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Lentamente muore chi diventa schiavo
dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non
conosce.
Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli
sensati.
Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge,
chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia
aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia
incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde
quando gli
chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.
Pablo Neruda
.:[Ringraziamenti]:.
Grazie a tutti coloro che si stanno
adoperando per arricchire i contenuti di questo sito con notizie, foto
e documenti.
Articoli
Identikit di una classe sociale che l'Italia aveva
dimenticato
di Sandro Mangiaterra
22/11/2002
La
crisi Fiat li ha riportati in piazza. Ma non erano spariti. Solo cambiati:
adesso lavorano nelle piccole imprese, hanno il camice bianco, stanno
persino nella new economy. Che cosa li accomuna? Il basso reddito,
l'esclusione dai processi decisionali e, ora, la precarietà
Sono passati trent'anni esatti e la classe operaia è sempre lì che
lotta per andare in Paradiso. Il paradosso retorico del film di Elio
Petri funziona, eccome, anche in questo autunno 2002 caldo che più caldo
non si può.
Chiedetelo ai 1.800 di Termini Imerese, quale Paradiso hai davanti quando
ti ritrovi, come la maggior parte di loro, ultracinquantenne, metà della
vita passata a costruire automobili, magari con moglie e figli grandicelli
sul groppone, a dovere fare i conti con l'ipotesi di chiusura della
fabbrica. Che fai? Scioperi, presidi i cancelli, blocchi lo Stretto di
Messina. Insomma, scendi in piazza e rispolveri slogan del passato,
nella speranza che qualcuno ti aiuti. Si chiami Giovanni Agnelli,
General Motors, Toyota. O Silvio Berlusconi, Antonio Marzano, Roberto
Maroni o qualunque altro nome porti qualunque altro politico di qualunque
colore.
E così gli italiani, chi fregandosi le mani per l'improvviso rigurgito di
lotta di classe, chi indignandosi per i disagi prodotti dai manifestanti,
hanno fatto una scoperta sconcertante. Che gli operai, pensa un po', ci
sono ancora. Erano finiti nel dimenticatoio. In molti pensavano
addirittura che fossero, se non proprio spariti, una razza in via
d'estinzione. Invece, eccoli lì. Pure con l'antico armamentario al
seguito. Tipo: «Il posto di lavoro non si tocca» e «Giù le mani dal
salario».
«Penso ci sia stato un pregiudizio ideologico» spiega Pietro Larizza,
un passato da leader della Uil, oggi presidente del Cnel: «Per almeno un
decennio si sono associati gli operai alle lotte operaie. Risultato:
nessuno ha più parlato di loro, della loro condizione, dei loro problemi».
Ci voleva la crisi Fiat per riportarli d'attualità, per fare riguadagnare
loro le prime pagine dei giornali. Eppure, la tanto sbandierata
terziarizzazione del Paese non li aveva mica cancellati.
Anzi. I numeri indicano che sono tanti quanti nei primi anni Novanta:
oltre 7 milioni, un terzo della forza lavoro complessiva, percentuale
che scende al 27,5 per cento in Lazio e sale, sorprendentemente, al 42,9
in Basilicata (cartina geografica a pagina 42). In altre parole, un
italiano su tre ha in tasca la carta d'identità con sopra scritto:
«Professione, operaio».
Che cosa è successo, allora? «Semplice: che nel frattempo sono cambiati. E
forse per questo si fa maggiore fatica a capirli e a raccontarli» risponde
il sociologo del lavoro Luciano Gallino, uno che di trasformazioni se ne
intende, se non altro per averle osservate e studiate nella sua Torino.
L'analisi
è presto fatta. Primo, sono sempre di meno i grandi gruppi.
I nuvoloni neri che avvolgono la Fiat e il settore auto vengono dopo i
tracolli della siderurgia, della chimica, dell'elettronica, che hanno
smontato colossi del calibro di Finsider, Montedison e Olivetti.
«Ma i lavoratori non sono spariti nel nulla» sottolinea Antonio Panzeri,
segretario della Camera del lavoro di Milano. «Piuttosto, sono stati
riassorbiti dalla miriade di piccole aziende. Basti pensare che il 92 per
cento del tessuto produttivo della Lombardia è attualmente costituito da
imprese con meno di 10 addetti». Secondo, molti nuovi mestieri, si pensi agli operatori dei call center
e dei numeri verdi, sono assimilabili per ripetitività, ritmi e reddito a
mansioni di tipo operaio. Come dire che uno pensa di stare nella new
economy e invece, anche se è davanti a un computer, rimane nella old, e
che old.
Terzo, i cosiddetti «atipici». «Quanti dei 2 milioni di "co.co.co"
(collaboratori coordinati e continuativi, ndr) e dei 300 mila interinali
sono di fatto, ancora una volta senza saperlo, operai?» si domanda
Giovanna Altieri, direttrice dell'Ires, l'istituto di ricerca della
Cgil. E la preoccupazione, ovviamente, arriva a investire le
organizzazioni sindacali, fino a ieri messe a dura prova dai megacapannoni
abbandonati e dalla parcellizzazione degli interessi degli iscritti e ora
pure dal moltiplicarsi delle forme contrattuali.
