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Relazione Fabrizio Giovenale

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  LIBERAZIONE   DEI   CENTRI   STORICI   DAL   TRAFFICO

Città  a  dimensione  umana

Vi ringrazio per l'invito. Anche se, francamente, suona un po' strano che uno di Roma - la città dei palazzinari, degli abusi edilizi, la città con la più antica tradizione di corruttela amministrativa del mondo - venga a parlare di cose urbanistiche in questa Bologna che per mezzo secolo è stata in fatto di buon governo al primo posto in Italia. E' vero che  a Roma da qualche tempo (con le Giunte Argan-Petroselli, poi tra alti-e-bassi con le due Giunte Rutelli, adesso con Veltroni e il nuovo Piano Regolatore, anche se appesantito dall'eredità del passato) le cose hanno cominciato ad andare un po' meglio, mentre a Bologna sembra non vadano più tanto bene. Ma mi sento lo stesso un po' in soggezione.

Personalmente vengo da quella ristretta schiera di urbanisti (un altro è Edoardo Salzano che avete avuto qui a fine ottobre) che si sforzarono tanti anni fa di contrastare le rovinose derive edilizie del dopoguerra: anche con qualche buon risultato (penso alla legge-ponte urbanistica 765 del '67 e ai suoi decreti attuativi con gli "standards urbanistici"). Ma già ai tempi dei primi quartieri INA CASA e GESCAL, ricordo, gli esempi bolognesi facevano scuola: a partire dai nomi prestigiosi dei progettisti, da Leonardo Benevolo a Kenzo Tange. Oggi è difficile difenderli ancora quei quartieri, certo: ma è anche difficile dimenticare, per me,  che allora erano il meglio di quanto si andava facendo in Italia. Così come le proposte degli Anni 70 di Pier Luigi Cervellati per il risanamento dei quartieri seicenteschi di questa città, anche se non hanno poi avuto seguito, restano pietre miliari della nostra cultura urbanistica. 

Per questo - e per gli incontri con maestri come Carlo Doglio, Giovanni Emiliani, Lucio Gambi e con avanguardie ambientaliste brillanti (qualcuno ricorda "la Luna nel pozzo"?) - per me Bologna è sempre stato un posto dove venire ad arricchirmi di contenuti. E i documenti preparatori di questo incontro - il n.ro di dicembre di "La Sala Rossa" con la relazione di Maurizio Zamboni e gli altri interventi sul tema "la città che vogliamo" - non hanno fatto che confermare questo mio antico rapporto con la vostra città. Stavolta anche (soprattutto, direi) per il modo in cui le tematiche dell' ambiente sono state "calate dentro" il discorso urbanistico... Il che ha a che fare con un'altra mia percezione di segno diverso della realtà emiliana.  

Sviluppo economico e degrado ambientale

Mi riferisco al paradosso per cui mentre nell'Emilia dei primi decenni dopo la guerra il buon governo locale produceva benessere (a differenza di altre parti d'Italia attardate nel loro sviluppo da clientelismi e corruttele) - al punto di fare negli Anni 60-70 di Modena e Comuni circonvicini i più ricchi del mondo - le carenze di cultura ambientale, comuni a tutto il paese,  provocarono qui danni più gravi che altrove. In proporzione  diretta con i maggiori livelli di ricchezza raggiunti.

Mi spiego con un esempio. Proprio Modena è stata, che io sappia, l'unico Comune italiano che fin dagli Anni 50 ha acquisito tutti i terreni edificabili intorno, così che gli sviluppi successivi si sono poi svolti sotto completo controllo pubblico: al riparo da ogni pressione di interessi fondiari e venali. Una situazione ideale. Però a fine-Anni 70 Modena stessa, fra tutti i Comuni italiani, era quello che aveva occupato più territorio: fino a sei volte la sua estensione di prima. Questo per dire

quanto le esigenze legate all'ambiente (l'idea che l'usura dei terreni agricoli e "allo stato di natura" potesse essere un danno) fossero lontane dalla cultura di quegli amministratori, sotto ogni altro aspetto eccellenti.

