Officina della THEORÎA

Vegan? Certo che non basta!
- a cura del Collettivo -





L'articolo: “Vegan? Non basta ancora...” ha obbligato il Collettivo a un notevole sforzo di riflessione: forse il maggiore tra quelli condotti fino a oggi. Un ulteriore passo nella direzione della messa a punto di una visione ragionata della “Questione Animalismo”.


L'articolo “Vegan? Non basta ancora...”, sorprendente sia per ciò che ha messo in luce, sia per il limite che si è imposto, ha mosso il Collettivo a anticipare una riflessione che era nell'aria ma che stentava a trovare la giusta motivazione per prendere forma. Proponiamo dunque un ragionamento che riteniamo importante. In ogni caso costituirà una delle basi su cui costruiremo successive elaborazioni.

Premessa

Riprendiamo in quattro punti le parti essenziali della tesi dell'articolo:

  1. Il diritto alla vita implica che l'animale umano debba inserirsi nella catena alimentare;

  2. La sua costituzione come soggetto morale impone l'abbandono di ciò che, essendo non necessario alla sua esistenza, appare come causa diretta della sofferenza di altri esseri; perciò l'abbandono di qualsiasi prodotto di derivazione animale è scelta obbligata;

  3. Tuttavia l'impatto alimentare di una specie che conta 6-7 miliardi di membri agisce come destabilizzatore dell'esistenza di altre specie anche attraverso la semplice creazione di prodotti agricoli;

  4. Ne consegue che il principio relativo al punto (2) deve estendersi fino a coinvolgere quei cibi che, pur non comportando violenza in maniera diretta, la implicano tuttavia in modo indiretto. L'animale umano, non potendo valutare razionalmente, per le eccessive complicazioni di calcolo, le scelte da compiersi per minimizzare la sofferenza, può tuttavia – in quanto agente morale – estendere il suo atteggiamento etico portando l'assunzione del cibo al livello marginale rispetto ai bisogni fisiologici. Tale minimizzazione avviene agendo a) sulla quantità, b) sulla qualità, c) sulla esclusione di elementi di derivazione esotica (ma sarebbe più indicato dire: di importazione).

Le considerazioni che precedono (si consiglia comunque di leggere l'articolo originale) aprono immediatamente un altro fronte di riflessioni che potrebbe essere riassunto da una semplice domanda: perché di solo cibo si deve parlare? Perchè la riflessione deve arrestarsi sulle considerazioni di natura alimentare? Pur cogliendo un aspetto di notevole novità, l'autore non cade nello stesso difetto quando non riesce a liberarsi del condizionamento del cibo? Il cibo, in effetti, ha il potere di porre in relazione in termini diretti e estremamente efficaci 'alimentazione' e 'massacro'. Non solo. Il cibo è ricostruzione del corpo umano e per ciò stesso ha un grande valore simbolico. Alimentarsi è un bisogno primario e necessita di una iterazione continua in assenza della quale il corpo stesso protesta. Non c'è da sorprendersi se l'animalista individua nella critica dell'alimentazione umana un aspetto primario a cui dedicare tutte le sue energie.

A ben vedere, lo sguardo e la prassi animalista si spingono oltre. Basti pensare alle battaglie contro la vivisezione o la caccia, per citarne alcune. Ma di nuovo si è costretti a rilevare che l'interesse degli animalisti per i diritti dei sensibili si presenta sempre come un riflesso. La violazione dell'animale deve visualizzarsi per mezzo di una relazione causa-effetto piuttosto corta. Del resto, anche in persone ben disposte, una relazione causa-effetto allungata impedisce di vedere con chiarezza la natura delle cose. La percezione di effetti dovuta a cause lontane è sempre problematica. Cosi', anche l'animalista si occupa del problema solo se l'animale appare come soggetto direttamente interessato nella questione trattata.

