttiva. In primo luogo si è potuto osservare come la difficoltà di alcune classificazioni non sia dovuta a incertezze sulla natura di certi animali, ma dalla caotica attività umana che svolge il ruolo di tiranno capriccioso. Così i cani (certi cani randagi) diventano “rinselvatichiti” e quindi selvatici. Le nutrie, animali selvatici, diventano prima animali da reddito, poi sinantropici. Certi esotici diventano animali per adornare la casa e, nella logica contorta della bestia trionfante, “di affezione”. Certi animali da reddito (come cinghiali, fagiani, lepri che non hanno mai conosciuto il bosco perché nati in capannoni) diventano selvatici per la breve stagione in cui sono liberati nel loro “miglio verde”, come dice Paolo Ricci [25]. Ma se, come nel caso dei cinghiali, vengono liberati in zone destinate alle coltivazioni, allora si trasformano in sinantropici. Insomma il caos della classificazione riflette il caos naturale prodotto da una specie invasiva, potente, arrogante e immorale che non esita a fare terra bruciata intorno a sé.

Ma al di là di questi aspetti, il discorso, pur non essendo esaustivo, ha permesso di constatare come sia relativamente facile scardinare alla base le risibili certezze relative a una società che ha scoperto la dignità degli animali e li rispetta nelle forme di vita, nelle manifestazioni culturali, nell’attività istituzionale del Paese.

Da più parti si tenta di far passare l’idea che l’Italia sia dotata di una legislazione avanzata che, in certi ambiti, la pone all’avanguardia nella stessa Europa [26]. Cio’ è assolutamente ridicolo essendo smentito da quanto precede e da tant’altro che non può stare in un libro. Non solo l'Italia non vede un lento miglioramento della condizione animale, ma addirittura talvolta, come nel caso dei cosiddetti animali di affezione, scivola su un evidente piano regressivo. In tutti gli altri ambiti l’Italia è allineata al resto dell’Europa e, in più, possiede alcuni aspetti degenerativi che non l’aiutano a realizzare gli scopi confusamente dichiarati. Fanno parte di questo gravoso bagaglio nazionale l'elevata ipocrisia della volontà politica, la difficoltà endemica a scrivere con chiarezza le leggi alimentata da una propensione alla confusione che permette interpretazioni di parte, la faciloneria della gente ad acquisire animali senza avere spesso consapevolezza degli obblighi che ne conseguono. Per il resto si sperimenta, si commercia, si mangia, ci si veste come nel resto dell’Occidente. L’Italia rispetto alla gestione del rapporto, è allineata agli standard di una civiltà che gli animali li violenta nel modo più atroce. Per quanto riguarda gli altri paesi europei, che spesso ipocritamente inseriscono paragrafi a favore degli animali nei loro documenti costituzionali, la situazione non si pone in modo tanto diverso. Il fatto è che gli atti umani sono governati dall’interesse e il momentaneo pensiero dedicato all’altro da sé, anche quando sia sincero, è successivamente contrastato e travolto da altre persone, istituzioni, sistemi, tutti portatori di una cogenza distruttiva incorporata nella specie e amplificata dalla organizzazione capitalistica del mondo che richiede la trasformazione incessante dei “tre regni” per la realizzazione dei suoi turpi propositi. Così la tendenza distruttiva si dispiega in ogni direzione senza alcuna resistenza.

Poi, nel resto del mondo è in atto una tendenza analoga a quella sviluppatasi in Occidente. La propensione delle società contadine a industrializzarsi comporta il lento adeguamento ai percorsi già realizzati da Europa e America. Status simbol, tendenza all’imitazione negli standard alimentari, sottrazione ai selvatici di quei pochi territori vergini che ancora rimangono, allineamento agli standard scientifici occidentali che implicano sperimentazioni di laboratorio analoghe e ripetute. Il Terzo Mondo, a parte alcune eccezioni instabili, grazie alle sue elìtes prezzolate e occidentalizzate nelle università euroamericane non è portatore di un disegno di civilizzazione proprio, ma tende a copiare: il debole tende sempre a imitare il forte nella speranza di soppiantarlo o di diventarne un amico stimato. Dunque, anche i loro animali seguiranno la strada che noi occidentali abbiamo aperto per primi.

