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Nel cuore di
Trastevere, tra pizzerie e ristorantini turistici, in una ex bisca
riattata a centro teatrale, nella sala Raabe, via A. Bertani 22, ramo di
piazza Cosimato, vive e pulsa un'autentica sirena.
Ha occhi spiritati, un naso adunco e nervoso, una voce incredibile che
rievoca un po' Cathy Berberian nella sua possanza e dismisura. Si chiama
Monica Giovinazzi, un albatros inquieto e indipendente. Tiene corsi con
laboratori e stages spesso in sinergia con dipartimenti
universitari. Si offre ad un gruppo di allievi privilegiati che la
adorano. Li addestra a leggere in un testo le curve melodiche, i picchi e
le atonìe. Li rafforza nel respiro, li affina ad usare le corde vocali
con competenza di fonologa e di ginnasta della phonè. Li timbra, alla
lettera,a vibrare in incanti tonali, in fonie affacciate anche su altre
etnie. Insomma, studia e insegna ricerca e comunicazione. Prepara eventi
che chiama pezzi di artigianato, maniacali nel perfezionismo. Ogni tanto
si inerpica da sola per performances eccentriche, di cui cura la
partitura, a scavalco tra recitazione, canto e danza. Tra i titoli più
recenti, Un corpo geometrico - la donna a pezzi nella pubblicità;
Karusell - bambini nella giostra di desideri adulti; Medea's sauce - una
donna borderline di 50 anni; Rischio di fogna urbana - topi in convivenza
coatta nella metropoli meteca. Quel che la caratterizza è l'arte della
sottrazione, la forbice metaforica con cui taglia il superfluo. E' molto
magra, appunto. Si muove coll'eleganza e la sontuosa leggerezza di una
zingara regale. L'evento scenico per lei è pretesto e occasione per
indagare la realtà monitorando gli argomenti in testi scarnificati e
ritmati, adeguando fisicità e sonorità, travasati in tessuti
plurilinguistici. Ha dimestichezza con lessici vari, infatti, specie
l'area tedesca, frequentata assieme ad Antonio, il marito con cui
mette al mondo ogni tanto figli, allievo a suo tempo del germanista Paolo
Chiarini. Indifferente alla visibilità e alla concorrenza da mercato, non
sgomita inseguendo carriere e accessi nel bazar promozionale. Ma ha
carisma da vendere, e il fatto che il nostro palcoscenico la conosca
poco depone male sui gusti e sui valori in auge in quest'ultimo.
Io ho avuto la fortuna di incrociarla due anni fa, durante un mio
laboratorio di drammaturgia a Sant'Arcangelo. L'ho scorta all'improvviso,
mentre emetteva rantoli e squittii, colla voce che le si schiudeva, le
scivolava fuori con una grazia disarmante. L'aria intorno pareva
elettrica, e la luce raddoppiata. Le ho proposto allora la mia Medea, uno
dei monologhi antichi rivissuti nel quotidiano d'oggi, emblemi
dell'assedio telematico e del disagio contemporaneo. Archetipo
fecondo, Medea, capace di attraversare reiterate traduzioni drammaturgiche,
musicali, pittoriche, da Niccolini a Cherubini, da Grillparzer
a Legouvé, da Alvaro ad Anouilh, da Delacroix a Moreau.
Con me Medea diviene una lettrice di tarocchi in una tv privata, una
bulgara cipigliosa e aggressiva, in difficoltà col nostro idioma,
inciampando di continuo in un veneto mal assimilato, timorosa d'essere
lasciata dal compagno Giasone, convocato a una rete Mediaset a esportare
il programma senza di lei. Una Medea fiera della propria audience, una
Vanna Marchi esotica e buffonesca, intenta a divinare su tradimenti
d'amore e bisogno di lavoro con malcapitati e ingenui clienti.
Chiromante da strapazzo, dunque, misto di analista e di prete, richiesta
dal pubblico personale, cui riversa "l'energia prodigiosa"
del suo cervello, storpiando vocabolari e formule magiche. Una delle
tante, che si incontrano nei canali minori. Un monologo molto scritto, il
mio, l'anno scorso al debutto scenico nel festival estivo di Radicondoli,
dove una ieratica e spigliata Emanuela Villagrossi discettava tra carte e
video che ne doppiavano l'immagine.