Ciò che occorre è un cambio di prospettiva. Occorre comprendere che la riproduzione sociale va oltre la riproduzione puramente fisica degli individui per mezzo del cibo. E, parimenti, deve essere compreso anche l'effetto generale che tutta la produzione umana esercita sulle altre forme di vita. La riproduzione materiale del cibo è una componente minoritaria rispetto alla produzione complessiva di un sistema economico, per quanto sia componente rilevante. L'invasione spaziale della specie umana è del resto cosa che s'impone sotto gli occhi di chiunque. Per esempio, gli italiani, brava gente, per mantenere il loro livello di vita, abbisognano di 3,5 ettari di terreno pro capite. Una bella “impronta ecologica” non c'e' che dire. In questo numero è compreso tutto. Non solo cibo, ma anche strade, ferrovie, case, seconde case, chiese, superfici minerarie e per il prelievo di materiali vari, turismo interno e estero. Insomma, fonti primarie per la produzione di oggetti materiali e servizi di uso privato e pubblico. Peccato che dentro i patri confini dispongano soltanto di 0,6 ettari scarsi. Ciò vuol dire che, in teoria, hanno saturato tutto il loro territorio esaurendo completamente la disponibilità interna di terra. Se questo non accade ancora, se una piccola frazione di territorio è ancora conservata, ciò significa che stanno andando ad arraffare altrove, fuori dei confini, più dei 2,9 ettari pro capite mancanti e ciò non cambia la sostanza del problema. Tra l'altro, la conservazione di lembi striminziti di territorio, mai in forme assolute, è subordinata all'interesse della specie dominante e gli altri abitanti sono tollerati solo se “non costituiscono un problema” altrimenti vengono fucilati col beneplacito delle istituzioni. Un discorso analogo può essere fatto ormai per tutti i paesi avanzati; per quelli “arretrati” l'esplosione demografica, simile a quella che in altri tempi si è verificata in Occidente, sta creando problemi di pressione di uomini su uomini, giacchè il problema della pressione degli uomini sulle “fiere” è ormai soltanto un ricordo. Insomma, l'attività umana nel suo complesso sta portando verso la soglia di irreversibilità dello spegnimento della vita.

Il rispetto per la vita (per quella che rimane o potrà essere ricostituita) impone dunque al biocentrista di andare oltre le esperienze finora condotte e di sviluppare due classi di comportamenti piuttosto trascurati: i comportamenti passivi e i comportamenti attivi.

La classe dei comportamenti passivi

L'animalista-biocentrista ritiene di non ledere gli interessi degli animali se adotta una dieta vegan. Abbiamo visto che in questa scelta c'è un atteggiamento di immediatezza che riconosce nell'atto stesso del cibarsi un obbligo del rispetto interspecifico. Ma le considerazioni fin qui condotte dimostrano che questo è un atteggiamento decisamente riduttivo che sottostima energicamente la propria influenza nel mondo. Anche rifacendosi alla tesi di Didimo – eliminazione del superfluo quantitativo e qualitativo alimentare – ci si deve chiedere di nuovo, e con forza, perché di solo cibo si debba parlare! La riproduzione della società umana è una attività fortemente entropica, destinata a sviluppare un disordine progressivo e spesso irrecuperabile con effetti di annientamento dell'altro da sé. L'attività criminale dell'economia, il cui unico scopo consiste nella movimentazione del denaro per produrre altro denaro indipendentemente dal rispetto verso la specie stessa che dovrebbe esserne la beneficiaria e dal raggiungimento di veri interessi collettivi, è ben supportata sul piano della comunicazione da istituzioni scientifiche, politiche, culturali e economiche che non fanno altro che agitare il PIL, ovvero il vessillo scheletrico della “Cultura della Morte”. Percio', l'animalista-biocentrista deve considerare che, limitandosi alla scelta alimentare svolge un'azione piuttosto blanda rispetto ai presupposti su cui ha impegnato il suo attivismo.