Non c'è dubbio: dentro l’umano c'è un nucleo duro di violenza che emerge periodicamente in forme acute e che l’accompagna intimamente nella vita in forma endemica come luogo dell’“incontrollabile”. “Civile” o “incivile”, “colto” o “incolto”, per lui vale la formidabile osservazione di un anonimo: sembra che...

... la sofferenza da cui nasce il bisogno di potere sia causata da una profonda crisi esistenziale dell’essere umano, qualcosa che non è mai stato risolto, fin dall’inizio della storia. Gli umani non si sono mai sentiti a casa loro su questo pianeta.[27]

Bellissime parole. Nessuno, a casa propria, provvederebbe a distruggere tutto. La civiltà ha soltanto uno scopo: quello di coprire con le “velature del dire”, con l’ideologia che ombreggia appena l’alienazione, il profondo odio umano verso la vita. Egli distrugge la fonte della sua stessa vita, cioè il mondo vegetale; ma non potendo sfogare completamente il suo sadismo ha bisogno anche di distruggere, e con maggior gusto, esseri che l’evoluzione ha reso simili a lui, con occhi, cervello, sentimenti, passioni. Quando qualche essere umano, in virtù di processi che ancora sfuggono, si sottrae al furore distruttivo della specie cui appartiene, vede l’Orrore e allora lascia un segno della sua avvenuta illuminazione con frasi che spaventano:

Che ne sanno di quelli come te gli studiosi, i filosofi, i leader di questo mondo? Si sono convinti che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli esseri viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronto sono tutti nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno.[28]

Probabilmente l’uomo è l’uomo. Sotto qualsiasi latitudine. Le eccezioni si presentano come epifenomeni che talvolta possono esprimersi persino benevolmente verso gli animali e gli altri uomini. Ma inevitabilmente i buoni propositi vengono travolti da meccanismi che prima o poi prevalgono sempre e che, con la loro cogenza, riattivano effetti pulsionali che gli umani si portano dietro da sempre. Così, anche chi non fosse toccato dalla patologia della violenza sadica, rientrerebbe nel gioco oscuro di forme indirette di sopraffazione, ma non per questo meno gravi. Avrebbe bisogno del boia per mangiare e per vestirsi. Diventerebbe egli stesso un tranquillo e incosciente assassino sterminando esseri nei boschi. Giustificherebbe le moderne pratiche di sopraffazione accettando le nuove fandonie dei “templi della scienza” e le panzane dalle vecchie tradizioni. Insomma, distoglierebbe lo sguardo da un dolore infinito mai visto, provato, sperimentato in numeri così alti a partire dalla formazione del mondo. Diventerebbe un agente più o meno consapevole del Male!

Eppure, il ruolo esercitato da questa micidiale escrescenza della natura obbliga a vedere un barlume di speranza proprio nella specie umana. Esclusa, per la sua altissima improbabilità, una benefica estinzione del primate assassino che avrebbe il pregio di risolvere un bel po' di problemi, non rimane altro che sperare che dal letame nascano dei fiori capaci di cambiare il paesaggio. Non è la prima volta che la storia offre speranza. Il fatto che la speranza si sia sempre estinta dopo fasi di propagazione anche travolgenti non significa che vi sia una legge naturale o sociale che renda impossibile una qualche forma di riscatto o di fuoriuscita da un millennario processo di nefasta civilizzazione. Una possibile linea di sviluppo sarà trattata nella seconda parte di questo lavoro. Ma la questione è prematura essendo ancora necessario esplorare le ragioni del grande equivoco.



Note


[1] Nel contempo segnaliamo come i paragrafi sintetici che seguiranno possano essere integrate da una ormai notevole letteratura facilmente reperibile in ambiente animalista. Uno dei problemi del movimento animalista è che questa letteratura è fruita quasi esclusivamente al suo interno, disponibile per aumentare la disperazione di coloro che “già sanno” ma che non vogliono perdere l’occasione, posti di fronte a una nuova pubblicazione, di aumentare le loro certezze, quasi in un insopportabile timore di perdere la sensibilità e quindi, la voglia di soffrire.

