Mi
chiedi di parlare, stavolta. Mi chiedi di rompere
almeno stavolta il silenzio che ho scelto, che da anni
mi impongo per non mischiarmi alle cicale. E lo
faccio. Perché ho saputo che anche in Italia alcuni
gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i
palestinesi di Gaza. «Vittoria! Vittoria!». Uomini,
donne, bambini. Ammesso che chi fa una cosa simile
possa essere definito uomo, donna, bambino. Ho saputo
che alcune cicale di lusso, politici o cosiddetti
politici, intellettuali o cosiddetti intellettuali,
nonché altri individui che non meritano la qualifica
di cittadini, si comportano sostanzialmente nello
stesso modo. Dicono: «Bene. Agli americani gli sta
bene». E sono molto molto, molto arrabbiata.
Arrabbiata d'una rabbia fredda, lucida, razionale. Una
rabbia che elimina ogni distacco, ogni indulgenza. Che
mi ordina di rispondergli e anzitutto di sputargli
addosso. Io gli sputo addosso. Arrabbiata come me, la
poetessa afro-americana Maya Angelou ieri ha ruggito:
«Be angry. It's good to be angry, it's healthy. Siate
arrabbiati. Fa bene essere arrabbiati. È sano». E se
a me fa bene io non lo so. Però so che non farà bene
a loro, intendo dire a chi ammira gli Usama Bin Laden,
a chi gli esprime comprensione o simpatia o solidarietà.
Hai acceso un detonatore che da troppo tempo ha voglia
di scoppiare, con la tua richiesta. Vedrai. Mi chiedi
anche di raccontare come l'ho vissuta io,
quest'Apocalisse. Di fornire insomma la mia
testimonianza. Incomincerò dunque da quella. Ero a
casa, la mia casa è nel centro di Manhattan, e alle
nove in punto ho avuto la sensazione d'un pericolo che
forse non mi avrebbe toccato ma che certo mi
riguardava. La sensazione che si prova alla guerra,
anzi in combattimento, quando con ogni poro della tua
pelle senti la pallottola o il razzo che arriva, e
rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto: «Down!
Get down! Giù! Buttati giù». L'ho respinta. Non ero
mica in Vietnam, non ero mica in una delle tante e
fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra
Mondiale hanno seviziato la mia vita! Ero a New York,
perbacco, in un meraviglioso mattino di settembre,
anno 2001. Ma la sensazione ha continuato a
possedermi, inspiegabile, e allora ho fatto ciò che
al mattino non faccio mai. Ho acceso la Tv. Bè,
l'audio non funzionava. Lo schermo, sì. E su ogni
canale, qui di canali ve ne sono quasi cento, vedevi
una torre del World Trade Center che bruciava come un
gigantesco fiammifero. Un corto circuito? Un piccolo
aereo sbadato? Oppure un atto di terrorismo mirato?
Quasi paralizzata son rimasta a fissarla e mentre la
fissavo, mentre mi ponevo quelle tre domande, sullo
schermo è apparso un aereo. Bianco, grosso. Un aereo
di linea. Volava bassissimo. Volando bassissimo si
dirigeva verso la seconda torre come un bombardiere
che punta sull'obiettivo, si getta sull'obiettivo.
Sicché ho capito. Ho capito anche perché nello
stesso momento l'audio è tornato e ha trasmesso un
coro di urla selvagge. Ripetute, selvagge. «God! Oh,
God! Oh, God, God, God! Gooooooood! Dio! Oddio! Oddio!
Dio, Dio, Dioooooooo!» E l'aereo s'è infilato nella
seconda torre come un coltello che si infila dentro un
panetto di burro. Erano le 9 e un quarto, ora. E non
chiedermi che cosa ho provato durante quei quindici
minuti. Non lo so, non lo ricordo. Ero un pezzo di
ghiaccio. Anche il mio cervello era ghiaccio. Non
ricordo nemmeno se certe cose le ho viste sulla prima
torre o sulla seconda. La gente che per non morire
bruciata viva si buttava dalle finestre degli
ottantesimi o novantesimi piani, ad esempio. Rompevano
i vetri delle finestre, le scavalcavano, si buttavano
giù come ci si butta da un aereo avendo addosso il
paracadute, e venivano giù così lentamente. Agitando
le gambe e le braccia, nuotando nell'aria. Sì,
sembravano nuotare nell'aria. E non arrivavano mai.
Verso i trentesimi piani, però, acceleravano. Si
mettevano a gesticolar disperati, suppongo pentiti,
quasi gridassero help-aiuto-help. E magari lo
gridavano davvero. Infine cadevano a sasso e paf! Sai,
io credevo d'aver visto tutto alle guerre. Dalle
guerre mi ritenevo vaccinata, e in sostanza lo sono.
Niente mi sorprende più. Neanche quando mi arrabbio,
neanche quando mi sdegno. Però alle guerre io ho
sempre visto la gente che muore ammazzata. Non l'ho
mai vista la gente che muore ammazzandosi cioè
buttandosi senza paracadute dalle finestre d'un
ottantesimo o novantesimo o centesimo piano. Alle
guerre, inoltre, ho sempre visto roba che scoppia. Che
esplode a ventaglio. E ho sempre udito un gran
fracasso. Quelle due torri, invece, non sono esplose.
La prima è implosa, ha inghiottito se stessa. La
seconda s'è fusa, s'è sciolta. Per il calore s'è
sciolta proprio come un panetto di burro messo sul
fuoco. E tutto è avvenuto, o m'è parso, in un
silenzio di tomba. Possibile? C'era davvero, quel
silenzio, o era dentro di me? Devo anche dirti che
alle guerre io ho sempre visto un numero limitato di
morti. Ogni combattimento, duecento o trecento morti.