Invero, l'animalista dovrebbe dare una risposta passiva in termini globali, poiché globale è l'impatto della produzione di merci nel sistema capitalistico sul sistema della biosfera, ovvero del luogo di interesse di tutti gli esseri viventi. Altro che cibo! Il tantalio del Congo sta trasformando una regione lussureggiante in una miniera a cielo aperto con il conseguente sterminio di primati e altri abitanti della foresta. L'espansione urbana è un punto di fuoco che brucia tutto quanto esiste intorno a sé. Ferrovie, autostrade e altre vie di comunicazione tagliano in ogni dove il territorio in triangoli ristretti fino a rendere pericoloso, alle specie extraumane, abitare gli angusti fazzoletti di terra teoricamente indenni dalla furia antropizzante. Dunque l'animalista militante non può esimersi dal riconoscere tutto questo adottando stili di vita assolutamente moderati e frugali. Il suo tenore di vita deve essere dignitoso ma sobrio e orientato all'essenziale. In assenza di questa scelta, anche l'opzione ultravegan nella forma ristretta promossa dal saggio di Didimo, può essere scambiata per pura e semplice stravaganza. In sincronia con questa risulta invece l'assunzione di una responsabilità totale verso il vivente recuperando in pieno il ruolo-segno assunto dal cibo nel qualificare le scelte etiche dell'individuo. Insomma, tutti gli obblighi morali possono riassumersi nella scelta di cibo libero da crudelta', ma in assenza del rispetto di quelli, la scelta vegan non riesce a nascondere gravi carenze di visione generale del problema.

Il limite dell'animalismo è tutto qui. A parte pochi coerenti, gli animalisti non hanno ben chiaro quale sia l'impatto sulla vita – e quindi sugli animali – causato dalle scelte quotidiane più generali che trascendono i problemi dell'alimentazione (o degli altri temi che fanno parte del bagaglio di attività classiche del movimento). I pochi coerenti, del resto, sembrano ottemperare a un imperativo interiore senza essere in grado di cogliere la natura politica della quasi totalita' delle scelte umane; un vuoto mentale mutuato da ambienti culturalmente affini, consistente nel limitarsi a una semplice e circoscritta testimonianza di vita.

Ci risulta una eccezione. In “Dichiarazione di Guerra” l'anonimo autore, noto con lo pseudonimo di Screaming Wolf, va oltre il minimalismo animalista e abbozza una teoria che chiama in causa due pilastri del crimine della società moderna: l'automobile e il petrolio. Lo fa però in modo incerto e non sviluppa completamente i concetti. Vediamo perchè. Sembra che Screaming Wolf attribuisca a petrolio e automobili solo responsabilità dirette sugli animali come gli investimenti (che sono davvero infiniti) e gli inquinamenti ambientali da idrocarburi. Non sviluppa invece – l'accenna appena – un'idea che dovrebbe essere centrale nella visione animalista: il petrolio è la sostanza che permette alla specie egemone di accelerare l'opera di distruzione della Terra. La nostra civilta', senza petrolio sarebbe irriconoscibile e, tra l'altro, e' proprio questa risorsa energetica che ha consentito la creazione del mezzo di trasporto che ha stravolto la vita degli umani. L'auto, a sua volta, produce effetti che vanno ben oltre il colossale numero di investimenti di esseri non umani (e umani). Le strade sono un luogo di terribili massacri, e' vero, ma non è minore il gioco degli effetti che l'auto produce ampliando l'ecumene fino quasi a farlo coincidere con lo spazio disponibile sulla terra. Questa dimenticanza, rimediata appena da brevi accenni ad una visione più allargata è però, probabilmente, l'effetto di una trattazione rapida in linea con le esigenze sintetiche del pamphlet. In effetti, in altro capitolo, Screaming Wolf, illustrando quelli che potremmo chiamare “i 9 comandamenti del liberazionista”, cita il fondamentale passo...