Altri esempi: le acque e le terre avvelenate dalle lavorazioni ceramiche di Sassuolo; i prelevamenti eccessivi di sabbie e ghiaie dagli alvei fluviali (ho in mente immagini orripilanti di ponti addirittura rimasti sospesi perché l'alveo del fiume al di sotto era stato asportato); le terre agricole intossicate dall'uso eccessivo di pesticidi (ricordo il prato di un parco-giochi per bambini dove a lasciarceli andare, i bambini, ci sarebbero rimasti secchi). E in troppi casi troppo terreno fertile sottratto all'agricoltura da costruzioni delle quali si sarebbe potuto benissimo fare a meno.

Era questo, per me, il paradosso emiliano. Buon governo, benessere, buone intenzioni urbanistiche ma poca conoscenza idrogeologica e naturalistica e poca attenzione per gli effetti  sull'ambiente di quel che si andava facendo. Di più: se ne potrebbe  addirittura concludere senza sbagliare di troppo che è la prosperità economica stessa - al di là di certi livelli - a danneggiare l'ambiente. Più auto, più spostamenti, più consumi superflui, più inquinamenti... Il territorio non regge. E non ha retto nemmeno (anche questo è il caso di ricordarlo) il buon governo delle sinistre.

Argomenti scabrosi, come vedete. Come dire: va bene e sta bene l'equa ripartizione fra tutti della ricchezza prodotta, a patto però di renderci conto che l'equa ripartizione stessa in casi come questi rischia di tradursi non solo in ingiustizia nei confronti di chi sta peggio, in Italia e più ancora nel mondo, ma anche in insostenibilità per l'ambiente. E quindi in peggioramenti di qualità della vita per tutti. Cose sgradevoli da sentirsi ricordare, evidentemente: qualcuno ricorderà i guai incorsi al povero Enrico Berlinguer la volta che si azzardò a parlare di "austerità"... E tuttavia non mi sembra più possibile oggi, per una sinistra che si rispetti, non misurarsi con questi problemi, 

L'impostazione del PRG

Tornando a noi: avevo in mente questo "paradosso emiliano" nel leggere gli atti del vostro incontro di fine-ottobre. Che però mi hanno subito rassicurato facendomi ritrovare in un giro di idee su cui sono d'accordo. Tanto da farmi avvertire soltanto il bisogno di ribadire certe priorità  per gli aspetti ambientali dei problemi urbanistici, e suggerire di conseguenza qualche piccola integrazione.

Per capirci: d'accordo sul doppio rifiuto di considerare il territorio come una merce e di mettere l'urbanistica al servizio di affari e interessi fondiari secondo il rito ambrosiano di Albertini ripreso a Bologna da Guazzaloca. D'accordo sul fare del Piano un'occasione forte per ripristinare il controllo della politica sull'economia, e per rimettere al primo posto la qualità della vita per tutti e non gli arricchimenti di questo o di quello. D'accordo sui tre obiettivi indicati da Maurizio Zamboni: "riordino del territorio comunale", "recupero delle centralità ambientali e storico-artistiche" e "valorizzazione degli spazi pubblici". D'accordo, ovviamente, nel considerare "l'aria, l'acqua, il territorio e la forma urbana... beni primari indispensabili dei cittadini non riducibili entro le logiche del mercato", così come sul dovere pubblico di assicurare al territorio "un'armatura di servizi sociali": fermo restando però che questa "armatura" va pensata e attuata nel più rigoroso rispetto di quei "beni primari". D'accordissimo, infine, sulla necessità di "arrestare il consumo del territorio" ponendo (qui cito Edoardo Salzano) "limiti precisi all'espansione urbana".  Qui però avrei ancora un paio di cose da dire.

