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Da tempo si
parla di “pensiero debole”, cioè da un tipo particolare di sapere
caratterizzato dal profondo ripensamento di tutte le nozioni che erano servite
da fondamento alla civiltà occidentale in ogni campo della cultura. Secondo
questa prospettiva i valori tradizionali sarebbero diventati tali solo a causa
di precise condizioni storiche che oggi non sussistono più; per questo motivo
deve essere messa in crisi la loro pretesa di verità.
A fondamento
del pensiero debole c’è l’idea che il pensiero non è in grado di conoscere
l’essere e quindi non può neppure individuare valori oggettivi e validi per tutti gli uomini.
Il maggiore
interprete di questa problematica in Italia
è il filosofo torinese Gianni Vattimo. Secondo Vattimo il compito
attuale della filosofia non è d’interrogarsi sulla verità, ma di portare alle
estreme conseguenze la crisi epocale che si è espressa attraverso il processo
di secolarizzazione.
Ogni cultura è
espressione di un processo che parte dall’assunzione delle domande fondamentali
che l’uomo si pone (sul senso dell’esistenza, sulla realtà e sul suo fondamento)
e poi traduce i giudizi formulati su tali questioni in una visione del mondo a
cui dà corpo incarnando tali giudizi in una civiltà per mezzo dei concreti
rapporti che gli uomini stabiliscono con la realtà: le religioni, le
istituzioni politiche e giuridiche, le arti, l’economia, le scienze, in una
parola tutte le manifestazioni concrete dell’agire umano sono espressioni
concrete e storiche, “incarnazioni” appunto, dei giudizi espressi sulle
questioni fondamentali; tali giudizi infatti non possono rimanere chiusi
nell’intelletto, ma diventano comportamento e gesto alimentando la
manifestazione esterna della cultura.
I molteplici
rapporti che vengono posti in essere dalla comunità di uomini in ogni tempo
storico possono essere ridotti a tre relazioni fondamentali:
1.
Il rapporto tra uomo e Dio
2.
Il rapporto che l’uomo istituisce con gli altri uomini
3.
Il rapporto tra uomo e mondo fisico
Nell’antichità
e nel medioevo la cultura occidentale è sostanzialmente realista, nel senso che
non mette in dubbio la capacità del pensiero di conoscere l’essere e su questo
fondamento edifica ogni conoscenza successiva.
La scoperta e
l’incontro con la verità dell’essere è possibile solo a patto che si realizzino
alcune condizioni; l’essere infatti non si concede in modo immediato alla presa
della ragione, perché il fondamento della verità non è concettuale, ma è
costituito dalla realtà stessa che si mostra donandosi.
In questo
mostrarsi dell’essere è racchiusa una richiesta che viene fatta all’uomo,
quella di porre il fondamento della propria conoscenza fuori di sé, in una
realtà che è stata trovata e che quindi non dipende nella sua struttura
ontologica dal pensiero e dalla volontà dell’uomo.
Perciò nella
ricerca della verità è fondamentale l’atteggiamento che guida l’attività conoscitiva,
se cioè si è disposti o non si è disposti ad accettare il fatto della
trascendenza dell’essere.
La
disposizione dell’uomo che accompagna la conoscenza si esprime come “stupore di fronte all’essere” o “sospetto di fronte all’essere”.
Lo stupore manifesta
l’assenso implicito della volontà di accogliere la realtà nella sua condizione
di evidenza trovata, è l’atteggiamento che assume la coscienza quando essa:
1.
accetta di essersi trovata come già posta insieme al resto
del mondo
2.
con una struttura e delle capacità determinate
3.
in una relazione originaria e costitutiva con la realtà
Lo stupore di
fronte all’essere è recta ratio. Qui l’uomo trova la sua grandezza che sta
nella capacità di riconoscere e accogliere la luce che risplende in lui senza
essere da lui.
In questa
situazione la ragione rivela la propria capacità di accogliere il senso delle
cose, capacità che, con un termine filosofico, possiamo definire metafisica.
La metafisica non
s’identifica con un sistema filosofico, essa si costituisce quando la ragione,
partendo da un evento sensibile perviene al suo significato sovrasensibile.
Così ad es. Platone nel Fedone presenta due diversi piani di risposta alla
domanda sul motivo della prigionia di Socrate: i filosofi naturalisti dicono che Socrate è in carcere perché ha un
corpo capace di camminare che gli ha permesso di recarvisi. Questa però è solo
la causa fisica della presenza di
Socrate in carcere, la causa vera è la volontà di bene di Socrate che lo induce
ad accettare la sentenza dell’autorità; tale causa non può essere percepita con
i sensi, i sensi percepiscono solo i suoi effetti, essa tuttavia non solo è
reale, ma è anche il senso profondo dell’avvenimento.
