Officina della THEORÎA

Vegan? Non basta ancora
- di Didimo -







Contributo che apprezziamo e riproponiamo ai frequentatori di RA in attesa di una risposta ragionata da parte del Collettivo.
Intanto vi sono obiezioni da parte di qualche lettore?


Parecchio tempo fa, è circolato un articolo di Marina Berati che riproponeva il modello di ragionamento vegan e articolava le sue riflessioni intorno ad una considerazione oggettiva: il lacto-ovo-vegetarismo non risolve il problema della violenza sugli animali e può persino aggravarlo. Infatti, la produzione intensiva di uova e latte non può prescindere dagli allevamenti intensivi degli animali produttori, mentre, in teoria, gli allevamenti per la produzione di “carne” potrebbero utilizzare allevamenti estensivi. Inoltre, la dichiarata impossibilità di mantenere mucche e galline quando la produttività cala fa sì che non si possa prescindere dall'“atto economico inevitabile” dell'uccisione.

La dieta vegan si sottrae a questa maledizione? I carnivori ricalcitranti reagiscono con insistenza chiamando in causa la sofferenza dell'insalata e delle carote, ma da più parti è stato ampiamente dimostrato come il ragionamento venga impiegato per deviare da un binario che a un certo punto diventa sgradevole e imbarazzante per il carnivoro stesso. In realtà, l'interlocutore carnivoro potrebbe mostrarsi più intelligente e, anziché chiamare in causa l'insalata, potrebbe invocare un argomento piuttosto serio: l'agricoltura non ha un impatto neutro nei confronti del vivente. Almeno sotto tre aspetti:

  1. L'agricoltura comporta da distruzione di un'infinità di animali (non soltanto insetti, ma anche pesci, rettili, uccelli e mammiferi) con l'impiego di sostanze più o meno nocive e tecniche di semina, cura e raccolta che trasformano i campi di coltivazione in luoghi di liquidazione di tutte le altre forme di vita incompatibili con gli interessi umani.

  2. Gli animali che non sono subito direttamente interessati, possono essere successivamente coinvolti in quanto ritenuti concorrenti rispetto ai beni agricoli.

  3. Lo sviluppo dell'agricoltura costituisce sempre una invasione del territorio che nega i diritti di esistenza di moltissime specie che non dispongono più dell'estensione territoriale sufficiente per sopravvivere tanto è vero che anche in Italia c'è una progressiva sparizione di specie animali.

Quanto precede può essere dimostrato al di là di ogni dubbio. Per quanto riguarda il primo punto, l'introduzione della chimica e della meccanizzazione produce risultati immediati facilmente riscontrabili. Basta pensare all'effetto che queste tecniche esercitano su rettili, uccelli e piccoli mammiferi. Per quanto riguarda il secondo, si considerino le continue lamentele di produttori circa gli effetti nefasti di nutrie, cinghiali o uccelli granivori. Infine, per il terzo, si consideri un esempio lontano ma interessante per il giudizio lapidario di uno scienziato apparso mesi or sono:

Quasi 20.000 koala vengono uccisi ogni anno, nello stato australiano del Queensland, durante le operazioni di disboscamento. La denuncia è giunta oggi sotto forma di lettera aperta, firmata da 420 scienziati di tutta Australia, e indirizzata al premier John Howard. Secondo gli scienziati, per ogni cento ettari di foresta disboscati, circa 2000 uccelli, 15.000 rettili e 500 mammiferi nativi muoiono o per le ferite inflitte dai macchinari oppure per i drastici mutamenti ambientali. ''La maggior parte della gente pensa che, quando si ripulisce un appezzamento di terreno, gli animali semplicemente si spostino altrove. Non e' cosi', la gran parte muore'', ha spiegato Hal Cogger, scienziato dell'australian Museum che si occupa di biodiversita'. (Fonte: EcoNews 26.11.03)

L'uomo non vuole condividere nulla con altri abitanti del pianeta e per questo reagisce con violenza quando viene messa in discussione la più piccola parte delle sue cose. Ma anche dopo una ipotetica riconduzione a ragione della specie, l'impatto umano non potrebbe certo ridursi a zero per ovvi motivi.

