Liriche del groto  

 

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Note

Leon Battista Alberti aveva scritto, tra il 1450 e il 1452, i Ludi Matematici (Ludi rerum mathematicarum),1) per Meliaduso d'Este, fratello di Leonello, al quale aveva dedicato il De Architectura. Ciò che è interessante nei Ludi Matematici, e che si confaceva perfettamente alle esigenze del piccolo Stato estense che con Borso aveva dato il via a una serie imponente di bonifiche, è la presentazione di uno strumento, l' Equilibra,2) che tra le altre cose permetteva di livellare un terreno e di controllare il flusso delle acque. La cosa, per la sua importanza, non poteva non interessare il Ducato di Ferrara, che nel breve volgere di qualche anno si sarebbe avviato a diventare quello che, con espressione veramente felice, Carlo Poni definì un vero e proprio "Principato idraulico".3) E i temi "idraulici", com’è noto, erano molto vicini agli impegni scientifici del Groto, e in tal senso mi si permetta la preterizione sulla sua ormai leggendaria orazione sul taglio di Porto Viro.4) Più interessante rilevare che egli si occupava anche di agricoltura, accanto all’amico Bonardo nella Villa di Fratta. Un altro "eretico" nostrano, il rodigino Giovan Maria Avanzi (1549-1622), per vari versi anch’egli in contatto con la Corte di Ferrara e con il Groto stesso, svolgeva a Corte "argomentazioni sulla cultura del grano e del fagiolo...",5) individuando spunti ed echi interessanti delle discussioni ferraresi sull’argomento nello scandaglio della biblioteca del Groto. Le dotte dissertazioni ferraresi sul "fagiolo" non erano di poco momento, in quanto andavano a toccare uno dei punti più qualificanti delle problematiche relative al rinnovamento del regime alimentare in età moderna. Il fagiolo, infatti, d’importazione americana, andava a sostituire sia la più antica fava sia il "vilis phaselus" di virgiliana e folenghiana memoria, che costituirono la "base d[ell’] alimentazione vegetale per secoli…: di origine asiatico-africana, venivano già coltivati dai greci e dai romani…".6)

Siamo già nel cuore del problema: la Corte estense rappresentò nella mente del Groto un punto fermo, la tensione di tutta una vita. Certo, essa si rivelò una mèta sempre sfuggente, mai completamente posseduta, o posseduta solo in parte. Però l’agire del Groto, tutto il suo essere era proiettato verso la Corte, di cui sondava gli interessi e le inclinazioni, appunto per meglio riuscire a introdursi nei gangli di quella che egli considerava il punto d’arrivo di tutta la sua attività di poeta e di drammaturgo.7) E mentre la Corte di Ferrara riverberava sulla scena della storia i suoi ultimi luccicanti bagliori ( la devoluzione del Ducato estense al papa avvene nel 1598, ad appena tredici anni dalla morte del Cieco d’Adria), il Groto malinconicamente, ma consapevolmente, operava i suoi reiterati tentativi, destinati però sempre a repentine disillusioni. Ma cosa cercavano le Corti padane ai tempi del Groto? Quali "cortigiani" erano particolarmente appetiti? L’uomo che affiancava il Signore, in un momento di transizione verso il "moderno", era tutto sommato ancora l’intellettuale umanista, provvisto di saperi esoterici, ma, soprattutto, accanto a lui, e con funzioni importantissime, "l’ingeniere". Occorre sempre anteporre ai letterati gli "artefici delle cose mecaniche (sic) e particolarmente gli ingenieri".8) Le città padane, ma in special modo Venezia e Ferrara, stanno avviando a maturazione quella che Olivieri ha definito una nuova "antropologia".9) E dentro questa parola ci sono molte cose, ma su due essenzialmente occorre riflettere: sull’indirizzo tecnico-pratico cui sembrano avviate le Corti e sul ridimensionamento dell’uomo di lettere. Quanto al primo aspetto, Mantova, Ferrara e Venezia sono le punte di diamante: l’uso spregiudicato degli "ingenieri" e dei tecnici più qualificati, anche se sospetti d’eresia,10) fanno di queste città i luoghi privilegiati della modernità. A Venezia lavora Tartaglia;11) da Ferrara passa Da Paratico, ingegnere militare, ma anche, vale la pena di sottolinearlo, studioso di agricoltura, conterraneo di Tartaglia, e ottimo collaboratore di un Alfonso II, che è un tecnico di prim’ordine e gran conoscitore dei segreti dell’artiglieria e degli apparati militari estensi, che già da tempo erano tra i più moderni d’Europa.12) Ferrara è inoltre impegnata sul versante delle bonifiche: di qui le discussioni sulle acque e sull’ agricoltura, un’attività che dev’essere sempre presente a un Principe che conosce sino in fondo l’importanza strategica di far fronte ai periodi di crisi potendo contare sull’approvvigionamento sicuro delle derrate alimentari. L’estensione delle terre, il loro controllo politico e il miglioramento delle rese agricole diventano il fulcro del pensiero riformatore del Duca. L’editoria veneziana, a sua volta, sosteneva a denti stretti la libertà di pubblicare tutto ciò che il mercato scientifico, specialmente matematico e militare, produceva.14) La strada dell’intellettuale umanista verso la Corte, in un clima siffatto, è molto più incerta che nel passato, perché essa ora richiede, soprattutto, saperi scientifici e tecnico-pratici. Ma il Groto possedeva qualcosa in più rispetto alla pletora dei letterati-poeti: teneva sul suo tavolo Aristotele e Archimede,15) e insieme con loro altri filosofi antichi dai quali traeva il materiale sapienzal che faceva di lui un mago e un sapiente. "Sofos", il sapiente, è anche il mago: i due termini si confondono nel Rinascimento. Toscanelli, oltre al calcolo e alla matematica, curava l’astrologia: questo non è strano, è normale in un intellettuale votato alle scienze, prima della Rivoluzione galileiana.16) Il Groto, a sua volta, non è un letterato "astratto", è un umanista che coltiva l’orticello della scienza, che si interessa, già l’abbiamo rilevato, insieme con l’Avanzi, della coltura del "fagiolo", che era una conquista "americana" di data recente. Abbandonare l’antico e vetusto "vilis phaselus" del Folengo, il più diffuso in Italia, significava fare un ulteriore passo avanti verso una modernizzazione dell’agricoltura. Groto e Avanzi lavorano in questo senso. Il Groto sembra arrivare tardi sulla scena della Corte: ancora compartecipe di un’antropologia del primo Rinascimento, egli si presenta con saperi "universali" che paiono cozzare contro la realtà. Intellettuale periferico, nato verso la metà del Cinquecento, egli patisce in pieno la crisi del letterato tardo-rinascimentale. L’intellettuale umanista non è più il consigliere del Principe, ma colui che deve solo obbedire,o, ancor peggio, una sorta di "giullare cortigiano".17) Il Groto sembra arrivare tardi, e in più con una formazione culturale protocinquecentesca, alla maniera dei Ficino, dei Pico, dei Melantone e di quanti altri che, insieme con le "Humanae Litterae", coltivavano saperi esoterici, misti di astrologia, cabala e magia.18) Tutti saperi ormai in odore di eresia, nel momento in cui la Chiesa riprendeva in mano la situazione, bloccando l’antica tensione degli umanisti agli sconfinamenti verso quei campi, specie teologici, che avevano fatto deflagrare la bomba della Riforma protestante, che aveva attecchito, in forme diverse, persino tra il popolo "idiota".19) Erano quei campi che essa ormai non avrebbe mai più permesso a nessuno di arare. Gli Statuti lincei, ancorché tardi, riflettono palesemente il nuovo clima che sin dai tempi del Groto si stava venendo a instaurare, e parlano da soli: "Nelle controversie politiche e teologiche non si ponga mai e poi mai la penna, come mai si deve, per esempio, mietere le messi che appartengono ad altri; e se proprio qualcuno, per comando di un qualche Prìncipe o per qualunque altra causa strettamente necessario, debba per forza discutere o scrivere intorno a questi argomenti, richieda dapprima il consenso del Prìncipe linceo, e ricordi in tale edizione o disputa di non qualificarsi mai come linceo…".20)