Al massimo, quattrocento. Come a Dak To, in Vietnam. E
quando il combattimento è finito, gli americani si
son messi a raccattarli, contarli, non credevo ai miei
occhi. Nella strage di Mexico City, quella dove
anch'io mi beccai un bel po' di pallottole, di morti
ne raccolsero almeno ottocento. E quando credendomi
morta mi scaraventarono nell'obitorio, i cadaveri che
presto mi ritrovai intorno e addosso mi sembrarono un
diluvio. Bè, nelle due torri lavoravano quasi
cinquantamila persone. E ben pochi hanno fatto in
tempo ad evacuare. Gli ascensori non funzionavano più,
ovvio, e per scendere a piedi dagli ultimi piani ci
voleva un'eternità. Fiamme permettendo. Non lo
conosceremo mai, il numero dei morti. (Quarantamila,
quarantacinquemila...?). Gli americani non lo diranno
mai. Per non sottolineare l'intensità di questa
Apocalisse. Per non dar soddisfazione a Usama Bin
Laden e incoraggiare altre Apocalissi. E poi le due
voragini che hanno assorbito le decine di migliaia di
creature son troppo profonde. Al massimo gli operai
dissottèrrano pezzettini di membra sparse. Un naso
qui, un dito là. Oppure una specie di melma che
sembra caffè macinato e invece è materia organica.
Il residuo dei corpi che in un lampo si
polverizzarono. Ieri il sindaco Giuliani ha mandato
altri diecimila sacchi. Ma sono rimasti inutilizzati.
Che
cosa sento per i kamikaze che sono morti con loro?
Nessun rispetto. Nessuna pietà. No, neanche pietà.
Io che in ogni caso finisco sempre col cedere alla
pietà. A me i kamikaze cioè i tipi che si suicidano
per ammazzare gli altri sono sempre stati antipatici,
incominciando da quelli giapponesi della Seconda
Guerra Mondiale. Non li ho mai considerati Pietri
Micca che per bloccar l'arrivo delle truppe nemiche
danno fuoco alle polveri e saltano in aria con la
cittadella, a Torino. Non li ho mai considerati
soldati. E tantomeno li considero martiri o eroi, come
berciando e sputando saliva il signor Arafat me li
definì nel 1972. (Ossia quando lo intervistai ad
Amman, luogo dove i suoi marescialli addestravano
anche i terroristi della Baader-Meinhof). Li considero
vanesi e basta. Vanesi che invece di cercar la gloria
attraverso il cinema o la politica o lo sport la
cercano nella morte propria e altrui. Una morte che
invece del Premio Oscar o della poltrona ministeriale
o dello scudetto gli procurerà (credono) ammirazione.
E, nel caso di quelli che pregano Allah, un posto nel
Paradiso di cui parla il Corano: il Paradiso dove gli
eroi si scopano le Urì. Scommetto che sono vanesi
anche fisicamente. Ho sotto gli occhi la fotografia
dei due kamikaze di cui parlo nel mio «Insciallah»:
il romanzo che incomincia con la distruzione della
base americana (oltre quattrocento morti) e della base
francese (oltre trecentocinquanta morti) a Beirut. Se
l'erano fatta scattare prima d'andar a morire, quella
fotografia, e prima d'andar a morire erano stati dal
barbiere. Guarda che bel taglio di capelli. Che baffi
impomatati, che barbetta leccata, che basette
civettuole... Eh! Chissà come friggerebbe il signor
Arafat ad ascoltarmi. Sai, tra me e lui non corre buon
sangue. Non mi ha mai perdonato né le roventi
differenze di opinione che avemmo durante
quell'incontro né il giudizio che su di lui espressi
nel mio libro «Intervista con la storia». Quanto a
me, non gli ho mai perdonato nulla. Incluso il fatto
che un giornalista italiano imprudentemente
presentatosi a lui come «mio amico», si sia
ritrovato con una rivoltella puntata contro il cuore.
Ergo, non ci frequentiamo più. Peccato. Perché se lo
incontrassi di nuovo, o meglio se gli concedessi
udienza, glielo urlerei sul muso chi sono i martiri e
gli eroi. Gli urlerei: illustre Signor Arafat, i
martiri sono i passeggeri dei quattro aerei dirottati
e trasformati in bombe umane. Tra di loro la bambina
di quattro anni che si è disintegrata dentro la
seconda torre. Illustre Signor Arafat, i martiri sono
gli impiegati che lavoravano nelle due torri e al
Pentagono. Illustre Signor Arafat, i martiri sono i
pompieri morti per tentar di salvarli. E lo sa chi
sono gli eroi? Sono i passeggeri del volo che doveva
buttarsi sulla Casa Bianca e che invece si è
schiantato in un bosco della Pennsylvania perché loro
si son ribellati! Per loro sì che ci vorrebbe il
Paradiso, illustre Signor Arafat. Il guaio è che ora
fa Lei il capo di Stato ad perpetuum. Fa il monarca.
Rende visita al Papa, afferma che il terrorismo non le
piace, manda le condoglianze a Bush. E nella sua
camaleontica abilità di smentirsi, sarebbe capace di
rispondermi che ho ragione. Ma cambiamo discorso. Io
sono molto ammalata, si sa, e a parlare con gli Arafat
mi viene la febbre.
Preferisco
parlare dell'invulnerabilità che tanti, in Europa,
attribuivano all'America. Invulnerabilità? Ma come
invulnerabilità?!? Più una società è democratica e
aperta, più è esposta al terrorismo. Più un paese
è libero, non governato da un regime poliziesco, più
subisce o rischia i dirottamenti o i massacri che sono
avvenuti per tanti anni in Italia in Germania e in
altre regioni d'Europa. E che ora avvengono,
ingigantiti, in America. Non per nulla i paesi non
democratici, governati da un regime poliziesco, hanno
sempre ospitato e finanziato e aiutano i terroristi.
L'Unione Sovietica, i paesi satelliti dell'Unione
Sovietica e la Cina Popolare, ad esempio. La Libia di
Gheddafi, l'Iraq, l'Iran, la Siria, il Libano
arafattiano, lo stesso Egitto, la stessa Arabia
Saudita di cui Usama Bin Laden è suddito, lo stesso
Pakistan, ovviamente l'Afghanistan, e tutte le regioni
musulmane dell'Africa. Negli aeroporti e sugli aerei
di quei paesi io mi sono sempre sentita sicura. Serena
come un neonato che dorme. L'unica cosa che temevo era
essere arrestata perché scrivevo male dei terroristi.
