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Lentamente muore chi diventa schiavo
dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non
conosce.
Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul
lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli
sensati.
Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge,
chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia
aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia
incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde
quando gli
chiedono qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di
respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida
felicità.
Pablo Neruda
.:[Ringraziamenti]:.
Grazie a tutti coloro che si stanno
adoperando per arricchire i contenuti di questo sito con notizie, foto
e documenti.
Articoli
Anatomia di una crisi
Il bilancio degli errori
Tutto si può dire della crisi Fiat, ma non che fosse imprevedibile. Non
è una delle ricorrenti crisi dell'auto, magari più violenta delle
precedenti, ma un declino avviatosi da tempo, e aggravato dal susseguirsi
di scelte gestionali sbagliate. Lo conferma l'andamento del titolo in
Borsa: come mostra chiaramente il grafico, a partire dal 1995,
inesorabilmente, anno dopo anno, Fiat perde terreno rispetto all'indice
del mercato europeo; complessivamente, l'80%.
UNA CRISI ANNUNCIATA - La categoria più beneficiata dalla crisi Fiat è
quella dei giornalisti e commentatori economici. Per raccontarla basta
recuperare articoli già scritti. Alla fine del '99, ancora in piena
euforia, i segni del declino e i possibili rimedi erano evidenti. Col
titolo «Fiat? Vale un quinto di Telecom e rende meno di un Bot», scriveva
il Corriere (12 dicembre 1999): «Le auto sono un bene maturo; la loro
domanda cresce poco. Inoltre più del 50% delle vendite Fiat è concentrato
in Italia e Brasile, che non hanno brillanti prospettive economiche...».
«...Il settore è anche molto concorrenziale. E la concorrenza è destinata
ad aumentare in Europa: la moneta unica ha eliminato le svalutazioni
competitive; verrà abolito il contingentamento delle auto giapponesi; e il
sistema dei concessionari esclusivi sarà temperato. Lo scenario non è
roseo particolarmente per la Fiat che opera con pochi modelli,
prevalentemente di fascia bassa. Con queste prospettive le fusioni
diventano inevitabili per tagliare i costi; diversificare geograficamente
le aree di vendita; acquisire marchi e nicchie di mercato; e raggiungere
rapidamente le dimensioni necessarie per sostenere l'onere elevato dello
sviluppo di nuovi prodotti. La famiglia Agnelli controlla la Fiat con
circa il 30% del capitale. Presto si troverà a un bivio: immettere nuove
risorse nel settore automobilistico, mantenendone il controllo; oppure
uscirne, per investire in settori più promettenti. Ma Fiat non è
un'azienda come le altre: sarebbe indelicato parlare di "vendita".
Prepariamoci, dunque, a una più digeribile "alleanza strategica"». Che,
puntualmente, arriva. Anche se di vendita si tratta, come dimostra
l'opzione put per la totalità del capitale che la Fiat ottiene da General
Motors (Gm). Sempre sul Corriere , il 14 marzo 2000: «Per gli Agnelli,
sarebbe stato meglio vendere tutto subito, liberando risorse da investire
in altri settori. Così rimarranno vincolati alle fortune dell'auto ancora
per diversi anni. L'indecisione può costare cara». Appunto. Il prezzo che
Gm ha pagato per il 20% di Fiat Auto corrispondeva a una valutazione di 12
miliardi di euro per l'intera società. Oggi, probabilmente, Fiat sarebbe
felice a vendere l'auto al valore simbolico di 1 euro, con qualche
miliardo di debiti in dote. Senza contare che l'opzione al 2004 complica
la trattativa, ostacolando la ricerca di altri compratori, e concedendo
alla società americana tempo prezioso (le difficoltà di Fiat giocano a suo
favore). Ma non è questo l'errore più grave.