[2] "...fui chiamato d'urgenza da un vicino di casa..., un uomo anziano ricco di rughe, tutto di un pezzo come sono sempre i contadini e non solo quelli piemontesi; aveva le lacrime agli occhi mentre mi faceva vedere la "rossa" vecchia vacca, da anni poco produttiva, che si era spezzata una zampa posteriore scivolando nella canalina di scolo...Il veterinario, subito accorso, aveva giustamente sentenziato che un intervento sarebbe stato insensato e praticamente impossibile, non vi era altro che la 'mazza'. Era vero, eppure io sentii addosso a me l'angoscia di quel vecchio che cercava di mascherare dignitosamente le lacrime di fronte ai figli più realisti e pratici di lui. Mi prese da parte e disse: "pagria 'n milion per salvela, a son vint e singh ani 'd' la mia vita" . (Cesare Pierbattisti, "Veterinario metropolitano", Quaderni della Giunta Regionale del Piemonte N. 17). Vi immaginate un allevatore con il camice bianco che si turba per una mucca della sua stalla modello che non ha mai visto l'erba?

[3] La Gazzetta Del Mezzogiorno (Puglia&Basilicata) 8 aprile 2003 - g.riv: “Bloccati 4mila agnelli: a rischio il pranzo di Pasqua per i lucani”

[4] Il Piccolo di Trieste – 10 aprile 2003 - Luigi Turel: “Camion di pecore tallonati dall'Ungheria. Animalisti presidiano le stalle della Sdag

[5] Una associazione mentale suggerita forse da una celebre citazione: «Ci sarebbero meno bambini martiri se ci fossero meno animali torturati, meno vagoni piombati che trasportano alla morte le vittime delle dittature, se non avessimo fatto l’abitudine ai furgoni diretti al macello dove le bestie agonizzano senza cibo e senz’acqua.» (M. Yourcenar)

[6] La Sicilia (Enna) – 20 aprile 2003 - Salvo Calaciura: “Troina   La Regione autorizza la macellazione di struzzi nel mattatoio comunale

[7] Ma non basta ancora. “La Direttiva 2003/15/CE ha sancito un nuovo allungamento dei tempi: il bando totale ai test cosmetici su animali praticato all'interno dell'UE e il divieto di commercio di cosmetici sperimentati su animali è slittato al 2013”! (fonte LAV). Non è uno splendido mix di ipocrisia e violenza istituzionalizzata?

[8]  Fonte: www.animalieanimali.it - 30 dicembre 2002

[9] La Stampa (Vercelli) – 16 aprile 2003 – Giancarla Moreo: Il senatore Piccioni (FI): “Gravi rischi per la salute dei cittadini. Presentato un disegno di legge per l'abbattimento dei colombi”.

[10] Il Gazzettino di Vicenza - 30 Luglio 2003 – Renzo Rizzi: “Quel tiro al piccione in …”

[11] Fonte: www.ecodibergamo.it, 6 marzo 2003).

[12] Poco prima della disfatta elettorale che ha portato la precedente compagine governativa all’assalto del poco territorio protetto in Italia, ad un membro dell’ArciCaccia che poneva domande precise (E' favorevole a concedere la caccia in deroga alle specie dannose all'agricoltura, come lo storno, il passero, il corvo, ecc..? E' favorevole alla deroga della caccia nel mese di febbraio ad alcune specie di uccelli, come in Francia? E' favorevole a rivedere la legge sui parchi, intendendo questi come luoghi protetti ma vivibili da parte delle attivita regolamentate dell'uomo?[sic! che il cacciatore intendesse riferirsi a picnic nei parchi?]), un certo Federico Toni del “Comitato Rutelli” rispondeva rassicurante così: “Le voglio poi dire che la visione del governo sui parchi ha poco a che vedere con il protezionismo ... komeinista. Il paese è piccolo e molto popolato, non ci possiamo permettere grandi parchi che escludano la presenza dell'uomo…”

[13] Fonte: EcoNews – 23.05.03.

[14] La caccia incessante, ininterrotta, crescente, sempre più tecnologizzata, fa scomparire i grandi pesci del mare. La popolazione di alcuni giganti è oramai scesa del 90 per cento, e alcuni studiosi pensano che non ci sia più speranza di evitarne l'estinzione. - Il Messaggero Esteri – 16 Maggio 2003 – Anna Guaita: “Tonni e squali in via di estinzione”

[15] L’Espresso – 28 maggio 2003 – Chiara Valentini: “L´offensiva venatoria. Più doppiette per tutti.  Omaggio a una lobby potente e influente”.

[16] ivi.

[17] Non occorre molta fantasia per comprendere come un'opera di pulizia specista sia condotta in modo autonomo da bande armate anche senza l'imprimatur di istituzioni disposte a chiudere entrambi gli occhi su questioni di questo genere.