Negli aeroporti e sugli aerei europei, invece, mi sono
sempre sentita nervosetta. Negli aeroporti e sugli
aerei americani, addirittura nervosa. E a New York,
due volte nervosa. (A Washington, no. Devo ammetterlo.
L'aereo sul Pentagono non me lo aspettavo davvero). A
mio giudizio, insomma, non è mai stato un problema di
«se»: è sempre stato un problema di «quando».
Perché credi che martedì mattina il mio subconscio
abbia avvertito quella inquietudine, quella sensazione
di pericolo? Perché credi che contrariamente alle mie
abitudini abbia acceso il televisore? Perché credi
che fra le tre domande che mi ponevo mentre la prima
torre bruciava e l'audio non funzionava, ci fosse
quella sull'attentato? E perché credi che appena
apparso il secondo aereo abbia capito? Poiché
l'America è il Paese più forte del mondo, il più
ricco, il più potente, il più moderno, ci sono
cascati quasi tutti in quel tranello. Gli americani
stessi, a volte. Ma la vulnerabilità dell'America
nasce proprio dalla sua forza, dalla sua ricchezza,
dalla sua potenza, dalla sua modernità. La solita
storia del cane che si mangia la coda. Nasce anche
dalla sua essenza multi-etnica, dalla sua liberalità,
dal suo rispetto per i cittadini e per gli ospiti.
Esempio: circa ventiquattro milioni di americani sono
arabi- musulmani. E quando un Mustafà o un Muhammed
viene diciamo dall'Afghanistan per visitare lo zio,
nessuno gli proibisce di frequentare una scuola di
pilotaggio per imparare a guidare un 757. Nessuno gli
proibisce d'iscriversi a un'Università (cosa che
spero cambi) per studiare chimica e biologia: le due
scienze necessarie a scatenare una guerra
batteriologica. Nessuno. Neppure se il governo teme
che quel figlio di Allah dirotti il 757 oppure butti
una fiala di batteri nel deposito dell'acqua e scateni
una strage. (Dico «se» perché stavolta il governo
non ne sapeva un bel niente e la figuraccia fatta
dalla Cia e dall'Fbi va al di là d'ogni limite. Se
fossi il presidente degli Stati Uniti io li caccerei
tutti a pedate nei posteriori per cretineria). E detto
ciò torniamo al ragionamento iniziale. Quali sono i
simboli della forza, della ricchezza, della potenza,
della modernità americane? Non certo il jazz e il
rock and roll, il chewing-gum e l'hamburger, Broadway
ed Hollywood. Sono i suoi grattacieli. Il suo
Pentagono. La sua scienza. La sua tecnologia. Quei
grattacieli impressionanti, così alti, così belli
che ad alzar gli occhi quasi dimentichi le piramidi e
i divini palazzi del nostro passato. Quegli aerei
giganteschi, esagerati, che ormai usano come un tempo
usavano i velieri e i camion perché tutto qui si
muove con gli aerei. Tutto. La posta, il pesce fresco,
noi stessi (E non dimenticare che la guerra aerea
l'hanno inventata loro. O almeno sviluppata fino
all'isteria). Quel Pentagono terrificante, quella
fortezza che fa paura solo a guardarla. Quella scienza
onnipresente, onnipossente. Quella tecnologia
raggelante che in pochissimi anni ha stravolto la
nostra esistenza quotidiana, la nostra millenaria
maniera di comunicare, mangiare, vivere. E dove li ha
colpiti, il reverendo Usama Bin Laden? Sui
grattacieli, sul Pentagono. Come? Con gli aerei, con
la scienza, con la tecnologia. By the way: sai cosa mi
impressiona di più in questo tristo ultramiliardario,
questo mancato play-boy che anziché corteggiare le
principesse bionde e folleggiare nei night- club (come
faceva a Beirut quando aveva vent’anni) si diverte
ad ammazzar la gente in nome di Maometto e di Allah?
Il fatto che il suo sterminato patrimonio derivi anche
dai guadagni d'una Corporation specializzata nel
demolire, e che egli stesso sia un esperto demolitore.
La demolizione è una specialità americana. Quando ci
siamo incontrati t'ho visto quasi stupefatto
dall'eroica efficienza e dall'ammirevole unità con
cui gli americani hanno affrontato quest'Apocalisse.
Eh, sì. Nonostante i difetti che le vengono
continuamente rinfacciati, che io stessa le rinfaccio,
(ma quelli dell’Europa e in particolare
dell’Italia sono ancora più gravi), l'America è un
paese che ha grosse cose da insegnarci. E a proposito
dell'eroica efficienza lasciami cantare un peana per
il sindaco di New York. Quel Rudolph Giuliani che noi
italiani dovremmo ringraziare in ginocchio. Perché ha
un cognome italiano, è un oriundo italiano, e ci fa
fare bella figura dinanzi al mondo intero. E’ un
grande anzi grandissimo sindaco, Rudolph Giuliani. Te
lo dice una che non è mai contenta di nulla e di
nessuno incominciando da se stessa. E' un sindaco
degno d'un altro grandissimo sindaco col cognome
italiano, Fiorello La Guardia, e tanti dei nostri
sindaci dovrebbero andare a scuola da lui. Presentarsi
a capo chino, anzi con la cenere sul capo, e
chiedergli: «Sor Giuliani, per cortesia ci dice come
si fa?». Lui non delega i suoi doveri al prossimo,
no. Non perde tempo nelle bischerate e nelle avidità.