Quarto: vivi semplicemente.
Evita l’ossessione del materialismo che affligge il nostro mondo capitalista. Siamo stati educati ad essere consumatori. Il pianeta ha bisogno di più liberazione e di meno consumo. Vivere con semplicità ti aiuta anche ad evitare di aver bisogno di denaro e di partecipare al sistema.

... che rappresenta il compendio di un atteggiamento di estrema moderazione rispetto a tutte le stimolazioni dell'area del piacere generate dalla società opulenta al fine di alimentare quella sua logica imperiale e espansionista che tanta sofferenza produce, non soltanto agli animali, ma anche all'inconsapevole e disgraziata specie umana. Poiché il denaro è la merce generale attraverso la quale è garantito l'accesso alle merci particolari, una scelta volontaria di limitazione del proprio accesso ai beni attraverso la moderazione dei guadagni costituisce il perfetto compendio dello stile di vita dell'attivista animalista e vegan. Tale principio dovrebbe essere assunto negli statuti di tutte le strutture animaliste organizzate e raccomandato ai propri attivisti così da istituire un valore diffuso di controtendenza. La vista corta, molto miope, che limita al cibo e a poche altre attività l'impegno e la coerenza, non fa che riproporre l'atteggiamento riduttivo e fiacco dell'animalismo che, anche nelle forme più radicali, rifiutandosi di riflettere sui problemi globali della società umana, si approssima molto, per certi versi, all'approccio protezionistico.

Possiamo ora fermarci un attimo per riassumere le caratteristiche “passive” che il militante animalista dovrebbe possedere.

  1. Il complesso di atti violenti diretti e indiretti verso le altre forme di vita sono commesse dalla specie umana in forza del suo espansionismo demografico e della progressiva invasione della civiltà della tecnica con il portato dei consumi tipico della società affluente. E' difficile stabilire se l'attività vessatrice della specie faccia prevalere gli effetti diretti, cioè quelli che si traducono direttamente in violenza sugli animali (caccia, vivisezione, alimentazione, ecc.) oppure quelli indiretti legati alla semplice espansione umana e alla qualità del suo sviluppo. Come minimo possiamo supporre che siano dello stesso ordine di grandezza.

  2. Da ciò consegue che l'attivista animalista dovrebbe riconoscere una responsabilità almeno dello stesso ordine, rispetto all'olocausto dei viventi, sia nelle azioni che la società svolge direttamente su di essi, sia in quelle che che costituiscono il naturale sviluppo della civiltà solo apparentemente prive di effetti sugli animali.

  3. L'ulteriore passo dovrebbe condurre il combattente per i diritti degli animali verso un atteggiamento di estraneità rispetto alla società cui egli appartiene e in direzione di una problematica presenza nei suoi ranghi. Egli dovrebbe manifestare una esplicita distanza da quanto lo circonda assumendo comportamenti contrastanti con la cultura dominante e assumendo stili di vita moderati prossimi a quelli che l'attuale società giudica come poveri.

La classe dei comportamenti attivi.

Finora abbiamo riflettuto sui comportamenti passivi, ovvero sui comportamenti che tendono, una volta assunti, a distanziare il militante animalista dalle responsabilità proprie della società specista. Perfettamente adottati, questi comportamenti prefigurano il saggio che si separa completamente da una società giudicata abominevole sulla base delle abitudini quotidiane dei suoi membri. Egli, con tipico atteggiamento confuciano, si isola pur restando tra gli uomini (dove potrebbe andare, del resto?) accontentandosi di frequentare quei pochi come lui, giacché gli altri non li sopporta. Vive imponendosi un impatto entropico assai ridotto e basandosi sulle minime necessità per l'esistenza. Può anche “moderarsi nella moderazione” e non essere poi così isolato sotto molti punti di vista rispetto gli altri membri della sua specie e i loro modi di vita, ma è fin troppo evidente che se si limita a mangiare vegan e fare banchetti, e poi sostenere in tutto per tutto lo sviluppo distorto e onnivoro del capitalismo, attira su sé pesanti ombre circa la sua volontà effettiva di assumere il biocentrismo e il liberazionismo tra gli impegni più importanti della sua vita.

