Te
lo dice una che quel tipo di fanatismo lo ha
conosciuto abbastanza bene in Iran, in Pakistan, in
Bangladesh, in Arabia Saudita, in Kuwait, in Libia, in
Giordania, in Libano, e a casa sua. Cioè in Italia.
Lo ha conosciuto, ed anche attraverso episodi
triviali, anzi grotteschi, ne ha avuto raggelanti
conferme. Io non dimentico mai quel che mi accadde
all'ambasciata iraniana di Roma quando chiesi il visto
per recarmi a Teheran, per intervistare Khomeini, e mi
presentai con le unghie smaltate di rosso. Per loro,
segno di immoralità. Mi trattarono come una
prostituta da bruciare sul rogo. Mi ingiunsero di
levarlo immediatamente quel rosso. E se non gli avessi
detto anzi urlato che cosa gradivo levare, anzi
tagliare a loro... Non dimentico nemmeno quel che mi
accadde a Qom, la città santa di Khomeini, dove in
quanto donna venni respinta da tutti gli alberghi. Per
intervistare Khomeini dovevo mettermi il chador, per
mettermi il chador dovevo togliermi i blue jeans, per
togliermi i blue jeans dovevo appartarmi, e
naturalmente avrei potuto effettuare l'operazione
nell'automobile con la quale ero giunta da Teheran. Ma
l'interprete me lo impedì. Lei-è- pazza, lei-è-pazza,
a-fare-una- cosa-simile-a-Qom-si-finisce- fucilati.
Preferì portarmi all'ex Palazzo Reale dove un custode
pietoso ci ospitò, ci prestò l'ex Sala del Trono.
Infatti io mi sentivo come la Madonna che per dare
alla luce il Bambin Gesù si rifugia insieme a
Giuseppe nella stalla scaldata dall'asino e dal bue.
Ma a un uomo e a una donna non sposati fra loro il
Corano vieta di appartarsi dietro una porta chiusa,
ahimé, e d'un tratto la porta si aprì. Il mullah
addetto al Controllo della Moralità irruppe
strillando vergogna-vergogna, peccato- peccato, e
v'era solo un modo per non finire fucilati: sposarsi.
Firmare l'atto di matrimonio a scadenza (quattro mesi)
che il mullah ci sventolava sulla faccia. Il guaio è
che l'interprete aveva una moglie spagnola, una certa
Consuelo per nulla disposta ad accettare la poligamia,
e io non volevo sposare nessuno. Tantomeno un iraniano
con la moglie spagnola e nient'affatto disposta ad
accettare la poligamia. Nel medesimo tempo non volevo
finir fucilata ossia perdere l'intervista con Khomeini.
In tal dilemma mi dibattevo e... Ridi, ne son certa.
Ti sembrano barzellette. Bè, allora il seguito di
questo episodio non te lo racconto. Per farti piangere
ti racconto quello dei dodici giovanotti impuri che
finita la guerra del Bangladesh vidi giustiziare a
Dacca. Li giustiziarono sul campo dello stadio di
Dacca, a colpi di baionetta nel torace o nel ventre, e
alla presenza di ventimila fedeli che dalle tribune
applaudivano in nome di Dio. Tuonavano «Allah akbar,
Allah akbar». Lo so, lo so: nel Colosseo gli antichi
romani, quegli antichi romani di cui la mia cultura va
fiera, si divertivano a veder morire i cristiani dati
in pasto ai leoni. Lo so, lo so: in tutti i paesi
d'Europa i cristiani, quei cristiani ai quali malgrado
il mio ateismo riconosco il contributo che hanno dato
alla Storia del Pensiero, si divertivano a veder
bruciare gli eretici. Però è trascorso parecchio
tempo, siamo diventati un pochino più civili, e anche
i figli di Allah dovrebbero aver compreso che certe
cose non si fanno. Dopo i dodici giovanotti impuri
ammazzarono un bambino che per salvare il fratello
condannato a morte s'era buttato sui giustizieri. A
lui schiacciarono la testa con gli scarponi da
militare. E se non ci credi, bè: rileggi la mia
cronaca o la cronaca dei giornalisti francesi e
tedeschi che inorriditi quanto me erano lì con me.