[18] Art.5 “Chiunque abbandona cani, gatti o qualsiasi altro animale custodito nella propria abitazione è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da lire trecentomila a un milione”. Quel “qualsiasi altro animale custodito nella propria abitazione” inserito nella legge quadro in materia di “animali di affezione”, induce a ritenere che per lo Stato, qualsiasi animale nelle case sia un “animale di affezione”. Esempio classico del pressapochismo con cui si fanno le leggi che riguardano gli animali e del pressapochismo con il quale si rileggono prima di licenziarle.

[19] Detto di passaggio, l’essere umano è l’unico che ha bisogno di “affetto” al di fuori della relazione intraspecifica. Probabilmente perché ormai le relazioni intraspecifiche sono, se non irrimediabilmente, gravemente deteriorate.

[20] La recente legge (l.n. 189/2004) prevede delle sanzioni più severe di quella vecchia. Ma a fronte delle centinaia di migliaia di abbandoni, il vecchia normativa non è mai stata applicata. Forse per il fatto che le sanzioni erano così irrisorie da renderle praticamente inutili? L’argomento non sta in piedi. La ragione sta altrove: nella impossibilità di individuare gli abbandoni in assenza di una vera anagrafe degli animali e nel disinteresse dei sindaci dei comuni a far rispettare la legge. Permanendo questi motivi esattamente negli stessi termini di prima, come si può pensare che la nuova normativa sia più efficace della precedente?

[21] Fonte: www.liberazioni.org/rinascitanimalista/sez1-02.htm

[22] La riproduzione da parte di animali già randagi è senz'altro frequente e produrrà una quota del fenomeno, soprattutto tra i gatti. Ma le possibilità di sopravvivenza sono talmente esigue per i piccoli che l'apporto complessivo al randagismo può essere considerato trascurabile. L'assunto secondo cui i randagi si perpetuerebbero per riproduzione torna molto utile alla società che si vuole deresponsabilizzare. Infatti, se gli animali si riproducono in libertà, pur riconoscendo un peccato originale umano a monte, si può concludere che nulla è dovuto in termini di impegno per arrestare il fenomeno, giacché esso si perpetua da solo. Ebbene questo alibi cade grazie a una infinità di ricerche condotte in paesi diversi che conducono a conclusioni opposte. "..Beck ritiene che i cani vaganti non siano probabilmente capaci di mantenere le popolazioni mediante la riproduzione, e che esse si mantengano piuttosto per il continuo rapporto di individui padronali (dunque abbandonati, fuggiti, smarriti). Della stessa opinione sono anche Daniels, che ha studiato i cani vaganti nel New Jersey, nonché, per i cani rinselvatichiti, Boitani & Fabbri, Gentry e Daniels & Bekoff". - Carlo Consiglio, "Il cane vagante", pag. 53, Satyagraha editrice.

[23] Vi sono ambienti familiari poveri di scambi relazionali e affettivi, caratterizzati da competitività e insicurezza e dominati dalla volontà di raggiungere obiettivi economici immediati che risultano devastanti nella formazione del bambino. Si tratta di contesti familiari che costituiscono un modello di formazione dell'handicap in bambini normali (conclusioni del convegno internazionale: "La difficoltà ad apprendere", Torino, 1988). In tali ambienti, difficilmente un animale svolgerà il ruolo positivo descritto in precedenza.

[24] A proposito, ma questa specie cosa spetta a occuparsi dei suoi bambini? Sono almeno 5 millenni che i bambini aspettano e a suon di aspettare diventano come i loro padri e madri e dunque non si curano dei loro figli che riperpetuano la catena della maledizione. Perché se ne ricorda solo quando si parla di animali?

[25] v. l’Incipit del magnifico romanzo “L’Assassino Cherubico”, di Paolo Ricci – www.ahimsa.it

[26] I riferimenti a lungo citati sono stati la L.N.281/91 e il vecchio articolo 727 del codice penale. La prima incensata senza senso solo perché sancisce il divieto dell’abbattimento dei cani randagi, dichiarazione facilmente aggirabile e di fatto aggirata. Il secondo tanto avanzato che si è ritenuto di cambiarlo con qualcosa di peggio.

[27] Screaming Wolf – “Dichiarazione di guerra”, pag.43 – Ed. Nuova Etica, 2003

[28] Isaac Baschevis Singer – Elogio funebre di Herman a una topolina in: “L’uomo che scriveva lettere” (Racconti) – Mondadori, 1998




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