Invece era esattamente in forme del tutto tradizionali che il Groto, umanista e poeta, pretendeva di servire la Corte: egli era il poeta, il mago , il sapiente e il profeta in grado di offrire servigi "antiqui", di collaborare insieme con il Principe a una costruzione politica della realtà. Anche se ormai i tempi parrebbero irreversibilmente mutati, e il Groto sembrerebbe, pirandellianamente, un uomo "fuori di chiave", sfasato rispetto alla realtà contemporanea, che si avviava a un ridimensionamento totale dell’uomo di lettere, e anche se egli intuiva probabilmente il logoramento progressivo dell’istituto classico del poeta-vate e del mito platonico dell’ispirazione divina del poeta, in grado di creare "ex novo", grazie ai suoi poteri, realtà futuribili, tuttavia nelle Corti c’erano ancora spazi per la figura del "profeta".21) Il Groto insinuò costantemente un rapporto stretto tra sé e Omero, tra sé e il vate cieco Tiresia (non ricoperse forse, a pochi mesi dalla morte, il ruolo di Tiresia nell’inaugurazione del Teatro Olimpico di Vicenza?).22) Tanta insistenza del Groto sul ruolo profetico del poeta va presa in seria considerazione, perché è probabilmente qui che il Cieco d’Adria "vide", con gli occhi del veggente, il "varco" attraverso il quale passare alla Corte di Ferrara. E’ ancora Olivieri che individua nell’antropologia di città "moderne" e fortemente interdipendenti l’una dall’altra come Venezia e la Ferrara estense il ruolo ancora vivo e vitale del "profeta", dell’uomo consigliere del Principe. Se il letterato aveva perduto, al profeta restavano aperte ancora molte vie di successo. Quel che ci si può chiedere è perché il ruolo profetico, un ruolo tutto sommato "antico", reggeva ancora bene nelle Corti. La ragione l’ha individuata molti anni fa Arnaldo Momigliano, quando acutamente rilevava che la profezia costituiva la "terza via" dell’interpretazione della storia, e soprattutto dell’acquisizione del consenso, ed era proprio perciò una strada, questa, "protetta" dal potere, perché la profezia garantiva, attraverso il vaticinio, la giustezza del "fare politico" del Principe, e la sua ovvia consonanza con gli arcani disegni di Dio.23) Le osservazioni del Momigliano si riferiscono al mondo greco-romano; però è degno di nota il fatto che il "profetismo" conoscesse una stagione fiorente e rigogliosa nel primo Cinquecento, e in funzione filoimperiale, fornendo supporti oracolari alle scelte politiche di Carlo V.24) Nella seconda metà del Cinquecento si ebbe una rivivescenza del "Sibillismo" dopo un evento epocale, ossia dopo la battaglia di Lepanto, che vide la grande vittoria cristiana contro i Turchi.25) E’ da notare che questa vittoria fu profetizzata nel Senato Veneto da Luigi Groto, ed egli ne menò sempre un vanto grandissimo.26) Persino commentando una poesia, com’era suo uso e costume, La Dea di Cipro poi che vide guasta, il Groto non mancava di ricordare ai lettori la sua "Oratione, che l’Autore stesso fece al Senato di Vinegia, sopra quella maravigliosa vittoria".27) La battaglia di Lepanto, le celebrazioni di essa, videro sempre il Groto in prima linea, a suggerire, a spronare i poeti contemporanei a cantare l’encomio del fatale evento. In questa presa di posizione del Groto si cela un modo pragmatico d’intendere l’ "ars poetica", da non interpretarsi "in toto", con Ersparmer, come semplice "lusus", ma come attività pratica che deve operare un’azione sugli uomini.28) Groto è quindi un interprete consapevole del ruolo del poeta-profeta: ne difende le prerogative e ne esalta i meriti perché è appunto attraverso il riconoscimento di questi che egli può sperare in un inserimento nella Corte di Ferrara. Scaduto il ruolo dell’umanista, essendosi ormai fatto pletora il numero dei letterati-poeti pretendenti alla vita di Corte, il Groto, acutamente, avvertì che la via ancora aperta e percorribile era quella del "profeta" e della poesia come profezia, e, soprattutto, comprese quale stima ormai circondasse gli "ingenieri", i quali, come sentenziò lapidariamente Apolinare (sic) Calderini, al contrario dei letterati, " son quegli che con l’ingegno loro mantengono i paesi e bisognando li fanno migliori e arricchiscono li lor Prèncipi…".29)

E il Groto, accanto alla profezia, manifestava "competenze scientifiche" molto credibili. Quando il Groto e il Bonardo, nel chiuso della Villa di Fratta, studiavano gli elementi che componevano la "Mundi Machina", sapevano cosa si richiedeva al letterato-scienziato: conoscenza della Natura. Il Groto stesso definì l’amico Bonardo, autore de Le Ricchezze dell’agricoltura, "attentissimo contemplator dei più interni secreti della natura".30) Né si deve credere che Groto e Bonardo praticassero con l’agricoltura cosa vile e plebea, anzi, essa si poneva non solo "in posizione privilegiata nella gerarchia delle professioni e delle arti", ma addirittura "richiedeva" l’opera del sapiente e del "mago", poiché, come scriveva un patrizio veneziano, Hieronimo Capello, " agricoltura est magia naturalis…, et…etiam animo nobili digna est…".31) E mentre Bonardo dissertava intorno al maggese, raccomandando "…adunque che l’agricoltore partisse sempre i suoi campi, in tre parti, una parte, cioè un terzo s’empisse di frumento, un altro di minuti, e l’altro si lasciasse vòto…",32) sempre nelle loro menti c’erano le aspettative delle "grandi" città, Da Ferrara a Mantova fino a Parigi e Londra.33) E lo studio della "magia naturalis" costituiva solo una delle multiformi attività scientifiche del Groto, che fende il suo tempo con una cultura che viene da lontano, da molto lontano, dal profondo del primo Cinquecento. E ciò perché egli ebbe contatti interessantissimi con uomini di una generazione più vecchi di lui.