Meglio: guardati le fotografie che uno di essi scattò.
Comunque il punto che mi preme sottolineare non è
questo. È che, concluso lo scempio, i ventimila
fedeli (molte donne) lasciarono le tribune e scesero
nel campo. Non in maniera scomposta, cialtrona, no. In
maniera ordinata, solenne. Lentamente composero un
corteo e, sempre in nome di Dio, passarono sopra i
cadaveri. Sempre tuonando Allah-akbar, Allah-akbar. Li
distrussero come le due Torri di New York. Li
ridussero a un tappeto sanguinolento di ossa
spiaccicate. Oh, potrei continuare all'infinito. Dirti
cose mai dette, cose da farti rizzare i capelli in
testa. Su quel rimbambito di Khomeini, ad esempio, che
dopo l'intervista tenne un comizio a Qom per
dichiarare che io lo accusavo di tagliare i seni alle
donne. Da tale comizio ricavò un video che per mesi
venne trasmesso alla televisione di Teheran sicché,
quando l'anno successivo tornai a Teheran, venni
arrestata appena scesa dall'aereo. E la vidi brutta,
sai, proprio brutta. Era il periodo degli ostaggi
americani... potrei parlarti di quel Mujib Rahman che,
sempre a Dacca, aveva ordinato ai suoi guerriglieri di
eliminarmi in quanto europea pericolosa, e meno male
che a rischio della propria vita un colonnello inglese
mi salvò. O di quel palestinese di nome Habash che
per venti minuti mi fece tenere un mitragliatore
puntato alla testa. Dio, che gente! I soli coi quali
abbia avuto un rapporto civile restano il povero Alì
Bhutto cioè il primo ministro del Pakistan, morto
impiccato perché troppo amico dell’Occidente, e il
bravissimo re di Giordania: re Hussein. Ma quei due
erano musulmani quanto io son cattolica. Comunque
voglio darti la conclusione del mio ragionamento. Una
conclusione che non piacerà a molti, visto che
difendere la propria cultura, in Italia, sta
diventando peccato mortale. E visto che intimiditi
dall’impropria parola «razzista», tutti tacciono
come conigli.
Io
non vado a rizzare tende alla Mecca. Io non vado a
cantar Paternostri e Avemarie dinanzi alla tomba di
Maometto. Io non vado a fare pipì sui marmi delle
loro moschee, non vado a fare la cacca ai piedi dei
loro minareti. Quando mi trovo nei loro paesi (cosa
dalla quale non traggo mai diletto) non dimentico mai
d'essere un'ospite e una straniera. Sto attenta a non
offenderli con abiti o gesti o comportamenti che per
noi sono normali e per loro inammissibili. Li tratto
con doveroso rispetto, doverosa cortesia, mi scuso se
per sbadatezza o ignoranza infrango qualche loro
regola o superstizione. E questo urlo di dolore e di
sdegno io te l'ho scritto avendo dinanzi agli occhi
immagini che non sempre mi davano le apocalittiche
scene con le quali ho incominciato il discorso. A
volte invece di quelle vedevo l'immagine per me
simbolica (quindi infuriante) della gran tenda con cui
un'estate fa i mussulmani somali sfregiarono e
smerdarono e oltraggiarono per tre mesi piazza del
Duomo a Firenze. La mia città. Una tenda rizzata per
biasimare condannare insultare il governo italiano che
li ospitava ma non gli concedeva le carte necessarie a
scorrazzare per l’Europa e non gli lasciava portare
in Italia le orde dei loro parenti. Mamme, babbi,
