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Presentazione del libro
“Aspetti in ombra delle legge sociale dell’Islam”
di Giovanni Cantoni
nel corso di un convegno che si è svolto a Roma il 24 novembre 2000

(sintesi della registrazione non rivista dal relatore)

Mi voglio collegare, prima di entrare nel merito di una qualche considerazione, ad un’affermazione fatta dall’onorevole Selva, il quale ha detto che viviamo di emergenze. Mi piace documentarvi da quando viviamo di emergenze. Nel 1982, diciotto anni fa, la Commissione demografica europea del Consiglio d’Europa diceva: «Da qualche anno, gradatamente, si è verificato un afflusso inatteso di stranieri. Questo andare è costituito da studenti,  lavoratori, ecc. Lo status è incerto e marginale; una tale presenza concentrata nelle grandi città può solo provocare tutta una serie di problemi dolorosi, che vanno dalla miseria e dallo sfruttamento alla criminalità e al razzismo».

Forse se questi documenti fossero stati presi in qualche considerazione preventiva, che è ciò che dovrebbe distinguere la politica dall’amministrazione, la politica potrebbe anche interessarsi di quello che può accadere, non soltanto di quello che sta accadendo.

A proposito dell’intervento del cardinale Biffi, che ha fatto tanto scalpore, nel 1988, dodici anni fa, la Pontificia commissione Justitia et Pax, a firma del cardinale Roger Etchegaray - evidentemente per il fatto che il cardinale era classificato di “sinistra” non ha fatto assolutamente scalpore – diceva che «spetta ai pubblici poteri, che sono responsabili del bene comune, di stabilire qual è la proporzione di profughi o immigrati che il loro paese è in grado di accogliere, tenuto conto delle possibilità di occupazione e delle sue prospettive di sviluppo; ma anche dell’urgenza dei bisogni degli altri popoli (…). Lo Stato deve garantire che non si creino situazioni di squilibrio sociali grave, accompagnate da fenomeni sociologici di rifiuto, che possano aver luogo quando la presenza di un gruppo troppo vasto di persone di un’altra cultura viene percepita come una diretta minaccia all’identità e alle abitudini della comunità locale». Mi sembra che sia lo stesso discorso che ha fatto il Cardinale Biffi. Niente di diverso, soltanto che è stato fatto dodici anni fa  e forse, se fosse stato preso in considerazione all’ora, anche l’oggi sarebbe visto meno drammaticamente.

Io non sono un islamologo. Mi sono interessato dell’Islam perché, vista la presenza sempre più significativa di soggetti provenienti dai paesi islamici e visto che questo è destinato ad essere non solo il presente ma anche un prevedibile futuro mi sono posto il problema di  chi sono questi signori. In altri termini, dovendo ospitare un estraneo ho chiesto referenze. Mi sembra una cosa normale.

Come, mi si potrebbe dire,  sei così malizioso da chiedere referenze? A chi? Ma a chi verrà ad abitare in casa mia. Gli chiedo chi è, quali precedenti ha, che caratteristiche ha… E ho scoperto, molto banalmente, che la descrizione corrente di questa realtà non è affidabile; cioè l’Islam viene descritto, per ragioni che non analizziamo e senza nessuna colpa dei musulmani, in un modo che non è affidabile. Qualcuno potrebbe pensare: come fai a dirlo? Non sei un islamologo. Ebbene, mi sono preso la letteratura corrente in Italia da un decennio a questa parte sull’argomento e più si sale, dal punto di vista dei soggetti scientificamente significativi, più si hanno certi tipi di informazione; più si scende, più questi tipi d’informazione scompaiono. Non sono soltanto ridotti; talora scompaiono, dove scomparire vuol dire questo: immaginate un’introduzione al cristianesimo dove su cento pagine ottanta sono dedicate a san Francesco e le altre venti a tutto il resto.

Ci sono almeno quattro punti che non vengono regolarmente presi in considerazione, o lo vengono in modo del tutto inadeguato. Di questi quattro punti mi si potrebbe fondatamente dire che sono variamente vissuti dai soggetti islamici. Ma si potrebbe anche dire che c’è un islam per ogni islamico.

Si tratta di quattro punti di cultura diffusa e assolutamente significativi, e se Tizio ci creda o che non ci creda, che lo pratichi o che non lo pratichi, vi rendete conto, il problema diventa di monitoraggio: persona per persona. Il primo tema riguarda il rapporto tra politica e religione.