Produrre-e-consumare luogo-per-luogo

La prima è che un modo per cominciare a scrollarci di dosso la cappa di piombo dell'Economia Globale targata USA coi suoi andirivieni di lavorazioni e di merci qua e là per il mondo  (e relativi consumi di energia nei trasporti e aumenti di effetto-serra) sta nella scelta di produrre-e-consumare sul posto, zona per zona, parti sempre maggiori di quel che ci occorre per vivere. Darci come obiettivo, cioè, quel recupero della "sovranità alimentare" con tutti suoi annessi e connessi di cui parlano i NoGlobal. Una scelta tanto più opportuna, tra l'altro, per via dei venti di guerra che ci soffiano intorno: coi rischi conseguenti di difficoltà e di rincari proprio per i trasporti.

Ne parlo anche perché una scelta simile ha a che fare - se pure indirettamente - coi nostri problemi. Da una riduzione dei trasporti di merci "venute da fuori" a favore di quelle prodotte sul posto, infatti, deriverebbe un alleggerimento dei carichi sia sul sistema ferroviario che su quello stradale: nella Regione e attorno a Bologna. Il che, tra l'altro, renderebbe ancor meno necessaria la scelta del famigerato Passante Autostradale Nord: l'opposizione al quale potrebbe esser portata avanti con più convinzione, infatti, se si riflettesse di più ai danni che ne verrebbero per l'agricoltura delle aree attraversate... Nell'ottica, appunto, del maggior possibile avvicinamento alla "sovranità alimentare" e al "produrre e consumare sul posto". 

Questo anche in base all'idea - abbastanza lapalissiana, tutto sommato - che per i problemi del traffico la sostituzione della rotaia alla gomma e del trasporto pubblico ai mezzi privati non è che una metà della soluzione. L'altra metà andrebbe ricercata nel muoversi meno: nel ridurre i bisogni di spostamenti di merci e persone...  Eccomi così al mio secondo punto. Che non vuol essere altro che una ripresa e una messa in rilievo di scelte già presenti nei vostri documenti che ho letto.

"Isole urbane"

Mi riferisco in particolare, tra gli interventi del 29 ottobre scorso, a quello di Piero Cavalcoli quando parla di arrivare a fare a meno di quell'uso dell'auto "in ogni caso, anche per le necessità elementari: il giornale, il pane, le sigarette", e di "sostenere il commercio di vicinato" nel centro- città, e di riconversioni edilizie finalizzate a fornire "i più elementari servizi alla persona", e di trovare per le auto in sosta collocazioni al di sotto dei livelli stradali... Nonché quando parla di decentrare negli insediamenti periferici extraurbani servizi come la motorizzazione e il catasto così da ridurre le necessità di spostarsi dei cittadini.

Bene: tutto questo ha a che fare con un modello di organizzazione urbano-territoriale che Alberto Magnaghi (insegna urbanistica a Firenze, ha collaborato al "bilancio partecipativo comunale" di Porto Alegre 2002) va approfondendo da molti anni. Un modello di spazi ripartiti in "isole urbane" separate il più possibile l'una dall'altra dalla doppia rete delle vie di traffico (su rotaia e su gomma) e degli spazi verdi. "Isole" ognuna delle quali sia dotata nella maggior misura possibile di quanto può occorrere - "residenza, lavoro, servizi, loisir" (uso ancora parole di Cavalcoli) - entro distanze comode da percorrere a piedi. All'interno delle quali, quindi, la vita possa svolgersi a dimensione pedonale. Secondo ritmi tranquilli.

Ne parlo perché questa idea, se pure a fatica, sembra cominci a farsi strada. Perciò sono stato contento di averla ritrovata qui, e perciò ci insisto. Per fare un altro esempio: a Roma (città che si presta abbastanza allo "schema Magnaghi" per le molte penetrazioni di verde, e per le sue periferie cresciute "a macchie di leopardo, secondo la definizione di Renzo Piano) in sede di studi per il Piano Regolatore il CRESME (un Istituto di ricerche del Comune) ha studiato una suddivisione del territorio comunale in 182 "isole" su quel modello. E tra gli elaborati del Piano stesso ho rinvenuto

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una nota dove si parla di "circa duecento microcittà", indicate come "luoghi più significativi dell'identità locale", "luoghi propulsivi della riorganizzazione a piccola scala" e della "rivitalizzazione e riqualificazione diffusa dei tessuti".