fratelli, sorelle, zii, zie, cugini, cognate incinte,
e magari i parenti dei parenti. Una tenda situata
accanto al bel palazzo dell'Arcivescovado sul cui
marciapiede tenevano le scarpe o le ciabatte che nei
loro paesi allineano fuori dalle moschee. E insieme
alle scarpe o le ciabatte, le bottiglie vuote
dell'acqua con cui si lavavano i piedi prima della
preghiera. Una tenda posta di fronte alla cattedrale
con la cupola del Brunelleschi, e a lato del
Battistero con le porte d'oro del Ghiberti. Una tenda,
infine, arredata come un rozzo appartamentino: sedie,
tavolini, chaise-longues, materassi per dormire e per
scopare, fornelli per cuocere il cibo e appestare la
piazza col fumo e col puzzo. E, grazie alla consueta
incoscienza dell'Enel che alle nostre opere d'arte
tiene quanto tiene al nostro paesaggio, fornita di
luce elettrica. Grazie a un radio- registratore,
arricchita dalla vociaccia sguaiata d'un muezzin che
puntualmente esortava i fedeli, assordava gli
infedeli, e soffocava il suono delle campane. Insieme
a tutto ciò, le gialle strisciate di urina che
profanavano i marmi del Battistero. (Perbacco! Hanno
la gettata lunga, questi figli di Allah! Ma come
facevano a colpire l'obiettivo separato dalla
ringhiera di protezione e quindi distante quasi due
metri dal loro apparato urinario?) Con le gialle
strisciate di urina, il fetore dello sterco che
bloccava il portone di San Salvatore al Vescovo: la
squisita chiesa romanica (anno Mille) che sta alle
spalle di piazza del Duomo e che i figli di Allah
avevano trasformato in cacatoio. Lo sai bene. Lo sai
bene perché fui io a chiamarti, pregarti di parlarne
sul «Corriere», ricordi? Chiamai anche il sindaco
che, glielo concedo, venne gentilmente a casa mia. Mi
ascoltò, mi dette ragione. «Ha ragione, ha proprio
ragione...». Ma la tenda non la tolse. Se ne dimenticò
o non gli riuscì. Chiamai anche il ministro degli
Esteri che era un fiorentino, anzi uno di quei
fiorentini che parlano con l'accento molto fiorentino,
nonché coinvolto nella faccenda. E pure lui, glielo
concedo, mi ascoltò. Mi dette ragione: «Eh, sì. Ha
ragione, sì». Ma per toglier la tenda non mosse un
dito e, quanto ai figli di Allah che urinavano sul
Battistero e smerdavano San Salvatore al Vescovo,
presto li accontentò. (Mi risulta che i babbi e le
mamme e i fratelli e le sorelle e gli zii e le zie e i
cugini e le cognate incinte ora stiano dove volevano
stare). Cioè a Firenze e in altre città d’Europa.
Allora cambiai sistema. Chiamai un simpatico
poliziotto che dirige l'ufficio-sicurezza e gli dissi:
«Caro poliziotto, io non sono un politico. Quando
dico di fare una cosa, la faccio. Inoltre conosco la
guerra e di certe cose me ne intendo. Se entro domani
non levate la fottuta tenda, io la brucio. Giuro sul
mio onore che la brucio, che neanche un reggimento di
carabinieri riuscirebbe a impedirmelo, e per questo
voglio essere arrestata. Portata in galera con le
manette. Così finisco su tutti i giornali». Bè,
essendo più intelligente degli altri, nel giro di
poche ore lui la levò. Al posto della tenda rimase
soltanto un'immensa e disgustosa macchia di sudiciume.