Noi concepiamo il rapporto fra politica e religione innanzitutto come un rapporto tra Chiesa e Stato. E’ un fatto storico: nella nostra cultura questo rapporto – dal punto di vista della dottrina cattolica – è di distinzione, non di separazione e tanto meno di contrasto dialettico. Ma non è neppure un rapporto di confusione. Qualche volta, nello sforzo di raccontare com’è il mondo islamico, mi sento dire – e la gente dice -: 

«Insomma, come da noi nel medioevo». 

Nel modo più completo no! 

Per quanto nel medioevo potessimo immaginare interferenze (peraltro tutte da verificare) queste avvenivano comunque all’interno di una prospettiva di distinzione e questa distinzione non è una invenzione clericale ma si fonda sull’affermazione evangelica a tutti voi nota «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Badate bene, la prospettiva laica, o laicista, è semplicemente la secolarizzazione di questa prospettiva. È stato tolto di mezzo il Padreterno ma la prospettiva della distinzione tra questi due elementi rimane; quindi non è una invenzione dei laici, ma semplicemente l’applicazione, senza la sua ragion d’essere, della stessa distinzione, che cattolicamente funziona. 

Dal punto di vista islamico non esiste questa distinzione. La formula corrente dice che religione e Stato coincidono, quindi sono confusi. Non nel senso che non si capisce niente e sono radicalmente sovrapposti. L’unico modo per capire, noi viventi in questo mondo culturalmente determinato, è fare riferimento alla cosiddetta “teologia della liberazione”; dove i termini di politica e religione sono abbondantemente sovrapposti, se non coincidenti. Quindi non possiamo immaginare un discorso del tipo: «Esaminiamo l’Islam da un punto di vista religioso». Il professore di islamologia e storia medievale araba Muhamad Talbin, dell’Università di Tunisi, dice (anche se a lui non piace): l’Islam è una religione politica, e questo crea quella straordinaria difficoltà per cui il nostro uomo di chiesa che incontra il musulmano  dice: «Parliamo di religione», e dice al politico: «Non interferire nella religione» ma non è così; non è possibile. Non è possibile perché l’Islam è strutturalmente costruito secondo un’altra ottica. Il mio lavoro quindi che scopo ha? Lo dichiaro ancora ad abundantiam: quello di mettere i politici nella condizione di sapere dell’esistenza di problemi, che poi devono essere loro a risolvere. Io non faccio l’uomo che risolve i problemi ma semplicemente sono quello che mette in risalto l’esistenza di problemi.

Se noi trattiamo questi signori con una determinata ottica non li trattiamo nell’ottica corretta e qui è il secondo aspetto che desidero mettere in risalto.

Se diciamo: a ciascuno il suo; ovvero gli uomini di Chiesa affrontano il soggetto “Islam” dal punto di vista religioso e noi lo  affrontiamo  dal punto di vista politico, con chi parliamo? Uno dei più grandi islamologi italiani, di famiglia ebraica e vissuto negli anni Trenta, David Santillana, i cui testi vengono utilizzati nelle università musulmane, dice: «L’Islam è un colossale protestantesimo, rispetto al quale il più rigido dei protestantesimi è una religione organica e piena di rituale». È una delle frasi più illuminanti che mia stato dato di leggere.  Ciò significa che ci sono centinaia di milioni di persone che ricevono un testo e informazioni collegate al testo (il Coranno e la Sunna) ma non c’è nessuna autorità che possa dire: «Questo è così e questo è cosà». Non esiste insomma un interlocutore religioso. Esiste soltanto un interlocutore politico, il quale è però un gestore dell’esistente e non può assolutamente modificare niente e neppure interpretare, che è una cosa molto importante. Quando dunque si incontra l’Islam si incontra un soggetto che ha un deposito nei confronti del quale non può operare niente se non la sua conservazione. Qualcuno abbastanza correntemente pensa che noi possiamo risolvere il problema in diversi modi.