Devo anche dire, per la verità, che gli estensori del PRG romano s'erano poi guardati bene dal riprenderla, quella indicazione. Sembra che non se ne fossero più ricordati... E' capitato a me quasi per caso di riscoprirla e riportarla alla luce durante i lavori del "Tavolo Verde" fra Comune e associazioni ambientali cui  partecipavo per il Forum Ambientalista. E si può anche capire che fosse passata in sottordine, perché in quel Piano sono in ballo problemi pesanti: aree agricole in pericolo per molte centinaia di ettari, nuove costruzioni per decine e decine di milioni di metricubi da fare o non fare... Perciò non ho ancora idea di quali sbocchi potrà avere, questa proposta  delle duecento microcittà: ho solo ottenuto che fosse ripresa nella normativa sulla partecipazione dei cittadini alle scelte di PRG. Che è già qualcosa.

...Anche perché l'idea della pedonalizzazione della città "isola per isola" mi sembra importante non solo per ridurre gli spostamenti obbligati coi mezzi a motore sia privati che publici e migliorare la qualità della vita, ma anche sul piano direttamente politico. Perché quella delle Isole di Magnaghi e delle Microcittà romane ( tra i 10.000 e i 15.000 abitanti) mi sembra la dimensione giusta entro cui le sezioni locali di un partito della sinistra come mi piace di immaginarmelo potrebbero chiedere ai cittadini, uno ad uno: "tu di che avresti bisogno per poter fare andando a piedi cose per le quali oggi sei costretto a prendere l'auto?"... e poi muoversi insieme ai cittadini stessi per ottenere quel che manca. Sarebbe anche un buon modo, direi, per riallacciare zona-per-zona rapporti là dove si sono allentati negli ultimi anni.

Chiaro che non conosco i vostri problemi al punto di poter valutare se e in che misura i modelli di Isole o Microcittà si adattino alle situazioni di Bologna e dintorni. Mi sembra di capire di sì per il Centro Storico in qualche misura, e probabilmente per i Comuni di cintura. In tutti i casi: è questo il piccolo suggerimento in più  che mi sento di dare - in sintonia con l'impostazione di Cavalcoli - alla vostra analisi dei problemi del Piano: quello di dedicare particolare attenzione alle possibilità di portare a dimensione pedonale, luogo per luogo, la maggior parte possibile di quanto occorre alla vita dei cittadini. Incluse le attività più "nobili": quelle che hanno a che fare con problemi di estetica, di qualità degli spazi, di identità specifica delle diverse zone...

I cittadini "uno-per-uno"

Potrei fermarmi qui. Già che ci sono, però, aggiungo un altro paio di annotazioni.

La prima mi viene da un incontro romano del giugno scorso sul "bilancio partecipativo" di Porto Alegre con alcuni che ne tornavano (tra cui Magnaghi stesso). Parlando di partecipazione dei cittadini, appunto, è venuta fuori la domanda: quali cittadini? Quelli nati sul posto? O quelli arrivati dopo? Quelli che arrivano da fuori per lavoro? O quelli che abitano lì e vanno a lavorare fuori? E gli immigrati? I nomadi?... Si poneva l'attenzione, cioè, sulle diversità.  E sul dovere di tenerne conto. Di non contentarsi cioè della nozione generica di "cittadini" ma arrivare a considerarli - al limite - uno per uno. Un modo di ragionare che mi sembra  rappresenti un buon passo avanti. 

Il mondo come un bicchiere...

