LA CORSA CICLISTICA
Capitava molto raramente che un’importante
corsa ciclistica come il Giro d’Italia transitasse
per la strada che passava davanti a casa nostra,
l’avvenimento era dei più memorabili e tutto il paese
era assiepato lungo il bordo della provinciale
ad
aspettare di vedere i corridori.
Naturalmente anche noi ci eravamo appostati per l’evento
e tutti trepidanti per l'attesa, c'eravamo seduti
sotto la chioma di un noce che, con altri suoi simili,
allineati sul ciglio della strada, proiettava la sua ombra
e dava un poco di refrigerio
in quella giornata veramente
calda di fine maggio.
Prima dell’arrivo dei ciclisti era un continuo transitare
di auto, a bordo delle quali persone le più disparate
offrivano ogni sorta di ammennicolo,
anche per nulla consono allo spirito della gara:
ricordo che solo a Case Nuove furono comprati
quattro incredibili carretti siciliani in gesso
dipinto a mano con riporti di frutta in vernice dorata
ed
argentata che per quel periodo era il massimo del moderno.
Qualcun altro invece, si era ritrovato in casa
la classica boccia di vetro con un monumento della città eterna
sotto
una improbabile nevicata fuori stagione.
Il traffico di quella giornata rasentava il parossismo,
in poco più di un’ora erano passate tante auto
quante ne passavano di solito in un mese, non dimentichiamoci
che erano gli inizi degli anni settanta, e finalmente
dopo l’ultima pattuglia di polizia che imponeva di spostarci
sulla
carreggiata ecco che arrivarono i ciclisti.
Dapprima un folto gruppo, che sfrecciò veloce
davanti ai nostri occhi, tanto che non riuscimmo
a distinguere nessuno, poi poco tempo dopo un altro gruppo
all’inseguimento
dei primi e poi un altro ancora.
Non so da dove avesse avuto inizio la corsa,
fatto sta che stava ormai volgendo al termine,
lo stava a dimostrare il fatto che i ciclisti non erano
tutti in un gruppo compatto, ma suddivisi
in numerosi gruppetti, che probabilmente
si erano formati nelle
prime fasi della tappa.
La cosa che tutti facevano con grande entusiasmo
era tirare grandi secchiate d’acqua sugli accaldati
e sudati atleti ed anche noi non eravamo da meno:
ci eravamo attrezzati con secchi e padelle in modo
da
dirigere i getti con maggior precisione.
Quando passò l’ultimo gruppetto di corridori
visto che di acqua ne avevamo ancora tanta,
pensai bene di essere ancora più generoso nella distribuzione,
per cui invece di usare la piccola padella col manico
che mi aveva dato la nonna, presi direttamente
il
secchio da dieci litri, quasi pieno.
Per un ragazzino di dieci anni però, un simile secchione
è alquanto difficile da maneggiare, quindi all’ultimo lancio,
oltre al fresco liquido ristoratore,
partì
anche il contenitore di moplen azzurro.
Quel povero ciclista che se lo vide piombare davanti
all’improvviso, non seppe come reagire al fatto
e nel giro di pochi secondi piombò per terra,
in un groviglio di ruote e bici, assieme ad
altri
tre o quattro corridori.
“Dio mio!” che avevo combinato?
Per colpa mia avevo fatto cadere quattro persone,
e per giunta poverine, anche in fondo alla corsa,
notevolmente in ritardo sul gruppo dei
primi in testa.
Cominciarono a fermarsi le auto delle ammiraglie al seguito,
e man mano che la fila di vetture si allungava,
cresceva anche la mia paura di essere
“portato
in prigione dai carabinieri” per quello che avevo fatto.
Me la diedi a gambe levate e mi nascosi
dietro ad alcuni "gabbioni" dove la vicina di casa della nonna
allevava premurosamente i suoi polli e conigli;
da li seguivo gli sviluppi di quella situazione a dir poco
molto
molto imbarazzante.
Nel frattempo mio cugino, più grandicello di me,
cercava di attirarsi le colpe urlando a più non posso
”sono stato io, scusate, sono stato io”, anche perché
sapeva chiaramente come si sarebbe comportata mia mamma
alla vista di quel simile putiferio, se solo avesse
sospettato
che a scatenarlo fosse stato il suo figlio diletto.
Da dietro il gabbione cercavo di sbirciare tutta la scena,
con le gambe che tremavano di paura; effettivamente
non vedevo molto bene, ma potevo sentire tutto
quello che succedeva, e le parole che meglio ricordo,
tra tutte quelle pronunciate in quel frangente,
furono soltanto quelle del disgraziato
a cui avevo tirato il secchio, che rialzandosi dall’asfalto rovente
e guardando mio cugino con occhio benevolo,
diceva con una voce intrisa di una inaspettata pazienza:
“eh bambini bambini!”
Chissà
chi era?
Dopo tutti questi anni, mi verrebbe spontaneo
inviargli un tardivo quanto immensamente sentito
"MI
SCUSI".