Tempo fa in un giornale di provincia si diceva: questi poveri musulmani che vengono da Paesi in cui il governo è fanatico ed estremista… Ebbene, non esistono. Badate bene: ogni uomo religioso, nella mia ottica, è un uomo che per principio mi riesce simpatico, perché almeno crede in qualcosa; ho qualche diffidenza in quelli che credono in niente o che dicono di non credere in niente, ma il quadro che abbiamo di fronte è che governi tendenzialmente laici, quando non laicisti, devono stare al gioco del consenso popolare che è invece il luogo della pratica integrale e immutabile di una determinata prospettiva. Da un punto di vista politico Saddam Hussein e il defunto Assad erano membri dello stesso partito, che aveva due sezioni: una in Iraq e l’altra in Siria; il partito Baath che è il partito della rinascita socialista islamica (in senso tecnico: nazionalsocialista), che però devono comportarsi in pubblico in un certo modo e che hanno dovuto mantenere nelle rispettive costituzioni l’articolo secondo il quale il capo dello Stato deve essere un musulmano, altrimenti non se la sarebbero cavata col loro consenso popolare. Ci sono i dissidenti, che però il governo protegge dal popolo con armati davanti alla porta della casa “blindata”.

Non c’è un’autorità, quindi; come sanno perfettamente gli uomini del mondo ecclesiastico. Quando si parla di dialogo islamico cristiano come minimo diciamo una imprecisione. Si sta infatti parlando con quel musulmano e basta, che non è in grado neppure di impegnarsi per conto di sua moglie.

In questa mentalità le altre religioni che spazio hanno? Hanno uno spazio molto precisamente definito. Innanzitutto la conquista del potere è causa (non condizione) della santificazione dei cittadini. Che ci sia uno stato in cui certe cose non siano ammesse per noi cattolici è una condizione non favorevole ma non si va in Paradiso con i Carabinieri; non è insomma grazie all’autorità o alla forza pubblica che ci si va. È invece determinante per l’Islam la conquista dello Stato e lo stato islamico prevede che i musulmani siano i cittadini di prima categoria e con piena cittadinanza mentre ebrei, cristiani ed equiparati sono cittadini di seconda categoria con cittadinanza non piena. Da qui in avanti non ci sono altre ipotesi. Nell’unico Corano pubblicato da alte autorità islamiche (anche se è un termine difficile da usare) si distingue con molta precisione: ai musulmani la politica, agli altri l’amministrazione. Capite quindi l’orizzonte: una versione dimezzata e comunque ridotta. In questa versione ridotta c’è una unica possibilità unidirezionale: passare dalla non religione: ebraismo, cristianesimo o altro,  all’Islam e non il ritorno. Per il ritorno è prevista la pena di morte. Si potrà anche dire che non è applicato ma l’articolo 126 comma 2 del codice penale della Repubblica del Sudan del 1991 si dice: «Chi commette il delitto di apostasia è invitato a pentirsi in un tempo determinato dal tribunale. Se persiste nell’apostasia e non si è convertito di recente all’Islam sarà punito con la morte». Il Codice penale della Repubblica islamica di Mauritania del 1984 all’articolo 306 prevede la stessa pena, estesa - nel medesimo articolo a -: «Ogni musulmano maggiorenne che rifiuta di pregare pur riconoscendo l’obbligo della preghiera». Io non sono andato a vedere se viene applicato o no ma, come si dice, i codici dicono l’intenzione di una società.  Inoltre badate: chi è in grado di far rispettare questa legge? Qualunque musulmano, anche all’estero. La Repubblica francese ha chiesto ai musulmani da lei nominati come rappresentanti dell’Islam  (li ha dovuti scegliere ope legis perché tra loro non riuscivano a mettersi d’accordo) di dichiarare che queste leggi non valevano in Francia e si è scatenata la rivolta. Questo è avvenuto lo scorso anno e non nel 1600.

Un ultimo punto è ancor più delicato. 

In una edizione corrente del Corano, in vendita in tutti i centri islamici a novemilanovecento lire, scritta da persone islamiche  ed edita da Newton & Kompton, alla Sura ottava si legge: «In quanto ad  Allah non ci sono bestie peggiori di coloro che sono  miscredenti e che non crederanno mai; coloro con i quali stipulasti un patto e continuamente lo violano e non sono timorati di Allah. Se quindi li incontri in guerra sbaragliali facendone un esempio per quelli che li seguono, affinché riflettano. E  se veramente temi il tradimento da parte di un popolo denunciane l’alleanza in tutta lealtà che veramente Allah non ama i traditori e non credano di vincere, i miscredenti; non potranno ridurci all’impotenza. Preparate contro di loro tutte le forze che potrete raccogliere e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora, che non conoscete ma che Allah conosce. Tutto quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non sarete danneggiati». 

Nota a piè di pagina al versetto che recita «Preparate contro di loro tutte le forze che potrete raccogliere e i cavalli addestrati per terrorizzare il nemico ... » si dice: «Il Corano teorizza chiaramente il valore della deterrenza».