Tuttavia, la battaglia per i diritti degli animali (usiamo questa espressione in senso lato) può essere condotta con comportamenti esclusivamente passivi? Procurarsi cibo rigorosamente vegan per 2500 calorie al giorno, vivere modestamente rifiutando le sirene della società capitalistica e affluente, vivere perennemente la propria esistenza senza alimentare le esasperazioni del proprio io, rinunciare ai viaggi e agli altri sussulti esperienziali, fare tutto questo confidando di presentare un modello per altri che “ci seguiranno nella retta via” è assolutamente illusorio. Grandi riformatori sociali hanno proposto ben altro attraverso i millenni, ma con scarso successo. Anche loro hanno suggerito soluzioni del tipo: “Comportati bene e vedrai che tutto andrà meglio”. Ovviamente tutto ha continuato a andare peggio. L'idealista di turno potrà obiettare che ciò è accaduto perché la gente non ha seguito i loro dettati morali, ma quello che si fa fatica ad accettare è la risposta ai motivi per i quali la gente “non segue” i dettati morali.

La risposta, nella sua essenzialità, è di una semplicità disarmante. Il “moralista” offre sé stesso, la sua immagine, come elemento di influenza sociale immaginando che le condizioni che hanno generato la sua essenza siano magicamente estendibili a altri individui in virtù della ostentazione della sua sacra icona. Il moralista possiede, in linea con le tendenze culturali dominanti della civiltà umana, una visione soggettivistica, personalistica dell'individuo. Egli ritiene che l'individuo osservi, valuti e, siccome è fondamentalmente morale (come del resto il moralista vede sé stesso), prima o poi faccia la scelta giusta. E' solo questione di tempo, ma l'umanità deve migliorare, anzi, perfezionarsi. Contribuisce a questa fantasiosissima costruzione l'immagine che l'Occidente ha di sé stesso come punto di arrivo, non completato, di un processo di crescita continua. Se il moralista segue le fole religiose, stigmatizza il “deviante” agitando la minaccia dell'inferno. Se invece è laico si priva del piacere di “spedire all'inferno” ma trova altre soluzioni per una stigmatizzazione senza appello, pubblica o privata che sia. Il moralista non puo' accettare che l'essere umano è un animale anche lui: un animale ben esposto a una realtà condizionata. Non puo' accettarlo! Non sospetta che solo alcuni, e soltanto per caso, sfuggono dalle spire stritolanti della riproduzione culturale. Così come si riproduce materialmente, la società si riproduce anche culturalmente con “informazione condizionata”. E come la riproduzione materiale è evolutiva, soprattutto in ambito capitalistico, così è evolutiva la riproduzione culturale che la giustifica e che ne fornisce il conseguente supporto ideologico. Di fronte a questo strapotere (un gioco fin troppo semplice e dal risultato scontato) che si manifesta con continue blandizie al cervello rettiliano, si erge il moralista, un po' sognatore perché spera che il mondo prenda una certa piega, un po' rabbioso perché sospetta che non potrà mai prenderla. Prigioniero nella gabbia delle sue errate certezze, non è in grado di uscire dal falso dilemma: deve conviverci e, dunque, vivendo una condizione di doppio legame, finisce per diventare nevrotico.