Risultato: al di là di Termini Imerese e del caso Fiat, dove la posta in
gioco sembra davvero essere la sopravvivenza, rimangono sempre meno catene
di montaggio e tute blu mentre al loro posto spuntano camici bianchi. Si
incontrano ragazzi giovani (l'età media è di 37 anni) e che hanno studiato
(circa il 30 per cento a livello nazionale ha il diploma di scuola media
superiore, dato che sfiora il 50 per cento al Nord) seduti davanti ai
computer, con l'incarico di controllare macchinari superautomatizzati.
Gente che non ha alcuna paura di orari e forme contrattuali flessibili.
E a trovarle, queste moderne figure professionali... Secondo il
Rapporto sul mercato del lavoro 1997-2001, pubblicato giovedì 21 novembre
dal Cnel, il 55,3 per cento degli imprenditori prevede grossi problemi in
tal senso. Chiedetelo a Mario Cedolini, dell'Unione industriali di
Treviso: «Prima abbiamo assorbito l'intera manodopera locale, poi sono
stati reclutati migliaia di ex emigrati rientrati in Veneto, adesso ben
vengano gli extracomunitari». Un altro fattore di novità, non c'è dubbio:
gli extracomunitari occupati regolarmente oscillano tra 800 mila e 1
milione 200 mila e oggi rappresentano il 10 per cento delle nuove
assunzioni.
Cambiati, dunque, non spariti. Ma se gli operai esistono, è ancora
possibile parlare di classe operaia? «Max Weber sosteneva che a
caratterizzare una classe sociale è la comunità di destino» ricorda
Gallino. «Bene, mi pare proprio di poter affermare che questi 7
milioni e rotti di persone, pur con mille diversità fra loro, un destino
comune ce l'abbiano». A delinearlo pensa Maurizio Zipponi, appena eletto
segretario della Fiom-Cgil di Milano, autore di un volumetto
dall'emblematico titolo Ci siamo (Mursia). «Tutti» parte all'attacco
Zipponi «sono completamente esclusi da ogni processo decisionale. E poco
importa se a comandare siano gli Agnelli o i manager di una public company
o il classico padroncino. Poi c'è la situazione di precarietà costante,
con il posto perennemente in bilico a seconda della congiuntura economica
nazionale o internazionale. Infine, la busta paga, che regolarmente è di
poche migliaia di euro».
Già, la busta paga. Con i suoi 2.500 euro netti mensili, peraltro
frutto anche dell'impiego della moglie, Andrea Angioletti, il tecnico
elettromeccanico dell'hinterland milanese le cui foto accompagnano questo
servizio, deve stare come minimo attento quando mette mano al portafoglio.
Secondo l'Istat, la spesa media delle famiglie operaie del Nord-Ovest nel
2000 era di 4 milioni 669 mila lire. Calcoli alla mano, ci siamo:
Angioletti non si farà mancare niente, ma non sguazza certo nell'oro.
Quanto a risparmiare, meglio lasciar perdere.
Ma non c'è da stupirsi: l'Assolombarda calcola che la retribuzione media
lorda annuale (tabella a pagina 44) degli occupati di basso profilo sia
inferiore a 20 mila euro. Somma che, stando alla ricerca La giusta paga,
condotta dalla Cgil, scende a 17.649 euro per gli operai del Sud. Come si
riesce a vivere? Tirando la cinghia, naturale. Ancora l'Istat: le famiglie
operaie spendono grosso modo l'identica cifra delle altre per mangiare e
la metà su tutto il resto, riscaldamento compreso. Duro mantenere la dignità, fare studiare i figli, perché no, concedersi
una bella vacanza. E duro resistere alla tentazione di paralizzare le
autostrade, le ferrovie, i porti, quando scoppia un bubbone come quello
della Fiat e il tuo piccolo e malpagato posto è in pericolo.
Et voilà, l'Italia riscopre all'improvviso, oltre alla classe operaia,
la lotta di classe. «Di questa, davvero, ci si era dimenticati» scuote la
testa Larizza. Che inanella, uno dopo l'altro, gli accordi che hanno
mandato in soffitta la scala mobile, sulla politica dei redditi e sulla
concertazione. Roba da primi anni Novanta. Sembra un secolo. «Era come
avere detto alle tute blu: tranquilli, alla difesa del salario non dovete
più pensare voi.
Se ne occupa il governo, ce ne occupiamo insieme, impegnandoci contro
l'inflazione» continua Larizza con parole quasi da vecchio saggio, rivolte
tanto ai politici e agli industriali quanto a Sergio Cofferati. «Vogliamo
proprio ripiombare nella conflittualità di classe?».
Forse bisognerebbe tornare a interessarsi di più degli operai.