Però fu una vittoria di Pirro. Lo fu in quanto non
influì per niente sugli altri scempi che da anni
feriscono e umiliano quella che era la capitale
dell'arte e della cultura e della bellezza, non
scoraggiò per niente gli altri arrogantissimi ospiti
della città: gli albanesi, i sudanesi, i bengalesi, i
tunisini, gli algerini, i pakistani, i nigeriani che
con tanto fervore contribuiscono al commercio della
droga e della prostituzione a quanto pare non proibito
dal Corano. Eh, sì: sono tutti dov'erano prima che il
mio poliziotto togliesse la tenda. Dentro il piazzale
degli Uffizi, ai piedi della Torre di Giotto. Dinanzi
alla Loggia dell'Orcagna, intorno alle Logge del
Porcellino. Di faccia alla Biblioteca Nazionale,
all'entrata dei musei. Sul Ponte Vecchio dove ogni
tanto si pigliano a coltellate o a revolverate. Sui
Lungarni dove hanno preteso e ottenuto che il
Municipio li finanziasse (Sissignori, li finanziasse).
Sul sagrato della Chiesa di San Lorenzo dove si
ubriacano col vino e la birra e i liquori, razza di
ipocriti, e dove dicono oscenità alle donne. (La
scorsa estate, su quel sagrato, le dissero perfino a
me che ormai sono un'antica signora. E va da sé che
mal gliene incolse. Oooh, se mal gliene incolse! Uno
sta ancora lì a mugulare sui suoi genitali). Nelle
storiche strade dove bivaccano col pretesto di
vender-la-merce. Per merce intendi borse e valige
copiate dai modelli protetti da brevetto, quindi
illegali, gigantografie, matite, statuette africane
che i turisti ignoranti credono sculture del Bernini,
roba- da-annusare. («Je connais mes droits, conosco i
miei diritti» mi sibilò, sul Ponte Vecchio, uno a
cui avevo visto vendere la roba-da- annusare). E guai
se il cittadino protesta, guai se gli risponde
quei-diritti-vai-ad-esercitarli-a- casa-tua. «Razzista,
razzista!». Guai se camminando tra la merce che
blocca il passaggio un pedone gli sfiora la presunta
scultura del Bernini. «Razzista, razzista!». Guai se
un Vigile Urbano gli si avvicina, azzarda: «Signor
figlio di Allah, Eccellenza, le dispiacerebbe
spostarsi un capellino e lasciar passare la gente?».
Se lo mangiano vivo. Lo aggrediscono col coltello.
Come minimo, gli insultano la mamma e la progenie. «Razzista,
razzista!». E la gente sopporta, rassegnata. Non
reagisce nemmeno se gli gridi ciò che il mio babbo
urlava durante il fascismo: «Ma non ve ne importa
nulla della dignità? Non ce l'avete un po'
d'orgoglio, pecoroni?». Succede anche nelle altre
città, lo so. A Torino, per esempio. Quella Torino
che fece l'Italia e che ormai non sembra nemmeno una
città italiana. Sembra Algeri, Dacca, Nairobi,
Damasco, Beirut. A Venezia. Quella Venezia dove i
piccioni di piazza San Marco sono stati sostituiti dai
tappetini con la «merce» e perfino Otello si
sentirebbe a disagio. A Genova. Quella Genova dove i
meravigliosi palazzi che Rubens ammirava tanto sono
stati sequestrati da loro e deperiscono come belle
donne stuprate. A Roma. Quella Roma dove il cinismo
della politica d'ogni menzogna e d'ogni colore li
corteggia nella speranza d'ottenerne il futuro voto, e
dove a proteggerli c'è lo stesso Papa. (Santità,
perché in nome del Dio Unico non se li prende in
Vaticano? A condizione che non smerdino anche la
Cappella Sistina e le statue di Michelangelo e i
dipinti di Raffaello: sia chiaro). Mah! Ora son io che
non capisco. Anziché figli-di-Allah in Italia li
chiamano «lavoratori stranieri». Oppure «mano-d'opera-
di-cui-v'è-bisogno». E sul fatto che alcuni di loro
lavorino, non ho alcun dubbio. Gli italiani son
diventati talmente signorini. Vanno in vacanza alle
Seychelles, vengon a New York per comprare i lenzuoli
da Bloomingdale's. Si vergognano a fare gli operai e i
contadini, e non puoi più associarli col
proletariato. Ma quelli di cui parlo, che lavoratori
sono? Che lavoro fanno? In che modo suppliscono al
bisogno della mano d'opera che l'ex proletariato
italiano non fornisce più? Bivaccando nella città
col pretesto della merce-da-vendere? Bighellonando e
deturpando i nostri monumenti? Pregando cinque volte
al giorno? E poi c'è un'altra cosa che non capisco.