Non si divide tra l'incarico di sindaco e quello di
ministro o deputato. (C'è nessuno che mi ascolta
nelle tre città di Stendhal, insomma a Napoli e a
Firenze e a Roma?). Essendo corso subito, e subito
entrato nel secondo grattacielo, ha rischiato di
trasformarsi in cenere con gli altri. S'è salvato per
un pelo e per caso. E nel giro di quattro giorni ha
rimesso in piedi la città. Una città che ha nove
milioni e mezzo di abitanti, bada bene, e quasi due
nella sola Manhattan. Come abbia fatto, non lo so. E'
malato come me, pover'uomo. Il cancro che torna e
ritorna ha beccato anche lui. E, come me, fa finta
d’essere sano: lavora lo stesso. Ma io lavoro a
tavolino, perbacco, stando seduta! Lui, invece...
Sembrava un generale che partecipa di persona alla
battaglia. Un soldato che si lancia all'attacco con la
baionetta. «Forza, gente, forzaaa! Tiriamoci su le
maniche, sveltiii!» Ma poteva farlo perché quella
gente era, è, come lui. Gente senza boria e senza
pigrizia, avrebbe detto mio padre, e con le palle.
Quanto all'ammirevole capacità di unirsi, alla
compattezza quasi marziale con cui gli americani
rispondono alle disgrazie e al nemico, bè: devo
ammettere che lì per lì ha stupito anche me. Sapevo,
sì, che era esplosa al tempo di Pearl Harbor, cioè
quando il popolo s'era stretto intorno a Roosevelt e
Roosevelt era entrato in guerra contro la Germania di
Hitler e l'Italia di Mussolini e il Giappone di
Hirohito. L'avevo annusata, sì, dopo l'assassinio di
Kennedy. Ma a questo era seguita la guerra in Vietnam,
la lacerante divisione causata dalla guerra in
Vietnam, e in un certo senso ciò mi aveva ricordato
la loro Guerra Civile d'un secolo e mezzo fa. Così,
quando ho visto bianchi e neri piangere abbracciati,
dico abbracciati, quando ho visto democratici e
repubblicani cantare abbracciati «God save America,
Dio salvi l'America», quando gli ho visto cancellare
tutte le divergenze, sono rimasta di stucco. Lo
stesso, quando ho udito Bill Clinton (persona verso la
quale non ho mai nutrito tenerezze) dichiarare «Stringiamoci
intorno a Bush, abbiate fiducia nel nostro presidente».
Lo stesso, quando le medesime parole sono state
ripetute con forza da sua moglie Hillary ora senatore
per lo Stato di New York. Lo stesso, quando sono state
reiterate da Lieberman, l'ex candidato democratico
alla vice-presidenza. (Soltanto lo sconfitto Al Gore
è rimasto squallidamente zitto). E lo stesso quando
il Congresso ha votato all'unanimità d'accettare la
guerra, punire i responsabili. Ah, se l'Italia
imparasse questa lezione! È un Paese così diviso,
l'Italia. Così fazioso, così avvelenato dalle sue
meschinerie tribali! Si odiano anche all'interno dei
partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme
nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso
distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi,
piccini, non pensano che ai propri interessi
personali. Alla propria carrieruccia, alla propria
gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Pei
propri interessi personali si fanno i dispetti, si
tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono
assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse
saltare in aria la Torre di Giotto o la Torre di Pisa,
l'opposizione darebbe la colpa al governo. E il
governo darebbe la colpa all'opposizione. I capoccia
del governo e i capoccia dell'opposizione, ai propri
compagni e ai propri camerati. E detto ciò lasciami
spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che
caratterizza gli americani. Nasce dal loro
patriottismo. Io non so se in Italia avete visto e
capito quel che è successo a New York quando Bush è
andato a ringraziar gli operai (e le operaie) che
scavando nelle macerie delle due torri cercano di
salvare qualche superstite ma non tiran fuori che
qualche naso o qualche dito. Senza cedere, tuttavia.
Senza rassegnarsi, sicché se gli domandi come fanno
ti rispondono: «I can allow myself to be exhausted
not to be defeated. Posso permettermi d'essere
esausto, non d'essere sconfitto». Tutti. Giovani,
giovanissimi, vecchi, di mezz'età. Bianchi, neri,
gialli, marroni, viola... L'avete visti o no? Mentre
Bush li ringraziava non facevano che sventolare le
bandierine americane, alzare il pugno chiuso, ruggire:
«Iuessè! Iuessè! Iuessè! Usa! Usa! Usa!». In un
paese totalitario avrei pensato: «Ma guarda come l'ha
organizzata bene il Potere!». In America, no. In
America queste cose non le organizzi. Non le gestisci,
non le comandi. Specialmente in una metropoli
disincantata come New York, e con operai come gli
operai di New York. Sono tipacci, gli operai di New
York. Più liberi del vento. Quelli non obbediscono
neanche ai loro sindacati. Ma se gli tocchi la
bandiera, se gli tocchi la Patria... In inglese la
parola Patria non c'è. Per dire Patria bisogna
accoppiare due parole. Father Land, Terra dei Padri.
Mother Land, Terra Madre. Native Land, Terra Nativa. O
dire semplicemente My Country, il Mio Paese. Però il
sostantivo Patriotism c'è. L'aggettivo Patriotic c'è.
E a parte la Francia, forse non so immaginare un Paese
più patriottico dell'America. Ah! Io mi son tanto
commossa a vedere quegli operai che stringendo il
pugno e sventolando la bandiera ruggivano Iuessè-Iuessè-Iuessè,
senza che nessuno glielo ordinasse. E ho provato una
specie di umiliazione. Perché gli operai italiani che
sventolano il tricolore e ruggiscono Italia-Italia io
non li so immaginare. Nei cortei e nei comizi gli ho
visto sventolare tante bandiere rosse. Fiumi, laghi,
di bandiere rosse. Ma di bandiere tricolori gliene ho
sempre viste sventolar pochine. Anzi nessuna. Mal
guidati o tiranneggiati da una sinistra arrogante e
devota all'Unione Sovietica, le bandiere tricolori le
hanno sempre lasciate agli avversari. E non è che gli
avversari ne abbiano fatto buon uso, direi. Non ne
hanno fatto nemmeno spreco, graziaddio. E quelli che
vanno alla Messa, idem. Quanto al becero con la
camicia verde e la cravatta verde, non sa nemmeno
quali siano i colori del tricolore. Mi-sun-lumbard,
mi-sun- lumbard. Quello vorrebbe riportarci alle
guerre tra Firenze e Siena. Risultato, oggi la
bandiera italiana la vedi soltanto alle Olimpiadi se
per caso vinci una medaglia. Peggio: la vedi soltanto
negli stadi, quando c'è una partita internazionale di
calcio. Unica occasione, peraltro, in cui riesci a
udire il grido Italia-Italia. Eh! C'è una bella
differenza tra un paese nel quale la bandiera della
Patria viene sventolata dai teppisti negli stadi e
basta, e un paese nel quale viene sventolata dal
popolo intero. Ad esempio, dagli irreggimentabili
operai che scavano nelle rovine per tirar fuori
qualche orecchio o qualche naso delle creature
massacrate dai figli di Allah. Oppure per raccogliere
quel caffè macinato.