Quando l’uomo
riconosce l’esistenza di una natura e quindi di una verità dell’essere che lo
trascende è di fatto, per questo stesso riconoscimento, aperto a Dio come causa
dell’essere dell’uomo e del mondo.
Quando l’uomo invece
rifiuta il fatto di essersi trovato come posto e di essere, grazie alla propria
“natura” (participio futuro del verbo “nasci”
–nascere-; per cui il significato è “ciò che le cose sono capaci di essere e di
fare per nascita”) capace di cogliere il senso della realtà, compie di fatto
una scelta contro il fondamento, una scelta intimamente antireligiosa.
La chiusura verso l’essere diventa rifiuto, poi sospetto
e, talvolta, risentimento di fronte alla
natura.
Alla radice del
rifiuto della propria struttura ontologica c’è la rivendicazione di
un’autosufficienza assoluta.
Tale rivendicazione è
illusoria e illegittima; illusoria perché nessun uomo è causa del proprio
essere, illegittima perché la scelta di
accogliere l’evidenza o di negarla non ha lo stesso peso davanti alla coscienza
e quindi non è moralmente neutra.
Il processo di
secolarizzazione si avvia quando nel rapporto tra l’uomo e la realtà inizia ad
affermarsi l’opzione antireligiosa, che prende la forma del rifiuto di
riconoscere la strutturale apertura del pensiero all’essere e quindi del
rifiuto di cogliere attraverso la realtà sensibile il significato essenziale e
metastorico delle cose.
In altri termini
l’ateismo non si manifesta e non si sostanzia nella negazione della religione
rivelata, ma nella sua riduzione alla sfera del soggettivo e quindi
dell’opinabile conseguente alla rottura operata dalla modernità con la
metafisica.
La ragione sganciata
dall’essere non riesce e non può trovare un fondamento riconosciuto da tutti
perché essa stessa ha ridotto la verità
a opinione soggettiva.
Il primo esito del
pensiero secolarizzato e depotenziato è costituito dalle ideologie. Il
naufragio storico delle ideologie ha condotto al loro abbandono.
Anche qui tuttavia
ciò che è stato abbandonato è il contenuto dell’ideologia (la lotta di classe
come motore della storia, il superuomo…), non è stata invece abbandonata l’idea
della potenza senza regola della ragione, la ragione come possibilità infinita
di porre significati e valori: in ciò sta l’essenza dell’attuale nichilismo.
Il nichilismo è una
catastrofe culturale nel senso non solo di esito infausto e rovinoso, ma anche
di capovolgimento e negazione del significato stesso di cultura, esso presenta le caratteristiche
della non-cultura e dell’ anti-cultura.
La cultura infatti
non è mai eticamente neutra, il suo valore sta nella capacità di aiutare l’uomo
a diventare sé stesso, esprimendo le potenzialità presenti nella propria
natura; essa è quindi necessariamente in relazione con la verità su Dio,
sull’uomo e sul mondo.
L’essere dell’uomo infatti è teso verso il compimento, aspira al raggiungimento del bene che lo renda felice, quando si nega la possibilità di accesso razionale alla verità, si nega anche all’uomo la possibilità del compimento.
La catastrofe
culturale si colloca così all’origine della “catastrofe antropologica”.
Il pensiero debole
giustifica il rifiuto del riconoscimento come rifiuto di una presunta violenza
intrinseca alla natura stessa della verità. E’ vero: la verità è esigente
perché chiede adesione e accoglienza, ma la sua intransigenza non può diventare
il contenuto di un’imposizione perché senza il libero assenso della volontà non
ci può essere riconoscimento della verità. “Il
rapporto vero con la realtà è come un rapporto sponsale, al cui interno è un
non senso l’imposizione, perché è natura stessa di un tale rapporto l’essere
comunicazione integrale nella libertà…C’è da domandarsi se il timore
nichilistico per la verità non dipenda… da quell’atteggiamento dominativo che
non riesce a pensare il mondo se non come rapporto di forze e come fruizione
senza mistero.” ( Francesco Botturi, Dal
nichilismo all’ateismo, in Cultura e
libri, nn.48-49, 1989, pp. 43-53).
La storia ha
dimostrato che quando l’uomo abbandona il fondamento della verità il pensiero
depotenziato e secolarizzato ha prodotto le ideologie e con le ideologie i
gulag e la shoah.
Se questo è vero
quale sarà la carica di distruzione insita nel nichilismo?