NON SOLO DEBITI E AUTO - Ancora dal Corriere (9 giugno 2002): «Fiat non è
solo debiti e auto: è un vasto conglomerato, privo di stringente logica
industriale; con diverse imprese redditizie, ma poco sinergiche, e quasi
mai leader nei rispettivi settori. Il risanamento non dovrebbe affrontare
solo la crisi di oggi, ma invertire il declino del gruppo. Si dovrebbero
vendere le attività meno sinergiche (servizi e finanza), quelle con le
peggiori prospettive, e quelle che la Borsa valuta con i multipli più
bassi. E puntare alla leadership in pochi settori, ricorrendo a
dismissioni e cartolarizzazioni per eliminare il debito. Invece,
diversificazione e indebitamento hanno subito un'accelerazione dal 1999
(sotto la nuova presidenza di Paolo Fresco), con l'acquisto di Case,
Kobelco e Pico per 7 miliardi. Fiat ha poi speso 1 miliardo per ritirare
dal mercato Magneti Marelli, Toro e Comau lanciando altrettante Opa con la
Borsa ai massimi; e nel luglio 2001 è entrata nel settore elettrico con la
scalata a Edison, pur non avendo le risorse necessarie». Dopo l'11
settembre la crisi diventa evidente. Nel dicembre 2001, Fiat lancia un
«piano di ristrutturazione con riorganizzazione del settore auto (e
sostituzione del vertice), aumento di capitale da 1 miliardo, e prestito
convertibile da 2,5 (ipotecando di fatto il ricavato in azioni della
vendita del 20% di Fiat Auto a Gm). Ma sarebbe più saggio accelerare
l'uscita dall'auto, invece di bruciare altre risorse, e rischiare di dover
vendere domani a condizioni peggiori». Ancora una volta non si ha il
coraggio di pronunciare la parola dismissioni; e si continua a dichiarare
che Fiat rimarrà un conglomerato, con dentro l'auto.
IL PIANO DI RISANAMENTO - Dopo soli sei mesi, altra crisi e altro piano.
L'amministratore delegato Cantarella si dimette (con una liquidazione da
20 milioni). Questa volta le banche che partecipano al risanamento
chiedono alla Fiat di vendere circa 3,5 miliardi di attività (ma le danno
una mano rilevando il 14% di Italenergia a un prezzo generoso, e contando
come dismissione un finanziamento garantito da un put sul rimanente
24,6%); consolidano 3 miliardi di debiti a breve fino al 2005 (dopo che la
Fiat avrà potuto esercitare l'opzione di vendere alla Gm), col diritto di
convertire il credito in azioni se Fiat non avrà rispettato gli obiettivi
del piano; rilevano il 51% della società di credito al consumo Fidis
permettendo a Fiat di deconsolidarne il debito. L'intervento è
finanziario, mirato a impedire un'immediata crisi di liquidità e a evitare
il declassamento di Fiat, dandole il tempo di esercitare la put verso Gm,
alla fine del 2004.
Fiat non è sull'orlo del fallimento. Il dissesto riguarda solo l'auto. In
Borsa, l'intero capitale vale oggi 4,7 miliardi di euro: un valore che
presumibilmente incorpora l'uscita dall'auto entro il 2005. Nella
difficile congiuntura del primo semestre di quest'anno, le attività
industriali, auto esclusa, (aviazione, macchine agricole e per
costruzioni, autocarri, automazione, servizi per le imprese,
componentistica) hanno prodotto circa 30 miliardi di ricavi e 600 milioni
di risultato operativo (dati annualizzati). Ai parametri europei del
settore (25% del fatturato o 11 volte gli utili prima di imposte e oneri
finanziari) valgono circa 7 miliardi. Ci sono poi altri 7 miliardi di
partecipazioni (valutando Italenergia, Fidis e Ferrari al valore delle
transazioni con le banche; Toro a 0,7 il valore di libro, in linea con i
parametri di mercato; le società quotate, ai prezzi di Borsa; e le joint
venture con Gm, a sconto del 20% sul prezzo di carico); 3,5 miliardi di
attività liquide; e 18,7 miliardi di crediti finanziari, ipotizzando che
valgano l'80% del loro valore nominale (inclusi i crediti Fidis).
Immaginando che l'auto sia ceduta a costo zero, il totale delle attività è
36,2 miliardi di euro. Ma Fiat è pur sempre un marchio forte, con l'8% del
mercato automobilistico europeo (e il 25% di quello italiano): anche ai
risicati multipli del settore (25% il fatturato) fanno 6 miliardi. Dedotte
le potenziali perdite di qui al 2005 (cautelativamente 2,5 miliardi), per
il rimanente 80% di Fiat Auto Gm dovrebbe essere disposta ad accollarsi
almeno 2 miliardi di debiti; che porterebbero a 31 (incluso Fidis)
l'indebitamento totale. Sottraendo i debiti al totale delle attività, il
capitale è di 5,2 miliardi: una stima vicina alla valutazione espressa
dalla Borsa; e che rappresenta l'attuale aspettativa del valore della
società per gli azionisti a risanamento compiuto. Dimostra come una
soluzione di mercato (senza intervento dello Stato) non solo sia
possibile, ma sia anche ritenuta probabile.