Il
fatto è che l'America è un paese speciale, caro mio.
Un paese da invidiare, di cui esser gelosi, per cose
che non hanno nulla a che fare con la ricchezza
eccetera. Lo è perché è nato da un bisogno
dell'anima, il bisogno d'avere una patria, e dall'idea
più sublime che l'Uomo abbia mai concepito: l'idea
della Libertà, anzi della libertà sposata all'idea
di uguaglianza. Lo è anche perché a quel tempo
l'idea di libertà non era di moda. L'idea di
uguaglianza, nemmeno. Non ne parlavano che certi
filosofi detti Illuministi, di queste cose. Non li
trovavi che in un costosissimo librone a puntate detto
l'Encyclopedie, questi concetti. E a parte gli
scrittori o gli altri intellettuali, a parte i
principi e i signori che avevano i soldi per comprare
il librone o i libri che avevano ispirato il librone,
chi ne sapeva nulla dell'Illuminismo? Non era mica
roba da mangiare, l'Illuminismo! Non ne parlavan
neppure i rivoluzionari della Rivoluzione Francese,
visto che la Rivoluzione Francese sarebbe incominciata
nel 1789 ossia tredici anni dopo la Rivoluzione
Americana che scoppiò nel 1776. (Altro particolare
che gli antiamericani del bene-agli-
americani-gli-sta-bene ignorano o fingono di
dimenticare. Razza di ipocriti). È un paese speciale,
un paese da invidiare, inoltre, perché quell'idea
venne capita da contadini spesso analfabeti o comunque
ineducati. I contadini delle colonie americane. E
perché venne materializzata da un piccolo gruppo di
leader straordinari: da uomini di grande cultura, di
gran qualità. The Founding Fathers, i Padri
Fondatori. Ma hai idea di chi fossero i Padri
Fondatori, i Benjamin Franklin e i Thomas Jefferson e
i Thomas Paine e i John Adams e i George Washington
eccetera? Altro che gli avvocaticchi (come giustamente
li chiamava Vittorio Alfieri) della Rivoluzione
Francese! Altro che i cupi e isterici boia del
Terrore, i Marat e i Danton e i Saint Just e i
Robespierre! Erano tipi, i Padri Fondatori, che il
greco e il latino lo conoscevano come gli insegnanti
italiani di greco e di latino (ammesso che ne esistano
ancora) non lo conosceranno mai. Tipi che in greco s'eran
letti Aristotele e Platone, che in latino s'eran letti
Seneca e Cicerone, e che i principii della democrazia
greca se l'eran studiati come nemmeno i marxisti del
mio tempo studiavano la teoria del plusvalore.
(Ammesso che la studiassero davvero). Jefferson
conosceva anche l'italiano. (Lui diceva «toscano»).
In italiano parlava e leggeva con gran speditezza.
Infatti con le duemila piantine di vite e le mille
piantine di olivo e la carta da musica che in Virginia
scarseggiava, nel 1774 il fiorentino Filippo Mazzei
gli aveva portato varie copie d'un libro scritto da un
certo Cesare Beccaria e intitolato «Dei Delitti e
delle Pene». Quanto all'autodidatta Franklin, era un
genio. Scienziato, stampatore, editore, scrittore,
giornalista, politico, inventore. Nel 1752 aveva
scoperto la natura elettrica del fulmine e aveva
inventato il parafulmine. Scusa se è poco. E fu con
questi leader straordinari, questi uomini di gran
qualità, che nel 1776 i contadini spesso analfabeti e
comunque ineducati si ribellarono all'Inghilterra.
Fecero la guerra d'indipendenza, la Rivoluzione
Americana. Bè... Nonostante i fucili e la polvere da
sparo, nonostante i morti che ogni guerra costa, non
la fecero coi fiumi di sangue della futura Rivoluzione
Francese. Non la fecero con la ghigliottina e coi
massacri della Vandea. La fecero con un foglio che
insieme al bisogno dell'anima, il bisogno d'avere una
patria, concretizzava la sublime idea della libertà
anzi della libertà sposata all'uguaglianza. La
Dichiarazione d'Indipendenza. «We hold these Truths
to be self-evident... Noi riteniamo evidenti queste
verità. Che tutti gli Uomini sono creati uguali. Che
sono dotati dal Creatore di certi inalienabili
Diritti. Che tra questi Diritti v'è il diritto alla
Vita, alla Libertà, alla Ricerca della Felicità. Che
per assicurare questi Diritti gli Uomini devono
istituire i governi...». E quel foglio che dalla
Rivoluzione Francese in poi tutti gli abbiamo bene o
male copiato, o al quale ci siamo ispirati,
costituisce ancora la spina dorsale dell'America. La
linfa vitale di questa nazione. Sai perché? Perché
trasforma i sudditi in cittadini. Perché trasforma la
plebe in Popolo. Perché la invita anzi le ordina di
governarsi, d'esprimere le proprie individualità, di
cercare la propria felicità. Tutto il contrario di ciò
che il comunismo faceva proibendo alla gente di
ribellarsi, governarsi, esprimersi, arricchirsi, e
mettendo Sua Maestà lo Stato al posto dei soliti re.