Se davvero son tanto poveri, chi glieli dà i soldi
per il viaggio sulla nave o sul gommone che li porta
in Italia? Chi glieli dà i dieci milioni a testa
(come minimo dieci milioni) necessari a comprarsi il
biglietto? Non glieli darà mica Usama Bin Laden allo
scopo d’avviare una conquista che non è solo una
conquista di anime, è anche una conquista di
territorio? Bè, anche se non glieli dà, questa
faccenda non mi convince. Anche se i nostri ospiti
sono assolutamente innocenti, anche se fra loro non c'è
nessuno che vuole distruggermi la Torre di Pisa o la
Torre di Giotto, nessuno che vuol mettermi il chador,
nessuno che vuol bruciarmi sul rogo di una nuova
Inquisizione, la loro presenza mi allarma. Mi incute
disagio. E sbaglia chi questa faccenda la prende alla
leggera o con ottimismo. Sbaglia, soprattutto, chi
paragona l'ondata migratoria che s'è abbattuta
sull'Italia e sull'Europa con l'ondata migratoria che
si rovesciò sull'America nella seconda metà
dell'Ottocento anzi verso la fine dell'Ottocento e
all'inizio del Novecento. Ora ti dico perché.
Non
molto tempo fa mi capitò di captare una frase
pronunciata da uno dei mille presidenti del Consiglio
di cui l'Italia s'è onorata in pochi decenni. «Eh,
anche mio zio era un emigrante! Io lo ricordo mio zio
che con la valigetta di fibra partiva per l'America!».
O qualcosa del genere. Eh, no, caro mio. No. Non è
affatto la stessa cosa. E non lo è per due motivi
abbastanza semplici. Il primo è che nella seconda metà
dell'Ottocento l'ondata migratoria in America non
avvenne in maniera clandestina e per prepotenza di chi
la effettuava. Furono gli americani stessi a volerla,
sollecitarla. E per un preciso atto del Congresso. «Venite,
venite, ché abbiamo bisogno di voi. Se venite, vi si
regala un bel pezzo di terra». Ci hanno fatto anche
un film, gli americani. Quello con Tom Cruise e Nicole
Kidman, e del quale m'ha colpito il finale. La scena
dei disgraziati che corrono per piantare la bandierina
bianca sul terreno che diventerà loro, sicché solo i
più giovani e i più forti ce la fanno. Gli altri
restano con un palmo di naso e alcuni nella corsa
muoiono. Ch’io sappia, in Italia non c'è mai stato
un atto del Parlamento che invitasse anzi sollecitasse
i nostri ospiti a lasciare i loro paesi. Venite-
venite-ché-abbiamo-tanto-bisogno- di-voi,
se-venite-vi-regaliamo-il- poderino-nel-Chianti. Da
noi ci sono venuti di propria iniziativa, coi
maledetti gommoni e in barba ai finanzieri che
cercavano di rimandarli indietro. Più che d’una
emigrazione s’è trattato dunque d’una invasione
condotta all’insegna della clandestinità. Una
clandestinità che disturba perché non è mite e
dolorosa. È arrogante e protetta dal cinismo dei
politici che chiudono un occhio e magari tutti e due.
Io non dimenticherò mai i comizi con cui l’anno
scorso i clandestini riempiron le piazze d’Italia
per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti
distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi.
Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di
Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi sentivo
offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi
sentivo beffata dai ministri che ci dicevano: «Vorremmo
rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono».
