COME
TRASFORMARE VINO IN ACETO
Tra
le varie incombenze della stagione
autunnale,
quella preferita da mio
nonno
era sicuramente la vendemmia,
quando
aiutato dall'intera famiglia si
indaffarava
nella raccolta dei grappoli
d'uva
che crescevano nella piccola
vigna
che possedeva e sul pergolato
davanti
al portone d'ingresso della
nuova
casa in cui si era trasferito.
La
passione del vignaiolo era rimasta
in
lui fin da piccolo, quando assieme a
suo
padre ed ai tanti fratelli si
accingeva
a spremere dall'uva il succo
che
poi col tempo e la pazienza si
sarebbe
tramutato in ottimo aceto, e
si,
proprio aceto , dato che Arturo non
fu
mai un ottimo vignaiolo!
La
raccolta era preceduta da una
settimana
di intense consultazioni tra
vicini
allo scopo di stabilire l'esatta
maturazione
dell'uva e di conseguenza
l'esatto
giorno della vendemmia: si
scrutava
anche il cielo e le condizioni
del
tempo e si tremava al solo pensiero
che
alcuni giorni di pioggia potessero
ritardare
la data stabilita.
In
molte occasioni, ricordo, tutto
andava
a monte a causa di un acquazzone
improvviso,
con grande dispiacere del
nonno
che vedeva rovinata quella che
lui
definiva "un'ottima annata".
Ci
si muniva quindi di canestri e
panieri
in cui si depositavano i
grappoli
brulicanti di formiche e
forbecchie,
e con questi contenitori ci
si
avviava verso quella che era la
cantina,
cioè il fondo di casa in cui
erano
svolti tutti i lavori collettivi
della
famiglia: dalla raccolta del
miele al bucato, dalla vendemmia alla
macellazione
del maiale.
In
questo locale che è proprio
il caso
di
definire polivalente, veniva montato
un
grosso tino di legno, appoggiato su
dei
rialzi in mattoni, e sopra di esso
si
appoggiava la pestatrice a mano,
uno
sferragliante macchinario che noi
ci
divertivamo a far funzionare ,
girando
la grande manovella posta sul
davanti;
essendo troppo piccoli questa
era
l'unica cosa che il nonno ci
lasciasse
fare, perchè altrimenti
avremmo
rovinato il suo "Rosso del
Foglia".
Cominciavano
dunque ad arrivare i primi
canestri
ed i parenti, tra cui
spiccavano
due cognati grandi
intenditori
di vini, gettavano negli
ingranaggi
della pestatrice i grappoli
d'uva
, controllando che venissero
omogeneamente
schiacciati, noncuranti
del fatto che a volte tra gli acini
succosi
ci finivano
l'ambiente si
e
naturalmente anche di centinaia di
mosche
che erano attratte dall'aroma
dolciastro
dell'uva schiacciata; molte
posatesi
sui chicchi succosi, finivano
sommerse
da una cascata di altri
chicchi
e grappoli e contribuivano così
con
la loro morte a rendere ancora
migliore
l'annata dell'aceto.
Il
tino si riempiva lentamente e con il
livello
cresceva anche l'orgoglio di
mio
nonno nel vedere l'abbondanza del
raccolto;
si andava avanti così per
quasi
mezza giornata, poi a mezzogiorno
la
pausa per la sacra pastasciutta
interrompeva
l'andirivieni di cesti e
parenti,
e ci si sedeva a tavola tutti
insieme
a mangiare e discutere davanti
ad un
bel
bicchiere di aceto dell'anno prima.
Nei
primi anni del sessanta in casa
Polidori
non erano ancora arrivati i
digestivi,
per cui alla fine del pranzo
si
tornava subito al lavoro senza
perder
tempo, d’altronde dopo un
bicchiere
di quell'
intruglio, ritengo
si
potessero digerire senza difficoltà
anche
i sassi.
Si
continuava dunque per tutto il
pomeriggio,
ma nella maggior parte dei
casi
i canestri ricolmi d'uva finivano
poco
dopo la pausa del pranzo , quindi
le
ultime ore della giornata erano
dedicate
alla pulizia del fondo, e mia
a questo punto si trovava sempre di
fronte uno spettacolo terrificante: i vignaioli
sfatti
e la stanza orribilmente tappezzata
con
mosto e chicchi sparsi sul pavimento
ad
appiccicare le scarpe ed uno stormo
di
insetti svolazzanti
a cui nel frattempo si erano
aggiunte
anche feroci ed accanite vespe
che scendevano in picchiata sui bordi
del
tino e sui chicchi che affioravano
dal
mosto alla ricerca di un poco di
nutrimento.
Non
era possibile usare il DDT per
disposizioni
del nonno, per cui si
ricorreva
allo straccio ed alla paletta
per
scacciare o colpire gli intrusi,
oppure
si usava la carta moschicida
appesa
alle travi come esca e la si
toglieva
solo quando era completamente
tappezzata
di neri insetti.
Dopo
una giornata del genere il mosto
era
lasciato a riposare per alcuni
giorni
, sotto i frequenti controlli
del
nonno atti ad accertarsi che la
fermentazione
procedesse per il verso
giusto,
quindi si procedeva a travasare
il
tutto nelle botti che nel frattempo
erano
state revisionate , inumidite e
rattoppate
per la nuova annata.
A
volte erano lasciate per settimane
intere piene d'acqua e coperte di balle
inumidite
affinchè il legno gonfiandosi
potesse
riprendere la forma originale,
e
chiudere quelle fessure che un lungo
periodo
di disuso poteva creare; tutta
quell'
umidità però, oltre a rigonfiare
il
legno provocava a volte anche la
nascita
di qualche strana muffa, per
cui
si provvedeva subitamente a fare
con
dello
zolfo e non so quale altra
diavoleria,
delle fumigazioni
all'interno
della botte, che era quindi
disinfettata
e pronta per ricevere il
nettare
dell'uva da poco pigiata; per
quanto
però mio nonno prestasse
attenzioni
e cure particolari al
contenente,
il contenuto alla fine era
sempre
lo stesso: aceto!