«Il comunismo è un regime monarchico, una monarchia
di vecchio stampo. In quanto tale taglia le palle agli
uomini. E quando a un uomo gli tagli le palle non è
più un uomo» diceva mio padre. Diceva anche che
invece di riscattare la plebe il comunismo trasformava
tutti in plebe. Rendeva tutti morti di fame. Bè,
secondo me l'America riscatta la plebe. Sono tutti
plebei, in America. Bianchi, neri, gialli, marroni,
viola, stupidi, intelligenti, poveri, ricchi. Anzi i
più plebei sono proprio i ricchi. Nella maggioranza
dei casi, certi piercoli! Rozzi, maleducati. Lo vedi
subito che non hanno mai letto Monsignor della Casa,
che non hanno mai avuto nulla a che fare con la
raffinatezza e il buon gusto e la sophistication.
Nonostante i soldi che sprecano nel vestirsi, ad
esempio, son così ineleganti che in paragone la
regina d'Inghilterra sembra chic. Però sono
riscattati, perdio. E a questo mondo non c'è nulla di
più forte, di più potente, della plebe riscattata.
Ti rompi sempre le corna con la Plebe Riscattata. E
con l'America le corna se le sono sempre rotte tutti.
Inglesi, tedeschi, messicani, russi, nazisti,
fascisti, comunisti. Da ultimo se le son rotte perfino
i vietnamiti che dopo la vittoria son dovuti scendere
a patti con loro sicché quando un ex presidente degli
Stati Uniti va a fargli una visitina toccano il cielo
con un dito. «Bienvenu, Monsieur le President,
bienvenu!». Il guaio è che i vietnamiti non pregano
Allah. E con i figli di Allah la faccenda sarà dura.
Molto lunga e molto dura. Ammenoché il resto
dell'Occidente non smetta di farsela addosso. E
ragioni un po' e gli dia una mano.
Non
sto parlando, ovvio, alle iene che se la godono a
veder le immagini delle macerie e ridacchiano
bene-agli-americani- gli-sta-bene. Sto parlando alle
persone che pur non essendo stupide o cattive, si
cullano ancora nella prudenza e nel dubbio. E a loro
dico: sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete
dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire
razzisti (parola oltretutto impropria perché il
discorso non è su una razza, è su una religione),
non capite o non volete capire che qui è in atto una
Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio
gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o
non volete capire che qui è in atto una guerra di
religione. Voluta e dichiarata da una frangia di
quella religione, forse, comunque una guerra di
religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra
Santa. Una guerra che non mira alla conquista del
nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla
conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della
nostra libertà e della nostra civiltà.
All'annientamento del nostro modo di vivere e di
morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del
nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci
e informarci… Non capite o non volete capire che se
non ci si oppone, se non ci si difende, se non si
combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo
che bene o male siamo riusciti a costruire, a
cambiare, a migliorare, a rendere un po' più
intelligente cioè meno bigotto o addirittura non
bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura,
la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i
nostri valori, i nostri piaceri... Cristo! Non vi
rendete conto che gli Usama Bin Laden si ritengono
autorizzati a uccidere voi e i vostri bambini perché
bevete il vino o la birra, perché non portate la
barba lunga o il chador, perché andate al teatro e al
cinema, perché ascoltate la musica e cantate le
canzonette, perché ballate nelle discoteche o a casa
vostra, perché guardate la televisione, perché
portate la minigonna o i calzoncini corti, perché al
mare o in piscina state ignudi o quasi ignudi, perché
scopate quando vi pare e dove vi pare e con chi vi
pare? Non v'importa neanche di questo, scemi? Io sono
atea, graziaddio. E non ho alcuna intenzione di
lasciarmi ammazzare perché lo sono. Da vent'anni lo
dico, da vent'anni. Con una certa mitezza, non con
questa passione, vent'anni fa su questa roba scrissi
un articolo di fondo per il «Corriere». Era
l'articolo di una persona abituata a stare con tutte
le razze e tutti i credi, d'una cittadina abituata a
combattere tutti i fascismi e tutte le intolleranze,
d'una laica senza tabù. Ma era anche l'articolo di
una persona indignata con chi non sentiva il puzzo di
una Guerra Santa a venire, e ai figli di Allah gliene
perdonava un po' troppe. Feci un ragionamento che
suonava press'appoco così, vent'anni fa. «Che senso
ha rispettare chi non rispetta noi? Che senso ha
difendere la loro cultura o presunta cultura quando
loro disprezzano la nostra? Io voglio difendere la
nostra, e v'informo che Dante Alighieri mi piace più
di Omar Khayan». Apriti cielo. Mi crocifissero. «Razzista,
razzista!». Eh, furono gli stessi progressisti (a
quel tempo si chiamavano comunisti) a crocifiggermi.
Del resto quell'insulto me lo presi anche quando i
sovietici invasero l'Afghanistan. Li ricordi quei
barbuti con la sottana e il turbante che prima di
sparare il mortaio, anzi a ciascun colpo di mortaio,
berciavano le lodi del Signore? «Allah akbar! Allah
akbar!». Io li ricordo bene. E a veder accoppiare la
parola Dio al colpo di mortaio, mi venivano i brividi.
Mi pareva d'essere nel Medioevo, e dicevo: «I
sovietici sono quello che sono. Però bisogna
ammettere che a far quella guerra proteggono anche
noi. E li ringrazio». Riapriti cielo. «Razzista,
razzista!». Nella loro cecàggine non volevan neanche
sentirmi parlare delle mostruosità che i figli di
Allah commettevano sui militari fatti prigionieri.
(Gli segavano le braccia e le gambe, rammenti? Un
vizietto a cui s'erano già abbandonati in Libano coi
prigionieri cristiani ed ebrei). Non volevano che lo
dicessi, no. E pur di fare i progressisti applaudivano
gli americani che rincretiniti dalla paura
dell’Unione Sovietica riempivan di armi l'eroico-popolo-afghano.
Addestravano i barbuti, e coi barbuti un barbutissimo
Usama Bin Laden. Via-i-russi- dall'Afghanistaaaan!