Stronzi! In quelle piazze ve n’erano migliaia, e non
si nascondevano affatto. Per rimpatriarli sarebbe
bastato metterli in fila, prego-gentile- signore-s’accomodi,
e accompagnarli ad un porto od aeroporto. Il secondo
motivo, caro nipote dello zio con la valigetta di
fibra, lo capirebbe anche uno scolaro delle
elementari. Per esporlo bastano un paio di elementi.
Uno: l’America è un continente. E nella seconda metà
dell’Ottocento cioè quando il Congresso Americano
dette il via all’immigrazione, questo continente era
quasi spopolato. Il grosso della popolazione si
condensava negli stati dell’Est ossia gli stati
dalla parte dell’Atlantico, e nel Mid-West c’era
ancora meno gente. La California era quasi vuota. Beh,
l’Italia non è un continente. È un paese molto
piccolo e tutt’altro che spopolato. Due: l’America
è un paese assai giovane. Se pensi che la Guerra
d’Indipendenza si svolse alla fine del 1700, ne
deduci che ha appena duecento anni e capisci perché
la sua identità culturale non è ancora ben definita.
L’Italia, al contrario, è un paese molto vecchio.
La sua storia dura da almeno tremila anni. La sua
identità culturale è quindi molto precisa e bando
alle chiacchiere: non prescinde da una religione che
si chiama religione cristiana e da una chiesa che si
chiama Chiesa Cattolica. La gente come me ha un bel
dire: io-con-la-chiesa- cattolica-non-c'entro.
C'entro, ahimé c'entro. Che mi piaccia o no, c'entro.
E come farei a non entrarci? Sono nata in un paesaggio
di chiese, conventi, Cristi, Madonne, Santi. La prima
musica che ho udito venendo al mondo è stata la
musica della campane. Le campane di Santa Maria del
Fiore che all'Epoca della Tenda la vociaccia sguaiata
del muezzin soffocava. È in quella musica, in quel
paesaggio, che sono cresciuta. È attraverso quella
musica e quel paesaggio che ho imparato cos'è
l'architettura, cos'è la scultura, cos'è la pittura,
cos'è l'arte. È attraverso quella chiesa (poi
rifiutata) che ho incominciato a chiedermi cos'è il
Bene, cos'è il Male, e perdio... Ecco: vedi? Ho
scritto un'altra volta «perdio». Con tutto il mio
laicismo, tutto il mio ateismo, son così intrisa di
cultura cattolica che essa fa addirittura parte del
mio modo d'esprimermi. Oddio, mioddio, graziaddio,
perdio, Gesù mio, Dio mio, Madonna mia, Cristo qui,
Cristo là. Mi vengon così spontanee, queste parole,
che non m'accorgo nemmeno di pronunciarle o di
scriverle. E vuoi che te la dica tutta? Sebbene al
cattolicesimo non abbia mai perdonato le infamie che
m'ha imposto per secoli incominciando
dall'Inquisizione che m'ha pure bruciato la nonna,
povera nonna, sebbene coi preti io non ci vada proprio
d'accordo e delle loro preghiere non sappia proprio
che farne, la musica delle campane mi piace tanto. Mi
accarezza il cuore. Mi piacciono pure quei Cristi e
quelle Madonne e quei Santi dipinti o scolpiti.