Dunque esiste un argomento forte, normalmente trascurato, che potrebbe permettere una ritorsione dialettica verso i vegan. Anche l'agricoltura possiede un volto violento. La risposta a questo argomentare è tuttavia semplice. Il vegan potrebbe ribattere scegliendo due linee. La prima: “Umanità estinguiti, visto che sei così nociva”. Conosco dei vegan che, avendo fatto la scelta dell'estinzione volontaria rinunciando alla prole, sarebbero d'accordo con questa idea. Altri, invece, più disponibili a vedere qualcosa di buono nell'animale umano – magari in prospettiva –, potrebbero indicare un'alternativa e dire: “Ogni essere ha diritto all'esistenza e per questo non può fare a meno di esercitare un'influenza negativa sul suo prossimo. Un'eventuale popolazione che avesse caratteristiche fisiologiche particolari e fosse obbligata a cibarsi di carne sarebbe eticamente autorizzata a farlo (gli eschimesi?); analogamente l'uomo vegetariano può cibarsi di vegetali per rispetto a sé stesso”. Partendo di qui potrebbe poi riprendere le tradizionali ed efficaci risposte vegan contro il consumo di carne e derivati e mostrare la superiorità etica del regime alimentare vegan.

Tuttavia la mossa maldestra del “carnivoro intelligente”, pur non riuscendo a costituire nemmeno la minima base di giustificazione per il proprio comportamento, impone al vegan una riflessione che, per quanto ne sappia, non è ancora emersa in nessun articolo o in alcuna discussione. Quale?

Sappiamo che il comportamento alimentare vegan è governato da un principio generale espresso in varie forme che potrebbe essere riassunto nella formula: “E' necessario adottare ogni comportamento che riduca al minimo la sofferenza degli altri esseri e per raggiungere questo obiettivo l'alimentazione deve essere rigorosamente vegetariana”. Tuttavia considerare che anche l'agricoltura svolge un'azione distruttiva sulle altre specie agendo su di esse direttamente o indirettamente dovrebbe comportare, per coloro che sono sensibili alla vita, l'ulteriore scelta di abbassare la soglia del dolore degli animali che sono coinvolti nell'attività distruttiva dell'agricoltura. Ciò dovrebbe avvenire con l'abbandono di cibi che, pur avendo natura indiscutibilmente vegetale, sono superflui sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Insomma, il nuovo principio guida dovrebbe diventare: “Non bisogna cibarsi del superfluo poiché questo viene a influenzare negativamente, in modo diretto o indiretto, la sopravvivenza e la qualità della vita di altri esseri”. Tutto ciò che viene mangiato o bevuto o utilizzato per puro gradimento pur avendo un'origine vegetale, dovrebbe essere semplicemente cancellato dalle possibilità d'uso sulla base del principio etico suddetto. Il vino è la prima cosa che mi viene in mente. Ma qualunque prodotto che non dispone di valore alimentare dovrebbe rientrare nella lista degli autodivieti. Qualità, ma anche quantità! Esagerare con i biscotti, raddoppiare gli input calorici necessari con cibo strettamente vegan non costituisce un comportamento corretto. Il fatto che vi sia una maggiore distanza tra l'azione e il suo effetto, cioè che non si riesca a cogliere la semplicissima relazione tra il dato del piacere, in sé perfettamente legittimo, e la distruzione cruenta di altre forme di vita condotta per soddisfarla, non la rende molto diversa da un'altra azione: quella di chi, perchè la panna è buona, la mette nel caffè rifiutando qualsiasi altro tipo di considerazione. Questo perchè, non dimentichiamolo, stiamo parlando del superfluo.