Strano che l'animalista viva la condizione del moralista. Egli si trova nella posizione vantaggiosa per vedere il mondo con occhi diversi. Cioè per interpretare il suo ingrediente principale – l'uomo lo è, non certo in termini di importanza, bensì di capacità distruttiva – come semplice animale tendente a cercare vantaggi per sé o per il suo clan o la sua cerchia sulla base di interessi percepiti più con la pancia che con il cervello. Un animale né da amare, né da odiare, né per quello che fa, né per quello che non è capace di fare. L'animalista, con le sue critiche sperticate all'antropocentrismo, è il primo a caderci dentro nel momento in cui ripropone l'atteggiamento fideistico verso un'umanità emendabile con la forza dell'esempio anziche' con l'organizzazione, la propaganda, la battaglia politica. Inoltre, la sicura empatia verso gli animali violentati oltre ogni limite immaginabile lo espone a una nevrosi superiore a quella dei moralisti “normali”. Naturale! Quando le forze opposte che istituiscono il doppio legame (speranza-disperazione) si amplificano, gli sconvolgimenti dell'animo possono diventare insopportabili. Tuttavia l'animalista non riesce a compiere il salto di qualita'. Si mostra per quel che la sua natura gl'impone e dice al prossimo: “guardate me e imparate come si fa a vivere rispettando tutti gli essenti”.

Anche atti che sembrano sfuggire a questa logica, di fatto, ne sono impregnati. I banchetti istituiti per sensibilizzare la popolazione sul vegetarismo, sulla vivisezione, sull'industria delle pellicce non rappresentano altro che aggregati di atteggiamenti passivi, pure e semplici testimonianze. Hanno lo stile delle preghiere accorate e, come tali, ne mantengono perfettamente le caratteristiche. Perciò poco cambierebbe nella sostanza se l'animalista si limitasse a provvedere agli animali che gli capita di incrociare e, per il resto, si ritirasse in un eremo.

Perché un problema dalla natura rivoluzionaria come la “Questione Animale” viene affrontato in modo riduttivo? Perché non si riesce a fare il salto mentale, teorico, organizzativo per instaurare atteggiamenti, comportamenti e pratiche attive? Perché le uniche manifestazioni di pratiche attive (e delegate) – possiamo immaginare con quale probabilità di successo – si riducono alla richiesta alle istituzioni di iniziative legislative che inevitabilmente deludono? Non è facile dare risposte a queste domande. Sicuramente entrano in gioco fattori diversi legati allo spirito di questi tempi caratterizzati da valori minimalisti e “ideologie deboli”: si stenta a concepire organizzazioni autonome per la difesa dei nuovi diritti per consegnare timidamente petizioni ai mandarini di sempre (bianchi, rosa, verdi, azzurri o neri che siano). Ma possiamo anche chiederci quanto tutto questo non sia il frutto di una visione che riduce il problema animale a semplice parzialità risolvibile a prescindere dal contesto umano. Una visione tutt'altro che olista e, anzi, atomista, frammentata, tipica, sotto tutti i profili, della nostra civiltà, la quale non riesce a integrare in una visione globale i vari frammenti in cui il mondo è stato ridotto.

Finalmente possiamo ricongiungerci con la questione iniziale. Alimentarsi vegan e seguire le ulteriori restrizioni di Didimo può essere un atto assai limitato o un grande segno. E' un atto limitato se si pensa che la guerra dichiarata dagli umani alla vita sia un fatto circoscritto all'alimentazione o ad altre pratiche classiche di uccisioni di animali. E' un grande segno se si accompagna alla consapevolezza della mostruosità insita in un centro commerciale (a prescindere dalla vendita di cadaveri per l'alimentazione umana), allo scempio del territorio per costruire capannoni per investimenti esentasse, alle alte velocità per diminuire ossessivamente i tempi di spostamento e assecondare la libertà di circolazione, alle oscene forme di relazioni di lavoro instaurate dalle ultime fasi del capitalismo morente che non riescono a integrare la mente e in corpo dell'individuo nella società. Alimentarsi vegan nella prima accezione vuol dire adottare un gesto parziale e fondamentalmente inefficace, per quanto nobile. Alimentarsi vegan nella seconda accezione implica invece ricomporre nella propria mente una verità assoluta: cercare la liberazione animale senza lavorare per demolire politicamente la società che non può accettarla è compito uguale a pretendere di disegnare un cerchio quadrato: uno sproloquio logico, prima che empirico. Un'assurda pretesa, se non si riesce a concepire la condizione animale all'interno di una ricollocazione umana sul pianeta. Ricomporre questa verità nella propria mente significa predisporsi a una successiva fase di ricerca di forme organizzative e politiche per avviare un lungo processo dalle evoluzioni ancora indistinte.