Una delle più importanti Accademie dei tempi del Groto fu l'Accademia Veneziana o della Fama, che concluse il suo itinerario verso il 1561, e che aveva un programma "megalomane" ed enciclopedico, proponendosi di sviscerare "tutte le scientie, arti et facultà", un progetto sicuramente appetibile per un uomo come il Groto, che puntava ad acquisire credenziali di tutto rispetto nella sua "avanzata" verso la corte.34) Intorno a questa Accademia, su cui circolava una strana aura di "eresia", che preoccupava persino il Bembo, ruotavano uomini come Domenico Venier, Orazio Toscanella (studioso e divulgatore di Lullo, Agricola, Ramo ), Ludovico Dolce, tutta gente che il Groto conosceva benissimo. Toscanella e Dolce frequentavano, come lui, i Pastori Fratteggiani a Fratta;35) Ludovico Dolce era amico dell’Aretino, di cui il Groto aveva in casa quasi tutta l’opera, accanto alla quale stavano i libri di altri eretici, come Erasmo, l’Ochino, Agrippa, che Bodin definiva "uno de’ maggiori Magi del mondo".36) Si dice fosse stato per tali letture, corruttrici della gioventù, di cui il Groto era "maestro" a tempo pieno, che il Vescovo Canani gli avesse intentato un processo, per cui fu accusato d’eresia nel corso del 1567. In realtà il Groto scopriva il fianco a indagini inquisitoriali anche per altre ragioni, forse più decisive agli occhi del Vescovo, che non il solo possesso dei libri degli "eretici", ossia per i suoi rapporti sia con gli ambienti dell’Accademia Veneziana sia con quelli vicentini, con uomini, per fare qualche nome, come il Magagnò e lo stesso Palladio, legati all’Accademia Vicentina, particolarmente sensibile alle suggestioni protestanti e anche calviniste.37) Il Vescovo Canani era un inquisitore sottile, e fu lui a sgominare tutta la compagine dell’eresia popolare polesana, venata di forti tinte anabattiste, con processi che videro al centro due notai di Badia, Giovanni Ludovico Bronzier e Giovanni Leonardi, i quali, proprio in virtù della professione che esercitavano, quella notarile, avevano modo di incidere profondamente sul popolo anche minuto, diffondendo l’eresia anabattista con un’efficace azione propagandistica.38) Domenico Venier costituiva poi l'interlocutore privilegiato del Groto, che egli consultava insistentemente per riceverne consigli nella correzione delle sue Rime, così come facevano normalmente poeti notissimi, dai due Tasso, Bernardo e Torquato, a Veronica Franco.39) La poesia rappresenta infatti per il Groto un ulteriore strumento di dominio, anche e soprattutto sugli altri poeti. Il Groto fu un "tecnico" della poesia, ma dovette dimostrare di essere assolutamente migliore degli altri e soprattutto di possedere strumenti conoscitivi alternativi ai comuni mortali. Groto, è stato detto, è un manierista e un virtuoso della lingua. Uno che ci sapeva giocare, ma che in fondo non aveva quasi nulla da dire.40) Siamo di fronte a un’ottica critica depistante, perché, già con le sole "forme" il Groto ci dice qualcosa, e in primo luogo di voler vincere una guerra logorante con un esercito di pretendenti alla vita di Corte, una pericolosa quanto invadente pletora di "colleghi manieristi", ai quali la corte richiede una sorta di "congelamento" delle forme, di costruire una materia poetica "per sempre". Le corti del tardo Rinascimento si chiudono in se stesse e richiedono al letterato una "ripetizione formulare", quasi magica, di una poesia che aveva segnato il periodo più splendido e vitale della loro storia.41) Quale differenza di toni si può notare tra un esercizio con l’ "eco" di Serafino Aquilano, principe dei poeti delle corti padane del Quattrocento, e uno simile del Groto? Credo nessuna.42) Quella poesia aveva segnato la grandezza della corte; quella era la poesia che doveva indicare la strada del fare poetico cortigiano, una poesia che doveva segnare, adesso, la "persistenza" della grandezza, specie in tempi che andavano riverberando sulle corti, e in special modo su quella estense, sinistri segnali di un imminente decadimento. E in questa "richiesta" sta anche la risposta, pletorica, di quanti di sentivano votati alla vita di Corte, ed erano tanti, tantissimi, una turba immane di "poeti", che bussava alle sue ormai strette e anguste porte. Eccoli i "manieristi", gli artefici dell’ingegno e dell’ "agudeza"! Essi portano tutti lo stesso marchio: un’abilità tecnica sempre accompagnata da una malinconica consapevolezza che non servivano a niente la virtu è il valore, poiché a Corte allignavano la corruzione e le raccomandazioni dei potenti. Come quelle che si faceva scrivere Anton Francesco Doni dagli Accademici Pellegrini, i quali, nel giro di due giorni, dal 13 al 15 "gennaro" del 1557, spedirono due lettere di raccomandazione alla Corte di Ferrara, una direttamente al Duca e l’altra al "Mag.co S.or Alessandro Fiasco, Gentilluomo dello Ill.mo et Ecc.mo S.or Duca di Ferrara". Gli Accademici spingevano per far assumere il Doni, uomo umile e mansueto e per nulla presuntuso: "…Et avertisca V. Ecc.za ch’egli è modesto e non punto presontuoso: ma servente fedele. Noi ve lo raccomandiamo adunque strettamente; e tutta questa nobiltà dell’Academia (sic) et letterati spiriti, ne resteranno con obligo (sic) eterno a V. E. di quanto bene farete nel bello ingegno del Doni cordial servo della Casa da Este, et di V. Ecc.za, alla quale, baciando la mano, preghiamo il Signore che la feliciti in tutte le sue imprese…".43) E Dietro il Doni gli altri; e più tardi il Groto. Ma, come scriveva il Belo, "sono finiti i tempi del duca Borso".44) Ora l’intrigo, l’adulazione la raccomandazione si univano armate contro l’uomo di valore. E c’è, diffuso, nello scrittore manierista, una profonda insoddisfazione e l’impressine costante di arrabattarsi e umiliarsi per nulla. Il manierismo del Groto si muove su queste due direttrici: il congelamento della poesia nell’artificio, la "via sacra" della penetrazione a Corte e l’acuta disillusa malinconia di chi sa dell’inutilità degli sforzi. E allora il Groto imbocca anche altre strade, per dare più forza e un valore più alto alla sua poesia, facendone non solo uno strumento di piacevole intrattenimento, ma anche un modo per dire verità politiche e profetiche, battendo sulla breccia quanti puntavano su di essa come puro divertimento cortigiano. Non per niente una volta gli venne orgogliosamente di dire che lui, Groto, era più " ricco d’inventioni del Tasso".45)

Osservava Carlo Dionisotti che nel corso della guerra d'Oriente, a Venezia si alzò spesso la voce del Groto, a incitare nonché a celebrare la gran vittoria sui "cani" infedeli. Il Groto fu un personaggio di primo piano anche nell'ambiente veneziano: fu lui ad approntare Il Trofeo, ossia la silloge che comprendeva tutti i poeti che "cantarono" la gran vittoria di Venezia sui Turchi a Lepanto. Di fronte al Senato, il Groto arrogò a sé la primogenitura della divinazione dell'evento bellico più importante della seconda metà del Cinquecento.46)

"Io fui il Primo", disse il Groto in Senato, ricordando il suo "vaticinio": "...Si può dire ch'io sia stato il primo messaggero, che in questo sacro collegio abbia portato l'annuncio di sì memorabil vittoria".47)

Il significato dell'operazione culturale che egli stava svolgendo non può sfuggirci: egli era il nuovo Omero, colui che avrebbe cantato le vittorie della Serenissima; egli era dotato di spirito profetico. Chi, meglio di lui, poteva aspirare a un ruolo di guida, di sostegno, di sprone per la società del suo tempo?