Vi è poi tutta la gamma dei prodotti “esotici”. Questa produzione davvero enorme è soggetta ad una notevole serie di riflessioni politiche connesse al “rapporto di scambio diseguale” e alla penetrazione delle multinazionali nei paesi del cosiddetto “Terzo Mondo”. Temi che hanno un approccio “antropocentrista” e sono considerati dal punto di vista degli interessi calpestati delle popolazioni indigene. Ragionamenti, sotto molti aspetti, giustissimi e doverosi. Ma chi ha visto filmati sulla eliminazione di elefanti perché minacciano le coltivazioni di olio di palma, o gli occhi annegati in una infinita tristezza di babbuini catturati, ingabbiati e spediti in Occidente – chissà per quali terribili scopi – perché innocenti sottrattori di granaglie in coltivazioni africane, non può non riflettere sul dolore spesso incorporato in un biscotto vegan e quindi solo “apparentemente” privo di costi per esseri sensibili.

Vi è però una difficoltà reale. E' quella che impedisce di vedere, anche a persone ben disposte, effetti dovuti a cause lontane. Essi non vengono sempre riconosciuti. Mentre la carne riporta immediatamente il pensiero a un atto barbarico, il biscotto con olio di palma appare portatore di una innocenza assoluta. La scoperta della correlazione è legata ad un atto di riflessione concettuale privo della necessaria immediatezza e denso di incertezze: da dove proverranno gli ingredienti? quale sarà stato il costo per gli altri esseri? Ne deriva una impossibilità reale di scelte determinate. Perciò l'unico modo di aggredire il problema può avvenire solo adottando il principio della riduzione probabilistica del danno attraverso l'abbattimento del superfluo. Magari ponendo una certa attenzione alla provenienza dei cibi. Se l'impatto sul vivente di un prodotto locale e di uno con ingredienti esotici sono apparentemente uguali, non va comunque sottovalutato l'impatto sulla natura di un prodotto che giunge sulla nostra tavola dopo aver fatto il giro del mondo e che, quindi, agisce come distruttore della vita più di un equivalente locale.

Perciò l'attivista per i diritti animali dovrebbe ragionare in modo molto semplice. La scelta vegan non dovrebbe prescindere da una riduzione del cibo a puro strumento per la rigenerazione del corpo limitandosi a badare alla conservazione della salute.

A chiusura di questa breve riflessione ritengo opportune due semplici considerazioni. La prima è questa: personalmente mi accontenterei che venisse fatta una scelta collettiva di tipo, neanche vegan, ma semplicemente vegetariana. Sarebbe meraviglioso se già venisse accettato il primo gradino di una scelta che incomincia a promuovere una svolta etica. Questo perchè le mutazioni avvengono per gradi soprattutto laddove le scelte richiedono ampi sconvolgimenti delle abitudini. La seconda: quanto precede non vuole essere una critica ai vegan perchè troppo moderati. Assolutamente no! Tra l'altro i vegan che conosco sono ben allineati a standard di moderazione encomiabili. Offrono già la rappresentazione umana di forme di vita corrette e rispettose del vivente. Dunque il motivo che mi ha spinto a scrivere questo appunto non è nè il desiderio di bacchettare nessuno (del resto non avrei alcuna autorità per farlo), nè quello di spalancare l'attenzione a chissà quali novità. Semplicemente esso è il frutto di una puntualizzazione che dovrebbe, credo, accompagnare comportamenti che si fanno strada già a livello intuitivo in coloro che hanno care le altre forme di vita. E poi c'è un'altra ragione. Nella pur improbabile ipotesi che, a seguito della diffusione di una voga effimera, si propagasse l'atteggiamento vegan, sarebbe fin d'ora importante sottolineare aspetti ambigui del comportamento umano che potrebbero presentarsi sotto le mentite spoglie del rispetto per gli animali. Una cucina vegetariana ricca, esagerata, ostentata e adottata solamente per il tempo necessario perchè una moda si esibisca, dovrebbe essere guardata con un certo sospetto e condizionata per quanto possibile sin dal suo apparire affinché almeno una parte di essa si stabilizzi in una tendenza sana e irreversibile.




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18/12/04