I-russi- devono-andarsene- dall'Afghanistaaaan! Bè, i
russi se ne sono andati dall'Afghanistan: contenti? E
dall'Afghanistan i barbuti del barbutissimo Usama Bin
Laden sono arrivati a New York con gli sbarbati
siriani egiziani iracheni libanesi palestinesi sauditi
che componevano la banda dei diciannove kamikaze
identificati: contenti? Peggio: ora qui si discute sul
prossimo attacco che ci colpirà con le armi chimiche,
biologiche, radioattive, nucleari. Si dice che la
nuova strage è inevitabile perché l’Iraq gli
fornisce il materiale. Si parla di vaccinazioni, di
maschere a gas, di peste. Ci si chiede quando avverrà...
Contenti? Alcuni non sono né contenti né scontenti.
Se ne fregano e basta. Tanto l'America è lontana, tra
l'Europa e l'America c'è un oceano... Eh, no, cari
miei. No. C'è un filo d'acqua. Perché quando è in
ballo il destino dell'Occidente, la sopravvivenza
della nostra civiltà, New York siamo noi. L'America
siamo noi. Noi italiani, noi francesi, noi inglesi,
noi tedeschi, noi austriaci, noi ungheresi, noi
slovacchi, noi polacchi, noi scandinavi, noi belgi,
noi spagnoli, noi greci, noi portoghesi. Se crolla
l'America, crolla l'Europa. Crolla l'Occidente,
crolliamo noi. E non solo in senso finanziario cioè
nel senso che, mi pare, vi preoccupa di più. (Una
volta, ero giovane e ingenua, dissi ad Arthur Miller:
«Gli americani misurano tutto coi soldi, non pensano
che ai soldi». E Arthur Miller mi rispose: «Voi no?»).
In tutti i sensi crolliamo, caro mio. E al posto delle
campane ci ritroviamo i muezzin, al posto delle
minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del
cognacchino il latte di cammella. Neanche questo
capite, neanche questo volete capire?!? Blair lo ha
capito. È venuto qui e ha portato anzi rinnovato a
Bush la solidarietà degli inglesi. Non una solidarietà
espressa con le chiacchiere e i piagnistei: una
solidarietà basata sulla caccia ai terroristi e
sull’alleanza militare. Chirac, no. Come sai la
scorsa settimana era qui in visita ufficiale. Una
visita prevista da tempo, non una visita ad hoc. Ha
visto le macerie delle due torri, ha saputo che i
morti sono un numero incalcolabile anzi
inconfessabile, ma non s'è sbilanciato. Durante
l'intervista alla Cnn ben quattro volte la ma amica
Cristiana Amanpour gli ha chiesto in qual modo e in
qual misura intendesse schierarsi contro questa Jihad,
e per quattro volte Chirac ha evitato una risposta. È
sgusciato via come un'anguilla. Veniva voglia di
gridargli: «Monsieur le President! Ricorda lo sbarco
in Normandia? Lo sa quanti americani sono crepati in
Normandia per cacciare i nazisti anche dalla Francia?».
Escluso Blair, del resto, neanche fra gli altri
europei vedo Riccardi Cuor di Leone. E tantomeno ne
vedo in Italia dove il governo non ha individuato
quindi arrestato alcun complice o sospetto complice di
Usama Bin Laden. Perdio, signor cavaliere, perdio!
Malgrado la paura della guerra, in ogni paese d'Europa
è stato individuato e arrestato qualche complice di
Usama Bin Laden. In Francia, in Germania, in
Inghilterra, in Spagna... Ma in Italia dove le moschee
di Milano e di Torino e di Roma traboccano di
mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di
terroristi in attesa di far saltare in aria la Cupola
di San Pietro, nessuno. Zero. Nulla. Nessuno. Mi
spieghi, signor cavaliere: son così incapaci i Suoi
poliziotti e carabinieri? Son così coglioni i Suoi
servizi segreti? Son così scemi i Suoi funzionari? E
son tutti stinchi di santo, tutti estranei a ciò che
è successo e succede, i figli di Allah che ospitiamo?
Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e
arrestare chi finoggi non avete individuato e
arrestato, Lei teme di subire il solito ricatto
razzista-razzista? Io, vede, no. Cristo! Io non nego a
nessuno il diritto di avere paura. Chi non ha paura
della guerra è un cretino. E chi vuol far credere di
non avere paura alla guerra, l’ho scritto mille
volte, è insieme un cretino e un bugiardo. Ma nella
Vita e nella Storia vi sono casi in cui non è lecito
aver paura. Casi in cui aver paura è immorale e
incivile. E quelli che, per debolezza o mancanza di
coraggio o abitudine a tenere il piede in due staffe
si sottraggono a questa tragedia, a me sembrano
masochisti.
Masochisti,
sì, masochisti. Perché vogliamo farlo questo
discorso su ciò che tu chiami Contrasto-fra-le-
Due-Culture? Bè, se vuoi proprio saperlo, a me dà
fastidio perfino parlare di due culture: metterle
sullo stesso piano come se fossero due realtà
parallele, di uguale peso e di uguale misura. Perché
dietro la nostra civiltà c'è Omero, c'è Socrate, c'è
Platone, c'è Aristotele, c'è Fidia, perdio. C'è
l'antica Grecia col suo Partenone e la sua scoperta
della Democrazia. C'è l'antica Roma con la sua
grandezza, le sue leggi, il suo concetto della Legge.