L'operazione del Groto fallì. Ma, come ha osservato Dionisotti, il Groto capì che si stava aprendo una vacanza nel potere letterario, ed egli vi si insinuò con certe intenzioni, avendo compreso come, dopo Lepanto, "gli eventi militari corrispondessero all'aspettazione...di motivi eroici e tragici, di poesia delle armi piuttosto che dell'amore". Ed è altrettanto vero, continua Dionisotti, che " nel 1571-1572 il Cieco d'Adria mettendosi alla testa di quella celebrazione letteraria veneziana della crociata contro i Turchi della vittoria di Lepanto, approfittò dell’occasione per una proposta stilistica libera da ogni controllo e freno, tipicamente barocca".48) Qui entriamo veramente nel cuore delle motivazioni più plausibili del "nuovo stil" del Groto, diverso da quello di Petrarca e teso verso un'autoesaltazione, cogliendo l'occasione degli entusiasmi sollevati dalla vittoria a Lepanto. E a questo punto occorre approfondire l'intelligente spunto offerto da Dionisotti. Venezia era per il Groto una scena di eccezionale risonanza nazionale, mondiale addirittura. Venezia era anche la città meglio adatta a valorizzare le sue doti di mago e veggente, anche perché essa aveva, guarda caso, come simbolo proprio il "profeta".49) Era un'occasione unica, perché, proprio in quegli anni, a ridosso cioè della battaglia di Lepanto, il potere, scrive Antonucci, " ...sfrutta, al servizio della sua ideologia, il ruolo profetico delle Sibille".50) Le Sibille, che tanta parte ebbero nel profetismo antico, specie romano, in una chiave prettamente ‘politica’, trovarono uno ‘sfruttamento’ eccezionale fra Quattro e Cinquecento come ‘simboli’ dell'elezione divina del potere’, annunciatrici di un ‘trionfo’ del potere imperiale e delle Corti più in generale. Questo mito di un potere "trionfante", finalmente raggiunto e concretizzato, sembrò avverarsi proprio dopo la battaglia di Lepanto. " Queste profetesse, rileva acutamente Antonucci, entrarono così nella drammaturgia medioevale e rinascimentale, proponendosi, peraltro, non solo come portavoci dell’avvento e del sacrificio divino, ma anche dei giuochi di potere. Non a caso, esse compaiono, insieme ai profeti, nelle feste e nei trionfi delle grandi Corti, alla fine del Quattrocento: simboli dell’elezione divina del potere". Rileva ancora Antonucci che, dopo il fortunato evento bellico, l'Europa sembrava dischiudersi su orizzonti ottimistici quali non si erano mai veduti, e ciò "dopo la vittoria di Lepanto del 1571 sui Turchi. Il mito del potere sembrava infatti essere diventato realtà, e questo ottimismo tovò la sua espressione teatrale nei tornei di corte che si tennero, nel settembre del 1572, per l'incoronazione dell'arciduca Rodolfo a re di Ungheria".51) In quella particolare occasione, conclude Antonucci, "il mito del potere veniva rappresentato in azioni sceniche nelle quali gli attori rappresentavano i regnanti che concretizzano l’ideale del mondo cristiano europeo del Cinquecento". In un simile scenario, ove vittoria militare e unità cristiana simboleggiavano ad un tempo una vittoria verso l'esterno e un futuro superamento delle divisioni fra cristiani, è evidente che avere la "primogenitura" dell'evento significava la gloria a livello internazionale . Il Groto aveva perfettamente capito tutto ciò: di qui si spiega sia l'impegno profuso per mettere in piedi il Trofeo sia l'insistenza, in Senato, per arrogare a sé il primato di un evento bellico epocale, che nella mente dei contemporanei segnava l’inizio di una nuova èra, la concretizzazione delle secolari aspirazioni cristiane alla demolizione del Turco, dell’infedele per antonomasia, di cui Marc’Antonio Barbaro, in Senato, temeva, se non si fosse fatto qualcosa, l’imminente instaurazione di una "monarchia universale".52) Venezia aveva paura del Turco, ma non riusciva a "suscitare intorno a sé uno spirito di crociata capace di unire in una guerra ad oltranza di tipo ‘ideologico’ tutte le nazioni cristiane".53) Il Groto rispondeva alle aspettative della Venezia del tempo, non solo vaticinando l’imminente vittoria, ma anche, come vedremo, incitando la cristianità al "Bellum Sacrum".

Le Rime sono lì a testimoniare di questa vana quanto spossante tensione del poeta verso una grandezza cesarea, verso il riconoscimento ufficiale del suo ruolo di "poeta vate" nella società del suo tempo.

Se il ruolo era quello del poeta cesareo, magnificatore dei trionfi dell'impero e della Serenissima, fustigatore degli imbelli, lo strumento poetico, la lingua della sua poesia doveva esserne il veicolo da tutti riconoscibile e riconosciuto: la retorica, l'arte più antica, del cui valore tutti universalmente erano consapevoli, diventava l'arma che doveva portarlo alla vittoria. Non esisteva, per altro, nell'immaginrio collettivo del tempo, una frattura tra Retorica e Magia, che anzi tendevano a compenetrarsi e a completarsi vicendevolmente. Osserva infatti Aricò che "...in una visione antropocentrica del mondo, la cui struttura sociale riproduce il sistema cosmologico e l'Universo... la sorte degli uomini può essere modificata…da sapienti ritenuti in grado di comunicare grazie a formule rituali con entità sopramondane." Ma ciò che più interessa è notare "l'elemento comune alla magia e alla retorica", che "consisterebbe nella capacità di evocare forze e sentimenti latenti; la metafora diventa procedimento alchimistico della mente che ricerca analogie fra micro e macrocosmo, ritrovandole tra flussi astrali e fisiognomica, colori e tipologie umorali, e ostentandole nel simbolismo cromatico delle vesti, nelle pratiche quotidiane, nei riti della festa e della battaglia".54) Il Groto interpreta in senso cristiano e medievale il ruolo della retorica: essa non deve essere un vano esercizio, ma sfociare nell' azione. Secondo l'etimo medievale, che fa derivare la retorica da "rector", "regere", ossia "governare", egli assegna a se stesso il ruolo guida del sapiente, che appunto possiede in sé la "parola che convince".55)

Nel nutrito "corpus" delle liriche grotiane, 120 sono madrigali: una forma metrica breve, icastica, con molte somiglianze con l'epigramma, con cui condivide l'incisiva brevità. Componimento difficile, per pochi iniziati, ricco di componenti araldiche e mitologiche, il madrigale trova il suo ambiente d'elezione nella Corte e nella Chiesa , prescelto quando si trattava "d'incensare o di ammonire qualche monarca... cantar matrimoni e liete nascite, ... s'impaludamentò di simboli mitologici, araldici e astrologici".56) Esso fa corpo, per somiglianza, con la "massima", il breve aforisma, in cui l'arte del dire dimostra la più grande efficacia.

Ma quali sono le "figure" più ricorrenti della massima? Quale il loro significato "ideologico"?

Una disposizione sintattica di tipo paratattico, la metafora, l'antitesi, il chiasmo, il paragone "iperbolico".57)

Se questi sono le figure qualificanti della massima e dell'aforisma, esse compaiono tutte nelle liriche del Groto, con l'antitesi e il chiasmo di preferenza nell'ultimo verso, quello che definirei "l’ultimo verso del Groto".