Monica procede in tutt'altro modo. Gli spettatori avanzano nel suo
sacello, reggendo in mano una candela accesa, consegnata loro da severi
guardiani all'ingresso, assieme al biglietto. Invitati poi ad avvicinarsi
in un secondo spazio, a posare a terra la candela, si trovano
davanti ad un altare, circondato dalle piccole faci, e in alto perimetrata
da rose fresche pendenti, entro un limen cimiteriale, appare lei, icona
enorme issata sopra un rialzo. Monica sta immobile, elevata a statua
barocca. Abituata a volteggiare col
suo corpo elastico e smanioso di guizzi e balzi, stavolta si mostra
raggelata e ingombrata da un'immenso chimono dorato, bardato da ricami e
da ex voto appesi su riquadri sopra la stoffa. Un patchwork da presepe
spagnolo, che la appesantisce, che la rende Madonna bizantina e raggiante
Evita Peròn. In quel momento si capisce meglio il lenzuolo
sanguinante che annuncia lo spettacolo fuori, davanti all'ingresso del
teatrino, per le valenze luttuose e sacrificali. Sulla fronte, tiene un
giocattolo fosforescente che frigge ogni tanto ronzando una suoneria
carillon, da playgame infantile. E in questa posa statuaria, ogni tanto
sposta le braccia a fendere l'aria, a girarsi con piccoli scatti,
lanciando poche battute dal vivo, ansanti leitmotives, sul ritardo di
Giasone, sul suo cellulare spento, e sillabando melopee e giochi
virtuosistici sull'omen amato e maledetto. Il tutto spalmato tra
gargarismi altezzosi e sprezzanti, guaiti e vocalizzi, crescendo sincopati
da macchina fonematica autonoma, che prega e inveisce, mescolando pointes
da soprano ottocentesco, accenni di arie liriche con singulti e spezzature
rauche. Intanto, in un angolo della saletta il mio testo registrato colla
sua voce su moduli prosaici esce, come un radiodramma disturbato o male
sintonizzato. La serie delle consulenze secondo il mio copione
viene così snocciolata a mo' di litania distratta e meccanica,
alternandosi e sovrapponendosi colla ieratica presenza viva. Il veneto che
fungeva nel mio play da connettivo tra brandelli di altri dizionari trova
nel tedesco il suo naturale sostituto. Monica annaspa per un'ora che
vola via rapida e maliosa, spezzandosi tra la fonte sonora in play
back, ovvero la lettura per telefono e in diretta dei destini decifrati
grazie ai tarocchi, e il monumento di sé numinoso, nel senso etimologico
di gesto al risparmio ed essenziale, una Santa Teresa in estasi doppiata
da manierismi alla Klimt. Divisa, in una parola, come i modelli orientali
del Bunraku, tra corpo che canta e parola registrata che racconta, questa
Medea libera una quidditas misteriosa e ridicolosa, grande metafora della
maga imbottigliata nel piccolo schermo, qui assurto allo splendore di
altare. Perché, dietro l'apparente enigmaticità onirica della posa, sta
la fulminante allusione al sacro ripiegato nella cornice televisiva, dove
la donna giganteggia in Olimpi politeisti e provvisori.
E nel frattempo, dal sottotesto, rispunta di nuovo l'antica diversità
della magalda euripidea, datata oltre 2430 anni fa, la figlia del
Sole, capace di immolare i figli per dispetto, rinunciando alla
reintegrazione nella normalità. E la simulazione di occultismo da luna
park, da Sik Sik artefice mago di quartiere, riacquista tutto il suo côté
fantastico, nell'ambivalenza coniata da Todorov tra strano e meraviglioso.
La reggia di Corinto trasformata da me nell'infernale piccolo schermo che
decide governi e regola vita e morte dei sudditi-spettatori, ridiviene
auratico pharmakos finale, mentre la Medea di Monica si accascia e
si spegne dopo aver divelto la selva delle rose. Il telecomando ha
interrotto, in fondo, la bella performance. |
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