Le sue sculture, la sua letteratura, la sua
architettura. I suoi palazzi e i suoi anfiteatri, i
suoi acquedotti, i suoi ponti, le sue strade. C'è un
rivoluzionario, quel Cristo morto in croce, che ci ha
insegnato (e pazienza se non lo abbiamo imparato) il
concetto dell'amore e della giustizia. C'è anche una
Chiesa che mi ha dato l'Inquisizione, d'accordo. Che
mi ha torturato e bruciato mille volte sul rogo,
d'accordo. Che mi ha oppresso per secoli, che per
secoli mi ha costretto a scolpire e dipingere solo
Cristi e Madonne, che mi ha quasi ammazzato Galileo
Galilei. Me lo ha umiliato, me lo ha zittito. Però ha
dato anche un gran contributo alla Storia del
Pensiero: sì o no? E poi dietro la nostra civiltà c'è
il Rinascimento. C'è Leonardo da Vinci, c'è
Michelangelo, c'è Raffaello, c’è la musica di Bach
e di Mozart e di Beethoven. Su su fino a Rossini e
Donizetti e Verdi and Company. Quella musica senza la
quale noi non sappiamo vivere e che nella loro cultura
o supposta cultura è proibita. Guai se fischi una
canzonetta o mugoli il coro del Nabucco. E infine c'è
la Scienza, perdio. Una scienza che ha capito
parecchie malattie e le cura. Io sono ancora viva, per
ora, grazie alla nostra scienza: non quella di
Maometto. Una scienza che ha inventato macchine
meravigliose. Il treno, l'automobile, l'aereo, le
astronavi con cui siamo andati sulla Luna e su Marte e
presto andremo chissàddove. Una scienza che ha
cambiato la faccia di questo pianeta con l'elettricità,
la radio, il telefono, la televisione, e a proposito:
è vero che i santoni della sinistra non vogliono dire
ciò che ho appena detto?!? Dio, che bischeri! Non
cambieranno mai. Ed ora ecco la fatale domanda: dietro
all’altra cultura che c’è? Boh! Cerca cerca, io
non ci trovo che Maometto col suo Corano e Averroè
coi suoi meriti di studioso. (I Commentari su
Aristotele eccetera), Arafat ci trova anche i numeri e
la matematica. Di nuovo berciandomi addosso, di nuovo
coprendomi di saliva, nel 1972 mi disse che la sua
cultura era superiore alla mia, molto superiore alla
mia, perché i suoi nonni avevano inventato i numeri e
la matematica. Ma Arafat ha la memoria corta. Per
questo cambia idea e si smentisce ogni cinque minuti.
I suoi nonni non hanno inventato i numeri e la
matematica. Hanno inventato la grafia dei numeri che
anche noi infedeli adopriamo, e la matematica è stata
concepita quasi contemporaneamente da tutte le antiche
civiltà. In Mesopotamia, in Grecia, in India, in
Cina, in Egitto, tra i Maya... I suoi nonni, Illustre
Signor Arafat, non ci hanno lasciato che qualche bella
moschea e un libro col quale da millequattrocento anni
mi rompono le scatole più di quanto i cristiani me le
rompano con la Bibbia e gli ebrei con la Torah. E ora
vediamo quali sono i pregi che distinguono questo
Corano. Davvero pregi? Dacché i figli di Allah hanno
semidistrutto New York, gli esperti dell'Islam non
fanno che cantarmi le lodi di Maometto: spiegarmi che
il Corano predica la pace e la fratellanza e la
giustizia. (Del resto lo dice anche Bush, povero Bush.
E va da sé che Bush deve tenersi buoni i ventiquattro
milioni di americani- musulmani, convincerli a
spifferare quel che sanno sugli eventuali parenti o
amici o conoscenti devoti a Usama Bin Laden). Ma
allora come la mettiamo con la storia dell'Occhio-per-
Occhio-Dente-per-Dente? Come la mettiamo con la
faccenda del chador anzi del velo che copre il volto
delle musulmane, sicché per dare una sbirciata al
prossimo quelle infelici devon guardare attraverso una
fitta rete posta all'altezza degli occhi? Come la
mettiamo con la poligamia e col principio che le donne
debbano contare meno dei cammelli, che non debbano
andare a scuola, non debbano andare dal dottore, non
debbano farsi fotografare eccetera? Come la mettiamo
col veto degli alcolici e la pena di morte per chi li
beve? Anche questo sta nel Corano. E non mi sembra
mica tanto giusto, tanto fraterno, tanto pacifico.
Ecco dunque la mia risposta alla tua domanda sul
Contrasto-delle- Due-Culture. Al mondo c'è posto per
tutti, dico io. A casa propria tutti fanno quel che
gli pare. E se in alcuni paesi le donne sono così
stupide da accettare il chador anzi il velo da cui si
guarda attraverso una fitta rete posta all'altezza
degli occhi, peggio per loro. Se son così scimunite
da accettar di non andare a scuola, non andar dal
dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per
loro. Se son così minchione da sposare uno stronzo
che vuole quattro mogli, peggio per loro. Se i loro
uomini sono così grulli da non bere la birra e il
vino, idem. Non sarò io a impedirglielo. Ci
mancherebbe altro. Sono stata educata nel concetto di
libertà, io, e la mia mamma diceva: «Il mondo è
bello perché è vario». Ma se pretendono d'imporre
le stesse cose a me, a casa mia... Lo pretendono.
Usama Bin Laden afferma che l'intero pianeta Terra
deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci
all'Islam, che con le buone o con le cattive lui ci
convertirà, che a tal scopo ci massacra e continuerà
a massacrarci. E questo non può piacerci, no. Deve
metterci addosso una gran voglia di rovesciar le
carte, ammazzare lui. Però la cosa non si risolve,
non si esaurisce, con la morte di Usama Bin Laden.
Perché gli Usama Bin Laden sono decine di migliaia,
ormai, e non stanno soltanto in Afghanistan o negli
altri paesi arabi. Stanno dappertutto, e i più
agguerriti stanno proprio in Occidente. Nelle nostre
città, nelle nostre strade, nelle nostre università,
nei gangli della tecnologia. Quella tecnologia che
qualsiasi ottuso può maneggiare. La Crociata è in
atto da tempo. E funziona come un orologio svizzero,
sostenuta da una fede e da una perfidia paragonabile
soltanto alla fede e alla perfidia di Torquemada
quando gestiva l'Inquisizione. Infatti trattare con
loro è impossibile. Ragionarci, impensabile.
Trattarli con indulgenza o tolleranza o speranza, un
suicidio. E chi crede il contrario è un illuso.
***
>>>
SEGUE a
PAGINA 2 >>>