Ma ora è tempo di vedere in funzione la "macchina" del Groto. Strutturalmente, le liriche "politiche" si organizzano intorno ad alcuni punti fondamentali: l' "exordium", in cui il poeta presenta la materia; la "narratio brevis", in cui espone succintamente i fatti, e la "conclusio", con l'ultimo verso che presenta la struttura di una "sententia", che, come fa notare Lausberg, ha molto a che fare con la massima e l'aforisma.58) Interessante notare che la massima, per la sua icastica brevità, fa un uso molto selettivo delle figure retoriche, che in pratica si riducono al chiasmo, all'antitesi e a poche altre, e ciò perché, per sua stessa natura, la massima non può "sopportare" figure molto diversificate. La massina, è inoltre un discorso d'autorità, che proviene da una fonte autorevole: chi parla e dice è autorevole e tale autorevolezza è universalmente riconosciuta. La massima, inoltre, è profondamente connessa con il potere, e le figure che esprime si poterebbero quasi definire "figure del potere". Esse infatti lasciano trasparire l'ideologia sottesa, un'ideologia che mette in primo piano l'ordine a cui deve soggiacere la "Mundi Machina".59)

Comincerei l'analisi delle "figure del potere" dal paragone iperbolico, usato dal Groto in tutte le liriche di carattere politico, allorché si trattava cioè di magnificare le persone di Carlo V e di suo figlio Filippo. Il termine di paragone più usato è sole: Carlo V è un "secondo sole", spesso più brillante e più potente del sole stesso. Come fa notare la Biasion, il paragone si basa su un confronto tra due grandezze di cui una rappresenta la "legge",60) un sapere comune e indiscutibile ( nel caso nostro la potenza solare ), e l'altra, Carlo V, un dato di per sé inaccettabile sotto il profilo gerarchico, ma che alla fine, per il carattere di potenza del personaggio, si compenetra nel primo termine fino a eguagliarlo o addirittura a superarlo, creando così l'accettazione ardita che il poeta voleva nel lettore.

A Carlo V

 

Quinto in grado, in virtù sopra il secondo,

La cui fama tant'oltra il volo tenne,

Che a più alto del ciel Polo pervenne,

E del mar scese al più riposto fondo.

Né bastando al suo volo, erto, o profondo

Spiegar tra Gange e Thil le vaghe penne,

Per giusto campo aprirle al ciel convenne,

Erger se stesso, et allargare il mondo.

Egual al sole, anzi maggior tu imperi.

Egual, poi che con tui ò aggiorne ò annote,

Sempre ti volgi a la gran mole intorno.

Maggior, che 'l Sol, qua giorno, là fa notte.

Ma la tua fama in ambo gli hemisperi

Splendea un tempo in eterno, e 'n doppio giorno.61)

 

 

Tu, che sei Quinto tra i sovrani di Spagna, che superi in virtù Carlo Secondo,

e la cui fama s'alzò in volo oltre ogni limite,

poiché pervenne alla sommità del cielo

e scese nel mare più profondo,

non bastandole al suo volo, alto o profondo,

piegare le sue ali tra il Gange e l'ultima Thule,

fu giusto aprirle ora l'orizzonte dei cieli,

perché innalzasse se stesso e allargasse i confini del mondo.

Eguale al sole, anzi, maggiormente tu imperi rispetto ad esso.

Eguale sì al sole, perché con la tua gente, giorno e notte,

sempre giri intorno alla gran mole della terra.

Maggiore d'esso, perché il sole, girando, da una parte fa il giorno, dall'altra la notte.

Ma la tua fama, in ambo gli emisferi,

splendeva un tempo in eterno, e in luoghi ove è sempre giorno.

 

Come si può vedere, qui il Groto esalta Carlo V come l'imperatore sulle cui terre "non cala mai il sole", possedendo egli gran parte dell'Europa e delle Americhe. Il tono elogiativo è altissimo: la fama di Carlo, dopo essersi spinta sino al Gange e all'ultima Thule, non ha altri orizzonti che il cielo. Carlo è più potente del sole stesso, poiché, mentre esso, con il suo girare, lascia spazio anche alla notte, la "luce" dell'imperatore brilla costantemente su tutti gli emisferi. L'accettazione nel lettore di un sì ardito paragone viene introdotta da nessi logici esplicativo-causali che tendono a rendere "logica" l'argomentazione: Carlo V è uguale al sole perché', con la sua gente gira sempre intorno alla "gran mole"; è superiore perché, mentre in un emisfero la luce del sole scompare, quella di Carlo brilla continuamente.

Il "topos" di partenza è rappresentato dal sole, "secondo Dio" (rex-sol): la mitologia solare nella letteratura ermetico-profetica è nota, ma vi torneremo sopra, perché la cosa si presta a riscontri interpretativi molto interessanti . Nell' "exordium" vi è l'illustrazione della potenza di Carlo V. Nella "narratio brevis" un cenno alle "res gestae" dell'imperatore. L'equilibrio è raggiunto nella figura simbolica di Carlo, che, prima in conflitto col vero sole, poi lo vince in splendore, brillando "in eterno e 'n doppio giorno". Nell' esaltazione di Carlo Quinto, per l'uso sapiente dell'artificio suasorio della retorica, il Groto si pone qui, come in altre liriche come un tardo epigono della profezia imperiale, tendente a sostenere e a esaltare la figura e la politica del sovrano. Il sapore profetico è altresì ravvisabile nella menzione di Carlo V come superiore addirittura al "secondo", che nel profetismo del '500 indicava in Carlo VIII il "secondo Carlo". "Carlo V era dunque l'imperatore di pace, 'quel profetizzato'. Ricordiamo, scrive O. Nicoli, che a lui, come già a Carlo VIII, era stata applicata la profezia cosiddetta ‘del secondo Carlomagno’, che prevedeva un imperatore di giustizia che avrebbe soggiogato tutto il mondo".62) E a suffragare ancor più la tesi profetica del "secondo Carlo" basti ricordare semplicemente che Carlo V era figlio dell'arciduca d'Austria Filippo il Bello, e che sul trono di Spagna non vi fu alcun "Carlo" prima di lui. E, ancora, nelle profezie della prima metà del 500, Carlo V è sempre assimilato al "sole"; e " fra le missioni provvidenziali di questo Dio-sole vi è quella di spingere i suoi raggi fino ai confini del mondo e di domare e ricondurre alla 'respublica christiana' quelli che il Borgia definisce 'genus ille ferum', ossia il "Turco".. Nessuno gli resista, perché è per volontà di Dio che, dio egli stesso, egli viene:

" Questi è quel dio inviato in terra dal Nume; un Cesare da lungo tempo atteso s'avanza, che terrà tutta la terra sotto un sol governo, domerà i Turchi e la stirpe dei selvaggi. O popoli, obbedite di buon grado all'imperio di Cesare, credete che l'imperio di Cesare è voluto da Dio."63)

Il Groto ricordava sempre con nostalgia i tempi trascorsi a Fratta, quando le dotte discussioni cadevano spesso sui grandi poeti del mondo antico, su Virgilio in particolare. E Virgilio, non era forse, come ci ha insegnato il Comparetti, il mago e il profeta del mondo antico e medievale? non aveva egli, nella quarta ecloga, vaticinato una rigenerazione del mondo sotto un imperatore di giustizia che avrebbe ridato pace alla terra? Il Groto, mago-profeta-veggente, come Virgilio, profetizza una nuova età dell'oro, sotto l'egida di un gran re, di una "figura solare". Poesia come profezia; Groto come Virgilio: il cerchio si chiude. Il Cieco d'Adria trasmette un'idea alta e possente della poesia e di se stesso, interprete "divino" del potere imperiale.64)

Nella Natività di Carlo V

 

Ond'è che del gran Carlo il dì Natale

di nevi horrido vien sì larghe e spesse?