Il discorso fin qui condotto può indurre un equivoco che deve essere dissipato prima che si stabilizzi in critica. Spesso, da parte dei “puristi”, si sostiene che pensare agli animali in chiave di interessi umani significhi pensare in termini antropocentristi. Gli esempi non mancano:

  1. non mangiare carne perché causa danni alla salute e all'ambiente;

  2. non vivisezionare perché la salute umana rischia;

  3. non andare a caccia perché è pericoloso per chi cammina nei boschi;

  4. non impiegare animali di affezione per la pet therapy.

Per i puristi occorre dire: non mangiare carne, non vivisezionare, non cacciare, non possedere animali se non randagi raccolti per strada o dai centri di raccolta. Perché? Per puro e semplice rispetto degli animali. Punto e basta. La questione si presta a complesse riflessioni (che pure altrove faremo) ma che non vogliamo qui sollevare per non distrarre il lettore. Vogliamo soltanto sottolineare che questo approccio, robusto o fragile, giusto o sbagliato che sia, non è applicabile allo spirito di questo saggio. Se qui si dice che concentrarsi sul problema animale significa comprendere le forme di vita che l'umano deve adottare, non si vuole subordinare i diritti dei primi a quelli dei secondi. Si vuole solo sostenere che senza una riorganizzazione complessiva della posizione dell'umano sulla terra non è possibile immaginare sollievo per il destino degli animali per incongruenze insormontabili. Cio' corrisponderebbe a chiedere cose che non possono essere date. Quindi a cadere nelle spirali della ideologia intesa in termini di falsa coscienza.

Ma una società nuova non va richiesta! A chi la si dovrebbe richiedere? A quelli che non la vogliono? Ai sacerdoti pertinaci della vecchia? No, una società nuova va perseguita da coloro che riescono a immaginarla. Così si stabilizzerà una cesura tra i fautori di un nuovo ordine e i difensori di un (dis)ordine morente. In mezzo una immensa zona grigia da conquistare.

L'animalismo, depositario di una impostazione biocentrista contrastata persino da verdi e ambientalisti che concepiscono l'ambiente in funzione degli umani e quindi appartengono già soltanto per questo (per non ricordare il loro degrado politico) al vecchio ordine, può incominciare a condurre una rivoluzione pur partendo dalle infime forze oggi disponibili. La condizione perché ciò avvenga e' che i suoi militanti incomincino a specchiarsi come forza autonoma, che inizino a separare, facendo le scelte necessarie, la disciplina rivoluzionaria dalla ribellione spontaneista e, dunque, incomincino a pensare in termini di organizzazione, progetto, propaganda per ridare un volto nuovo alla realta'. Non ci sono ambiti affrontati dalla politica “normale” sui quali gli animalisti non possano dire la loro! Ambiti che investono tutta l'attività umana: dall'uso del territorio, a quello delle risorse energetiche e alimentari, al tipo di modello di (non) sviluppo, fino alle modalità di riproduzione culturale. Anzi. Considerando che gli atti consumati nei Parlamenti – cosiddetti “democratici” in virtù della più grandiosa opera di mistificazione condotta dal Potere nella Storia umana – sono atti contrari al rispetto dell'equilibrio tra gli esseri, non ci sono ambiti sui quali gli animalisti non DEBBANO dire la loro! Non è questa una affermazione di per sé sufficiente per implicare una organizzazione autonoma degli animalisti al fine di ridisegnare in prospettiva una polis universale compatibile con la vita?

Solo così il veganismo (anche ristretto, come vuole Didimo) e tutte le altre pratiche degli animalisti acquisteranno il senso compiuto di una battaglia integrale e cesseranno di essere azioni nobilissime ma fatti di pura testimonianza di gruppi minoritari di animali umani senza speranza.



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03/01/05