L'altra riflessione ve la propongo come ambientalista. Come uno, cioè, che si rende conto dei limiti fisici della nostra Terra che sono quelli che sono, del numero continuamente crescente  (sestuplicato negli ultimi 200 anni) degli esseri umani che ci vivono sopra, dei consumi pro-capite di risorse terrestri in aumento anche più vertiginoso... Per capirci: provate a immaginarvi il mondo come un bicchiere, e la nostra specie come un liquido che l'è andato riempiendo sempre più in fretta. Fino a traboccare. Un liquido sempre più corrosivo per giunta (per via degli inquinamenti, effetto-serra etc.) che nell'aumentare di livello intacca gli orli del bicchiere stesso, ne riduce la capacità...

Si può discutere, certo, se è vero o no che il liquido sta già traboccando, o se c'è spazio invece per farcene vivere ancora esseri umani su questa Terra, e quanti, e per quanto. Di cibo, per esempio, ce ne sarebbe a sufficienza per tutti ancora a lungo se non fosse per le sperequazioni che sappiamo. Sul versante inquinamenti e relativi effetti sul clima, invece, l'orlo del bicchiere sembra proprio che sia stato già superato. Quel che è assolutamente certa in tutti i casi è l'assurdità del ragionare ancora in termini di crescita senza limiti: dell'economia e del resto. Per capirci: ho letto sul vostro "La Sala Rossa" l'intervento di Tiberio Rabboni della Provincia... Qualcuno dovrebbe aver la pazienza di spiegargli che seguitare a pretendere capra-e-cavoli, tutto e il contrario di tutto, i soldi e l'ambiente, il privato e il pubblico, non si può. E' un raccontare e raccontarsi bugie. Le cose non stanno così.

"Verso una nuova esperienza democratica di  società  comunista"

Per concludere: mi sembra che il tema dei limiti della crescita dovrebbe interessare in particolare  proprio noialtri. Qui, in questa sala. Per un motivo messo bene in chiaro da Giuseppe Prestipino (un filosofo con la tessera di Rifondazione comunista in tasca) nel suo libro "Narciso e l'automobile". Uno che dalle due realtà parallele dei "limiti fisici", appunto, e dell'appropriazione capitalista dei patrimoni di conoscenze accumulate da tutta l'umanità (si riferisce in particolare ai brevetti delle Multinazionali sulle mutazioni transgeniche) fa derivare la necessità della messa in comune tanto  delle conoscenze che delle risorse in una "nuove esperienza democratica di società comunista".

Ecco: secondo me per chi ha scelto la strada di Rifondazione queste tesi di Prestipino dovrebbero avere un gran peso. Dovrebbero portare a un rinnovamento profondo delle ragioni stesse dell'essere comunisti proprio col fare delle "ragioni dell'ambiente" una motivazione determinante per questa scelta. Per un rilancio dell'idea comunista nel mondo tanto forte  da contrapporsi con efficacia al "pensiero unico" dell'Economia Globale e al suo braccio armato.

Questo senza dimenticare, tuttavia, ciò che Prestipino stesso ricorda nel  suo ultimo libro "Realismo e Utopia" (è appena uscito, lo sto leggendo): e cioè che anche gli eventuali protagonisti futuri di questa  "nuova esperienza democratica di società comunista" si troveranno a dover fare i conti con la necessità di ridurre i consumi di risorse terrestri, e quindi con la necessità di ingegnarsi a ricavare la miglior possibile qualità della vita per tutti da  "una economia in contrazione"...

Vedete che, da qualunque parte si guardi, strada in salita davanti a noi ce n'è tanta. Anche se il modo in cui voi qui state affrontando i problemi del futuro della vostra città mi sembra proprio che vada - tutto sommato - nella direzione giusta.

Mi fermo qui. Con l'augurio a voi tutti - e a tutti noi che stiamo "da questa parte" - di buon lavoro.

Fabrizio Giovenale

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Aggiornato il: 23 febbraio 2003

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