E'(a) perché(b) ognun conosca, e ognun consesse (sic)

che sì candido giorno, è senza eguale.

E il Sol perché(c) sepolto

tien ne le nubi il volto,

o lascia il nostro, e adorna altro paese?

Perché(d) di quel, che rese

col lieto nascer suo tal dì giocondo,

Basta la luce a illuminar il Mondo.65)

 

 

Com'è che il giorno della nascita del gran Carlo

viene orrido e scuro di nevi abbondanti?

Ciò accade perché ognuno sappia

qual giorno bianco e candido sia, giorno senza pari.

E il sole, perché tiene nascosto

il suo volto tra le nubi,

e ci abbandona per altri paesi?

Perché è sufficiente a illuminare il mondo

la luce di colui che ha reso il giorno così felice

e luminoso con la sua nascita.

 

Si noterà che il madrigale è altamente encomiastico: Carlo V è paragonato,al solito, a un nuovo sole, anzi, più potente e luminoso del sole stesso, che, quasi vergognoso, si ritira prudentemente

tra le nubi. L'accettazione di codesta iperbolica eclissi del sole vero è, come nel primo caso, preparata razionalmente da un nesso causale esplicativo dell'eclissi stessa. Tutti sono al corrente delle "luminose" imprese di Carlo: quindi "basta la (sua) luce a illuminar il mondo". La conclusione si concretizza nell'equilibrio della legge, nella "sententia" profetica finale: il sole è vinto.Infatti basta la luce di Carlo V a illuminare il mondo.

E ancora una volta, traspaiono in filigrana echi lontani, virgiliani. Il Groto, gran conoscitore di Virgilio, tanto è vero che in giovane età tradusse le Bucoliche e le Georgiche, sin dal primo verso mette in evidenza che il giorno della nascita di Carlo V avvenne d'inverno, "horrido di nevi". Come non avvedersi che Virgilio aveva posto il dì natale del gran sovrano rigeneratore del mondo sotto il segno del Capricorno, ossia all'inizio del solstizio d'inverno? e che Ottaviano Augusto era nato sotto il segno della Bilancia, simbolo perfetto dell'equilibrio e della giustizia? Ancora una volta il Groto parla per coloro che sanno intendere e, interpretare, le sue "profezie": ci è stato inviato un sovrano più luminoso del sole stesso, sovrano di pace e di giustizia: basta la sua luce a illuminare il mondo.66)

All'Istesso

 

Heroe, che altri Indi scopri, ed altri Gangi,

Che l'Herculee colonne altrove porti,

L'Asia conquidi, e l'Europa conforti,

E a la terza sorella il giogo frangi.

 

In nove stelle i tuoi trionfi cangi,

e al ciel aggiungi, onde i nocchieri scorti,

Corrono altre onde, e ingombran altri porti

E che 'l mondo sia angusto, anchora t'angi.

 

Qual novo Alcide te gran Carlo, a parte

il gran Mauro chiamò del nobil pondo,

Cui hor questo, hor quell'homero comparte.

 

Anzi la Luna, e il Sol girando il Mondo,

Portar non ponno i lucidi occhi in parte,

Ove al tuo, il lume lor non sia secondo.67)

 

 

Eroe, che scopri nuove Indie e nuovi Gange,

che sposti sempre oltre le colonne d'Ercole,

che conquisti l'Asia e rassicuri l'Europa,

e infrangi il giogo dell'America,

muti i tuoi trionfi in nuove stelle,

e le aggiungi al cielo, per cui i tuoi fidi navigatori

corrono altri mari e conquistano nuovi porti,

e che ti rammarichi che il mondo sia troppo angusto e piccolo.

Come un nuovo Ercole, l'impero ottomano chiamò te, gran Carlo,

a condividere il peso del mondo,

che Ercole sostiene, spostandolo ora su una spalla, ora su un'altra.

Anzi, la luna e il sole, girando per il mondo,

non possono spostare i loro occhi su alcuna parte

ove non risulti che la loro luce è seconda e inferiore alla tua.

 

Anche in questo sonetto, l'iperbole elogiativa è imperante. Carlo è il sovrano che scopre nuove terre, che sposta continuamente i confini del mondo conosciuto, che ha aggiunto all'Europa e all'Asia la "terza sorella", l'America; che "ingombra" nuovi porti con le sue navi, che condivide l'imperio della terra con gli Ottomani, sostenendo, nuovo Ercole, "Hercules prodigius", il gran peso del mondo.

Il sole e la luna devono perciò riconoscere di essergli "secondi". Il riferimento mitologico a Ercole, ben si attaglia alla persona "erculea" di Carlo, che, insieme al "gran Mauro", sostiene sulle spalle il grave peso della terra. Il "gran Carlo" ricorda molto da vicino il "Karlo" di cui parlava il Petrarca nella canzone dedicata a Giacomo Colonna, in occasione della Crociata (1333), in cui Filippo VI di Francia viene paragonato a un " novo Karlo".68)

Con l'accenno alle colonne d'Ercole, il Groto magnificava la "divisa" o stemma araldico di cui si fregiava Carlo V, due colonne con il motto "Plus Oultre". Osserva al proposito F. Yates: " Oltre al significato più ovvio, che cioè il suo impero si estendeva oltre i confini di quello romano, limitato dalle colonne d'Ercole, la divisa implicava anche profeticamente che la scoperta di nuovi mondi era stata fissata dalla provvidenza in modo da coincidere con la venuta di un uomo che sarebbe stato ‘Dominus mundi’ in un senso più ampio di quello inteso dai romani".69)

Certo l'iperbole ben si addiceva alla Corte più potente d'Europa, simbolo stesso del potere. Il poeta cortigiano, attraverso le rime d'encomio esalta il potere del signore e nel contempo se stesso, cantore privilegiato e orgoglioso di esso attraverso un linguaggio letterariamente elaboratissimo, una lingua ordinata al servizio del potere, ma anche, nel caso del Groto, il rilancio di un'attesa, l'erasmiana "pacificatio", intravista all'orizzonte nella figura del "secondo Dio".

L'equilibrio è raggiunto nella "sententia" degli ultimi versi: il sole e la luna, infine, non possono non riconoscere che la loro luce è inferiore a quella di Carlo.

Al medesimo

Il carro, in cui col tuo trionfo monte,

l'impigro Artofilace, hor ti rassetta.

La figlia di Taumante archi s'affretta

Porti del Sole agli homeri, e a la fronte.

Di sé(a) t'erge una statua ogni Orizonte (sic),

La corona a i capei girarti eletta

apparecchia colei, che già negletta,

da Theseo prima pianse, hor ride l'onte.

Un Colosso di sé t'alza ogni Polo.