Infatti ho la mania delle icone. Mi piacciono pure i
monasteri e i conventi. Mi danno un senso di pace, a
volte invidio chi ci sta. E poi ammettiamolo: le
nostre cattedrali son più belle delle moschee e delle
sinagoghe. Si o no? Sono più belle anche delle chiese
protestanti. Guarda, il cimitero della mia famiglia è
un cimitero protestante. Accoglie i morti di tutte le
religioni ma è protestante. E una mia bisnonna era
valdese. Una mia prozia, evangelica. La bisnonna
valdese non l'ho conosciuta. La prozia evangelica,
invece, sì. Quand'ero bambina mi portava sempre alle
funzioni della sua chiesa in via de' Benci a Firenze,
e... Dio, quanto m'annoiavo! Mi sentivo talmente sola
con quei fedeli che cantavano i salmi e basta, quel
prete che non era un prete e leggeva la Bibbia e
basta, quella chiesa che non mi sembrava una chiesa e
che a parte un piccolo pulpito aveva un gran
crocifisso e basta. Niente angeli, niente Madonne,
niente incenso... Mi mancava perfino il puzzo
dell'incenso, e avrei voluto trovarmi nella vicina
basilica di Santa Croce dove queste cose c'erano. Le
cose cui ero abituata. E aggiungo: nella mia casa di
campagna, in Toscana, v'è una minuscola cappella. Sta
sempre chiusa. Dacché la mamma è morta non ci va
nessuno. Però a volte ci vado, a spolverare, a
controllare che i topi non ci abbiano fatto il nido, e
nonostante la mia educazione laica mi ci trovo a mio
agio. Nonostante il mio mangiapretismo, mi ci muovo
con disinvoltura. E credo che la stragrande
maggioranza degli italiani ti confesserebbe la
medesima cosa. (A me la confessò Berlinguer).
Santiddio! (Ci risiamo). Sto dicendoti che noi
italiani non siamo nelle condizioni degli americani:
mosaico di gruppi etnici e religiosi, guazzabuglio di
mille culture, nel medesimo tempo aperti ad ogni
invasione e capaci di respingerla. Sto dicendoti che,
proprio perché è definita da molti secoli e molto
precisa, la nostra identità culturale non può
sopportare un' ondata migratoria composta da persone
che in un modo o nell'altro vogliono cambiare il
nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti
che da noi non c'è posto per i muezzin, per i
minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto
Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse,
non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via
Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo,
Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà
che ci siamo bene o male conquistati, la nostra
Patria. Significherebbe regalargli l'Italia. E io
l'Italia non gliela regalo.
Io
sono italiana. Sbagliano gli sciocchi che mi credono
ormai americana. Io la cittadinanza americana non l'ho
mai chiesta. Anni fa un ambasciatore americano me la
offrì sul Celebrity Status, e dopo averlo ringraziato
gli risposi: «Sir, io all'America sono assai legata.
Ci litigo sempre, la rimprovero sempre, eppure le sono
profondamente legata. L'America è per me un amante
anzi un marito al quale resterò sempre fedele.
Ammesso che non mi faccia le corna. Voglio bene a
questo marito. E non dimentico mai che se non si fosse
scomodato a fare la guerra a Hitler e Mussolini, oggi
parlerei tedesco. Non dimentico mai che se non avesse
tenuto testa all' Unione Sovietica, oggi parlerei
russo. Gli voglio bene e m'è simpatico. Mi piace ad
esempio il fatto che quando arrivo a New York e porgo
il passaporto col Certificato di Residenza, il
doganiere mi dica con un gran sorriso: Welcome home.
Benvenuta a casa. Mi sembra un gesto così generoso,
così affettuoso. Inoltre mi ricorda che l'America è
sempre stata il Refugium Peccatorum della gente senza
patria. Ma io la patria ce l'ho già, Sir. La mia
Patria è l'Italia, e l'Italia è la mia mamma. Sir,
io amo l'Italia. E mi sembrerebbe di rinnegare la mia
mamma a prendere la cittadinanza americana». Gli
risposi anche che la mia lingua è l'italiano, che in
italiano scrivo, che in inglese mi traduco e basta.
Nello stesso spirito in cui mi traduco in francese,
cioè sentendolo una lingua straniera. E poi gli
risposi che quando ascolto l'Inno di Mameli mi
commuovo. Che a udire quel Fratelli-d'Italia, l'Italia-
s'è-desta, parapà-parapà-parapà, mi viene il nodo
alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è
bruttino. Penso solo: è l'inno della mia Patria. Del
resto il nodo alla gola mi vien pure a guardare la
bandiera bianca rossa e verde che sventola. Teppisti
degli stadi a parte, s'intende. Io ho una bandiera
bianca rossa e verde dell'Ottocento. Tutta piena di
macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E
sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza
Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi
che a quello stemma si inchinò noi l'Unità d'Italia
non l'avremmo fatta), me la tengo come l'oro. La
custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel
tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati.
Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di
Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il Risorgimento,
col quel tricolore. E l'Unità d'Italia, e la guerra
sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio
trisnonno materno Giobatta combatté a Curtatone e
Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un razzo
austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni
sopportarono ogni pena dentro le trincee del Carso.
Per quel tricolore mio padre venne arrestato e
torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel
tricolore la mia intera famiglia fece la Resistenza e
l'ho fatta anch'io. Nelle file di Giustizia e Libertà,
col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni.
Quando l'anno dopo mi congedarono dall'Esercito
Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii così
fiera. Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E
quando venni informata che col congedo mi spettavano
14.540 lire, non sapevo se accettarle o no. Mi pareva
ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso
la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti
senza scarpe. E con quei soldi ci comprai le scarpe
per me e per le mie sorelline. Naturalmente la mia
patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi.
L'Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani
che pensano solo ad andare in pensione prima dei
cinquant'anni e che si appassionano solo per le
vacanze all'estero o le partite di calcio. L'Italia
cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che
pur di stringere la mano a un divo o una diva di
Hollywood venderebbero la figlia a un bordello di
Beirut ma se i kamikaze di Usama Bin Laden riducono
migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che
sembra caffè macinato sghignazzan contenti
bene-agli-americani-gli- sta-bene. L'Italia squallida,
imbelle, senz'anima, dei partiti presuntuosi e
incapaci che non sanno né vincere né perdere però
sanno come incollare i grassi posteriori dei loro
rappresentanti alla poltroncina di deputato o di
ministro o di sindaco. L'Italia ancora mussolinesca
dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordare
la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i
fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e
gli antifascisti». Non è nemmeno l'Italia dei
magistrati e dei politici che ignorando la
consecutio-temporum pontificano dagli schermi
televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si
dice «Credo che è»: animali! Si dice «Credo che
sia»). Non è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo
simili maestri affogano nell'ignoranza più
scandalosa, nella superficialità più straziante, nel
vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono
gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i
Carbonari, chi erano i liberali, chi era Silvio
Pellico, chi era Mazzini, chi era Massimo D'Azeglio,
chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti
guardano con la pupilla spenta e la lingua pendula.
Non sanno nulla al massimo sanno recitare la comoda
parte degli aspiranti terroristi in tempo di pace e di
democrazia, sventolare le bandiere nere, nasconder la
faccia dietro i passamontagna, i piccoli sciocchi. Gli
inetti. E tantomeno è l’Italia delle cicale che
dopo aver letto questi appunti mi odieranno per aver
scritto la verità. Tra una spaghettata e l’altra mi
malediranno, mi augureranno d’essere uccisa dai loro
protetti cioè da Usama Bin Laden. No, no: la mia
Italia è un'Italia ideale. È l'Italia che sognavo da
ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito
Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena
di illusioni. Un'Italia seria, intelligente,
dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto.
E quest'Italia, un'Italia che c’è anche se viene
zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca.
Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade. Perché,
che a invaderla siano i francesi di Napoleone o gli
austriaci di Francesco Giuseppe o i tedeschi di Hitler
o i compari di Usama Bin Laden, per me è lo stesso.
Che per invaderla usino i cannoni o i gommoni, idem.
Col che ti saluto affettuosamente, caro il mio
Ferruccio, e t'avverto: non chiedermi più nulla. Meno
che mai, di partecipare a risse o a polemiche vane.
Quello che avevo da dire l'ho detto. La rabbia e
l'orgoglio me l'hanno ordinato. La coscienza pulita e
l'età me l'hanno consentito. Ma ora devo rimettermi a
lavorare, non voglio essere disturbata. Punto e basta.