Alla fine dell’Ottocento la fotografia approda a tecniche evolute relativamente semplici e trova sempre nuovi campi di applicazione e di ricerca. Uno dei più significativi per l’influenza che ha avuto nella presa di coscienza delle nuove realtà sociali del tempo è il campo
documentario.
La fotografia documentaria in piena rivoluzione industriale denuncia la povertà di molti strati sociali, le misere condizioni di vita dei lavoratori, lo sfruttamento del lavoro minorile. La fotografia diventa uno strumento di analisi e di denuncia insostituibile perché permette di documentare, al di là delle parole ma con le immagini, quale sia la reale condizione di vita delle classi più povere e indifese, dai quartieri operai della Londra di fine Ottocento, ai sobborghi degli immigrati di New
York.
Proprio da New York il giornalista danese Jacob Riis (1849-1914) corredò i suoi articoli sulla vita degli immigrati con le fotografie delle case senza finestre dove si accalcavano intere famiglie, dei dormitori privi di servizi igienici che accoglievano anche duemila persone per notte, dei bambini che lavoravano dodici ore al giorno in ambienti senza luce né aria.
Queste fotografie furono pubblicate sui quotidiani e le riviste dell’epoca, presentate in esposizioni e conferenze e finirono per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica e del governatore di New York Teodoro Roosevelt, che si impegnò a risanare la condizione di vita delle classi più emarginate.
Il sociologo
Lewis Hine (1874-1940) si avvicinò alla fotografia nei primi anni del ‘900 per portare avanti una ricerca e una denuncia sul lavoro minorile. Lui stesso aveva lavorato da giovane in una officina che si serviva del lavoro dei bambini e conosceva bene le misere condizioni a cui erano sottoposti come mano d’opera a buon mercato ampiamente sfruttata. Realizzò e pubblicò molti servizi fotografici sul lavoro nelle filande e nelle miniere che favorì l’emanazione di leggi contro questo sfruttamento.
Durante la prima guerra mondiale lavorò come reporter nei Balcani per la Croce Rossa, seguendo sempre un approccio documentario fedele alla realtà che lasciava alla crudezza delle immagini la trasmissione del suo messaggio.
Al di là dei contenuti di denuncia sociale, i fotografi che nel corso degli anni hanno aderito a questa corrente sono spinti dal desiderio di seguire l’istinto, di scoprire il quotidiano e il reale. Fotografano quello che è alla loro portata e che cattura il loro interesse: lo sguardo di un bambino, la vetrina di un negozio, un passante. Fermano così vere immagini di vita nelle sue più sottili sfumature, messaggi la cui interpretazione è lasciata alla sensibilità dell’osservatore.
Jean-Eugène Atget (1857-1927) ha fotografato la vita parigina di tutti i giorni con un approccio semplice e veritiero, senza pretese artistiche, che ha influenzato tutta una generazione di fotografi realisti e ha fatto di lui il maestro della fotografia documentaria.
Fu amico di attori e pittori del tempo che utilizzarono come modello le sue prime fotografie. Era solito uscire la mattina presto per le strade della città per coglierne la vita più vera: una fontana, un chiostro, il teatrino delle marionette, la roulotte degli zingari, i mestieri ormai inconsueti o scomparsi.
Quando Napoleone III, nel progetto di ristrutturazione della moderna città di Parigi, promulgò la legge per far fotografare ogni strada che doveva essere demolita, le fotografie di Atget furono raccolte negli uffici governativi. Le sue quattromila lastre rappresentano oggi un patrimonio per la storia della città.
La fotografia documentaria ha avuto un vasto seguito anche tra i fotografi che lavorarono per le fabbriche di cartoline postali. Alla fine dell’Ottocento le cartoline venivano commercializzate a milioni ogni anno e i fotografi che se ne occuparono riuscirono a realizzare buoni lavori, lontani dalle tentazioni del lezioso pittoricismo o del facile romanticismo.
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