L'Orto, e l'Occaso un gran trofeo ti estolle,

col qual suo monte il ciel più presto attinge.

Febo il suo or, Cinthia il suo argento pinge,

Carlo, del nome tuo, ch'en porsi a volo

Dai quattro venti spirto, e penne tolle.70)

 

 

L'insonne Artofilace ora ti prepara il carro trionfale sui cui devi salire,

Iride, l'Arcobaleno, figlia di Taumante si affretta

a cingerti le tempie e gli omeri dei raggi del sole;

ogni punto cardinale ti consacra una statua;

Arianna, già sprezzata da Teseo, che un tempo pianse,

ma ora ride delle antiche offese subite,

ti prepara la corona trionfale con cui ti adornerai

i capelli.

A Nord come a Sud ti si erige un colosso,

L'Oriente e l'Occidente ti innalzano un gran trofeo,

col quale tu possa più facilmente toccare il cielo.

Febo e Cinzia intessono il tuo nome,

o Carlo, con fili d'oro e d'argento, che poi

è involato e sparso per il mondo dai venti.

 

Con un'eloquenza degna del miglior Monti, e probabilmente anche con lo stesso spirito di questi, il Groto solleva Carlo V dalla normalità mondana per inserirlo in un mondo di dèi e di personaggi mitologici, il cui pantheon è letteralmente saccheggiato a far da corona al nuovo semidio. Artofilace, ossia Bootes, guida il carro del semidio: un nome altisonante, conosciutissimo nella poesia astronomica antica, un nome "virgiliano", che, incidentalmente, guarda caso, in Virgilio troviamo accomunato all’umile "phaselus".

Si vero viciamque seres vilemque faselum,

nec Pelusiacae curam aspernabere lentis,

haud obsura cadens mittet tibi signa Bootes… (Georg., I, 227 sgg.)

" Se invero seminerai la veccia e il comune fagiolo, né disprezzerai la cura della pelusiaca lenticchia, non oscuri segni ti manderà Boote tramontando…". E annotava Probo: "Bootes est stella in Arctophylacis…".71) Artofilace è un nome che il Groto cita, probabilmente, quasi a "segnale" del possesso di una scienza totale, di risorse intellettuali enciclopediche, che svariano dall’agricoltura all’astronomia, con un virtuosismo retorico-mitologico che si muove quindi tra enigmatiche figure astronomiche e associazione immediata con una realtà quotidiana rappresentata dall’umile fagiolo di Virgilio, maestro di poesia ma anche di agricoltura, il quale, per primo, aveva accomunato Bootes e il "vilem faselum". Iride, l'arcobaleno, che rifulge coi suoi colori sul capo dell'imperatore. Arianna, che ne cinge le tempie della corona di re, felice e dimentica di Teseo; i punti cardinali elevano colossi perché Carlo possa più facilmente assurgere ai cieli; Apollo e Diana intessono il nome di Carlo con fili d'oro e d'argento, che i venti disperdono per la terra, allargandone la fama.

Il poeta "cesareo", il profeta e veggente Groto ricerca il consenso attorno al "nume" con un repertorio mitologico non solo coerente, ma anche "gradito" a una società di eletti e in ispecie a una Corte come quella estense, che aveva eletto a proprio simbolo iconografico lo "gnomo", visto come il "trasmettitore delle favole mitologiche".72) La figura del sovrano di Spagna assume pertanto connotati mitologico-sacrali. Egli non può e non deve essere normale: la pompa che lo circonda è il segno più certo e qualificante del suo immenso potere. Il cenno profetico al "carro" rimanda probabilmente anche alle suggestioni del carro trionfale degli antichi consoli e imperatori romani, che dopo la battaglia si recavano sul Campidoglio per ricevere il 'triumphum'.

Veniamo adesso a un sonetto dedicato al figlio di Carlo V, Filippo.

 

Al Rè Filippo

 

Qual novo sol, di sì bei lampi adorno

Nasce hoggi fuor d'ogni uso in Occidente,

Et emulo de l'altro in Oriente

Poggia a incontrarlo e a empir d'invidia e scorno:

 

Sol di gloria, e valor, che irragia (sic) intorno

l'Eccelso regnator del bel Ponente

Quindi senza cader chiaro, et ardente

Sorge, dove soléa colcarsi il giorno.

 

Donde avvien, che lo spirto accidentale

Giunge a paesi nostri si scave,

Più dolci aure destando, e più bei fiori?

 

Avvien, perché (a) vi giunge onusto, e grave

De la mercè de merti, de gli honori

Del gran Filippo agli avi e al padre uguale.73)

 

Come un nuovo sole, adorno di sì bei raggi,

nasce oggi in Occidente, e fuori di ogni uso comune,

ed emulo dell'altro sole che nasce a Oriente,

va a incontrarlo e a riempirlo d'invidia e scorno:

è un sole glorioso, che manda i suoi raggi attorno,

eccelso sovrano dell'Occidente.

Quindi, senza cadere la notte, sorge chiaro e ardente,

in quei luoghi occidentali dove il giorno si riposa e lascia il posto alla notte.

 

Com'è che accade che lo spirito divino

giunge ai nostri paesi così lontani

destando le più dolci brezze e i più bei fiori?

Ciò accade perché vi giunge carico

dei meriti e degli onori

del gran Filippo, simile ai suoi avi e uguale al padre.

 

 

Ancora la metafora profetico-solare a sostenere e innalzare il trono di Carlo V e del suo successore: anche Filippo è un "nuovo sole", ed è tale perché "carico dei meriti degli avi" e perchè "eguale al padre". Una volta accettata la grandezza "solare" di Carlo, è facile acquisire il consenso al successivo paragone, che vede Filippo assurgere agli stessi fastigi del padre. In questo modo, l'ordine del mondo è garantito dalla continuità del potere, eterno e immutabile, presenza metafisica, astratta e pur onnipresente, che il poeta cesareo "diffonde" con la sua opera. Ponendosi quindi come garante dell'ordine immutabile delle cose, il Groto sviluppa le sue rime come se si trattasse di massime, lapidarie, inconfutabili; e, come nella massima domina l'antitesi e il chiasmo, così avviene nell’ "ultimo verso del Groto".

Come l’antitesi distingue nettamente, divide e, ideologicamente, separa: scinde il bianco dal nero, il bene dal male, e i valori e i disvalori trovano il loro posto nell'ordine naturale delle cose, avvicinando gli opposti ma solo per distinguerli, così nel chiasmo la ferrea distribuzione ABBA riflette kakfianamente l'immutabilità della legge: "del gran Filippo, agli avi, e al padre uguale".

Nel chiasmo si chiude le lirica del Groto. Il chiasmo occupa il posto previlegiato nella catena del discorso, alla fine, nell’ "ultimo verso", laddove cioè l'attenzione del lettore è massima, dove l'insegnamento gnomico del verso ottiene il massimo effetto di persuasione, che non significa dimostrazione razionale: la persuasione è ottenuta dall'autorità dell'emittente, il poeta Groto, poeta cesareo, mago, indovino e veggente. E qui entriamo ancora nel discorso del ruolo che il Groto assegnava a se stesso nella società del suo tempo: uscire, andarsene dalle "cannose paludi", trovare la propria collocazione "fuori" dal mondo in cui viveva, avere quella posizione eminente che egli sentiva di meritare.