Perché lo scenario configurato dalla Borsa si realizzi, Fiat deve però
aderire al piano di rientro dei debiti e tagliare rapidamente i costi
(impossibile agire sui ricavi in tempi brevi) per evitare che le perdite
dell'auto brucino la cassa, e non si arrivi a fine 2004 (dato che Gm non
ha interesse ad anticipare i tempi, visto che la sua posizione negoziale
può solo migliorare). Fiat dovrebbe rispettare con facilità il primo
vincolo sui debiti: le operazioni già concluse (Italenergia, Fidis,
Ferrari, Teksid) e quelle plausibili (Comau) sono sufficienti. Più
difficile il taglio dei costi, che passa necessariamente per un forte
ridimensionamento della capacità produttiva: non si possono produrre auto
che nessuno vuole comprare. Fiat, quindi, ricorre al sistema degli
ammortizzatori sociali.
ENTRA IN SCENA IL GOVERNO - Il governo promette di intervenire. Ma teme
che la Fiat voglia scaricare i costi del risanamento sullo Stato. Costi
aggravati da un sistema di ammortizzatori sociali (cassa integrazione
straordinaria e trattamento di mobilità) iniquo, inefficiente e costoso:
iniquo perché è accessibile solo alle grandi imprese; inefficiente perché
non aiuta il disoccupato a trovare un nuovo lavoro, tenendolo per anni
legato al posto precedente, anche se le prospettive di riaverlo sono
minime; e costoso perché scarica sulla finanza pubblica anche l'onere
degli errori del management. La polemica è fondata, in linea di principio.
Ma francamente non è colpa di Fiat se i vari governi, di sinistra e di
destra, per non toccare la previdenza - l'unico capitolo di spesa che
potrebbe fornire le risorse finanziarie necessarie a farlo - non hanno mai
riformato gli ammortizzatori sociali.
Come contropartita a eventuali aiuti, il governo ha ventilato una
partecipazione diretta al processo di ristrutturazione, attraverso
l'ingresso di una società pubblica nel capitale di Fiat Auto (sulla scorta
di quanto stanno facendo Francia e Germania con France Telecom e Mobilcom),
possibilmente insieme a Gm e alle banche; e a un impegno diretto degli
azionisti. L'idea di un ingresso diretto dello Stato nel capitale della
società automobilistica è inopportuna e inutile. Sostiene Fazio che «lo
Stato non fa peccato» se interviene in una ristrutturazione. Forse si è
dimenticato di aggiungere che l'azienda deve essere fallita: in questo
caso, il mercato potrebbe solo proporre la liquidazione. Ma il gruppo Fiat
non è fallito, tutt’altro, come dimostrano i numeri e la Borsa. Questa
crisi può e deve trovare una soluzione di mercato: banche e azionisti che
negoziano liberamente la divisione dell'onere del risanamento, e la
spartizione dei benefici in caso di successo, visto che ci sono le risorse
per farlo.
Nel piano predisposto dalle banche, queste si accollano una parte notevole
del rischio di ristrutturazione: se Fiat, grazie al piano, riuscirà ad
arrivare al 2005 senza perdere cassa, potrà disfarsi dell'auto, e gli
azionisti si ritroveranno con un'azienda redditizia, sempre controllata
dalle holding Ifil e Ifi degli Agnelli, senza aver investito una lira per
risanarla (proprio mentre Ifil trova i soldi per lanciare un'Opa su
Rinascente); se non ce la farà, il controllo del gruppo passerà dagli
azionisti ai creditori, che si troverebbero tra le mani un'azienda in
difficoltà, di poco valore, e pagata cara (ai prezzi di oggi, circa 12
euro contro gli 8,8 di Borsa). Una ristrutturazione, dunque, vantaggiosa
per gli azionisti. Ma questi sono affari delle banche.
Il piano del governo costringerebbe le banche ad accollarsi ancora più
rischio, facendo convertire subito i loro crediti verso il gruppo Fiat
(garantiti da un capitale di 4,7 miliardi) in azioni di una società
automobilistica che vale poco o nulla (e deve sopportare ancora perdite).
Inoltre, lo Stato, con il suo intervento non apporterebbe né competenze
specifiche nella valutazione dei rischi, né professionalità manageriali
per il rilancio di società.
L'ULTIMO CAPITOLO - In tutto questo dibattito, e nell'urgenza di
intervenire sull'auto, ci si è dimenticati che il declino del gruppo ha
cause più profonde. Fiat è un conglomerato privo di logica industriale, a
bassa redditività; con un'azionista di controllo (le holding Ifil e Ifi)
che è a sua volta un conglomerato. Per quello che ci è dato di capire, il
gruppo rimarrà tale anche dopo l'uscita dall'auto, indipendentemente dal
piano di risanamento che verrà adottato.