Raccogliendo le fila del discorso: l'arte retorica, specie nelle massime e nelle strutture aforistiche, che come abbiamo visto erano care al Groto, ha una sua pregnanza ideologica molto forte. Per la sua natura quasi "oracolare" essa agisce sul destinatario in virtù non solo dei contenuti gnomico-morali che trasmette, ma anche per l'indiscussa autorevolezza di colui che parla e dice.

La lettura della retorica del Groto conferma l'impressione di trovarci di fronte a un uomo che voleva acquisire una potente e indiscussa autorevolezza sul mondo, non limitando i propri orizzonti alla sua città, con cui entra a volte in conflitto a causa del suo "protagonismo" (A. Lodo), ma ricercando, per così dire, un riconoscimento internazionale che lo facesse uscire definitivamente dall'isolamento geografico e culturale delle ‘paludose canne, e cannose paludi’. Si noti qui la presenza del chiasmo che, con la sua struttura ferrea, visualizza quasi la "prigione" in cui il Groto si sente rinchiuso.

Solo con un "protagonismo" programmatico e che trascende il breve orizzonte delle "cannose paludi" che fanno da cornice ad Adria, è possibile dare un senso alle prese di posizione oracolari del Groto nell'imminenza della guerra di Cipro, ai suoi incitamenti ai principi cristiani al "Bellum Sacrum". Groto chiama a raccolta la cristianità, la rampogna. Fattosi egli stesso "specchio", coscienza universale della società contemporanea e delle aspirazioni della Serenissima, egli richiama la classe dirigente europea ai propri superiori doveri:

A' Principi Christiani per la guerra di Cipri

 

Unite, o de L'Europa alti sostegni,

Gli animi, e l'armi a l'honorato acquisto

Del sepolcro santissimo di Christo,

Ne l'amor suo suo spengendo i vostri sdegni.

Vi chiama, scorge, aiuta il Re de' regni,

Ch'un'altra volta trionfar fu visto

Sotto quel Ciel, né (a) d’Austro, né Calisto

Promette maggior premij o miglior pegni.

Movete i piedi, ò Prencipi, e le mani

per chi le mani affisse, e i pié (b) tenendo

Al gran tronco per voi, vinse il fer’ angue.

Movétevi per Christo, ò suoi Christiani,

Polve illustre, e sudor chiaro spargendo

Per chi sparse per voi lachrime e sangue.74)

 

 

Solo un appello profetico poteva smuovere le milizie cristiane: ma solo riconoscendo autorevolezza al nuovo Vate, al poeta cesareo, si poteva sperare tanto: è evidente che il Groto riconosceva in sé tale autorità, essendo il "nuovo Omero", il vate della società del suo tempo; nessuno più di lui poteva essere considerato tale: egli era "vate" perché possedeva il "vaticinium". Groto come vate, e vate "cieco", era l'incarnazione vivente di colui che aveva l'autorità morale per muovere un simile appello alla crociata contro gli infedeli. Era un appello, il suo, ecumenico, che coinvolgeva tutto il mondo cristiano, un appello che potevano lanciare solo i papi, dotati di carisma divino. Egli è il novello Urbano II che, non dal pulpito di Clermont-Ferrand, ma da quello più umile della "cannosa" Adria, richiama la cristianità alla guerra santa. Se da un pulpito tanto dimesso viene lanciato un appello così potente, così incredibile, ciò significa che l'emittente di un così travolgente messaggio "deve" essere considerato universalmente autorevole e carismatico, altrimenti la sua voce rischia di apparire stonata rispetto allo scopo, inadeguata o peggio risibile rispetto a tanto compito.

In ciò il Groto si mostra continuatore del profetismo politico del 500: " Sapere è prevedere -osservava il Garin a proposito delle 'previsioni', che tanto intimorivano la Chiesa-, e prevedere è operare con consapevolezza ed efficacia...".75) La profezia politica, molto spesso, sottolinea Cantimori "tende a indurre o a preparare gruppi più o meno vasti e omogenei a compiere o ad accettare azioni determinate", e, in particolare , "queste profezie vengono inquadrate in quella generale della vittoria dei cristiani sotto la guida dell'imperatore contro i turchi e gli infedeli, della conversione generale degli infedeli e della pace universale". 76)

La figura dominante della lirica è l'esortazione, che viene iterata nell' "incipit" di ogni quartina e terzina: "Unite...gli animi!", "Vi chiama...Il Re de' regni", "Movéte i piedi", "Movétevi per Christo": sottopenetevi alla "legge" divina e umana che guida la vita: una legge che il poeta suggella nell'ultimo verso, indicando colui a cui si deve il massimo del rispetto e dell'obbedienza: " Per chi sparse per voi lachrime e sangue".

L'equilibrio è raggiunto dalla "bilancia" finale del chiasmo. E’ giusto versare il proprio sangue per chi sparse per noi lacrime e sangue: " Polve illustre, e sudor chiaro spargendo/ Per che sparse per voi lachrime e sangue".

Ai Prìncipi dell'Europa

 

Se per vili impudiche, indegne Donne

Movesti, ò Europa contra Asia superba,

Di rossor teco stessa hor ti riacerba,

né à così giusta impresa hor più s'assonne.

Fin dal dì, che la figlia di Sionne

gli offrìo le palme, e ornò di panni l'herba,

Là i rami invitti, ò Prìncipi vi serba

Quel che le vesti sue tinse in Edonne.

Ma quando anco il morir se ne riporte,

Dove è il più bel morir che in fare acquisto

di vita eterna in Ciel lunga frà noi?

Qual è più dolce, e gloriosa morte,

che morir là, dove morì già Christo,

E al fin morir per chi morì per voi? 77)

 

 

Ancora un appello e ancora rampogne all'Europa cristiana, che se mosse contro l’ "Asia superba" solo per ricavarne donne e bottino, dovrebbe vergognarsi di rimanere imbelle di fronte all'esigenza della crociata. Ora non è più il tempo del sonno: la terra di Sion, ove sparse il suo sangue Cristo, attende i guerrieri cristiani, che, anche quando vi trovassero la morte, vi acquisterebbero però la vita eterna. Infatti, quale morte può essere più dolce e più gloriosa di quella che si patisce per la liberazione delle terre ove morì Cristo? La domanda, retorica, si chiude nella "legge" del chiasmo e nel nome di Cristo. Il chiasmo coinvolge gli ultimi due versi: "...mori là, dove morì già Christo/ E alfin morir per chi (Cristo) morì per voi?...". Dagli esempi proposti si evince chiaramente una fortissima volontà di persuasione, che ha le sue radici nella convinzione del Groto di essere investito di un incredibile e carismatico "spirito profetico", appannaggio di una funzione sociale che solo uomini "divini" posseggono. Ed egli "è" un essere divino: lo dice il suo nome, "Groto", l’ "Onocrotalus", ossia il pellicano, simbolo e "figura Christi".

Il Groto, nell’ ansia estrema di nobilitare la propria casata, affermava che il nome della sua famiglia derivava da un uccello marino, che in latino è detto "Onocrotalus".78) La cosa è stata variamente ripresa e sottolineata dalla critica. Meno esplicitamente si è fatto invece notare che l' "Onocrotalus" grotiano altri non è che il semplice pellicano. Questo uccello, nei Bestiari medievali, ma anche più chiaramente in Leonardo, maestro ideale del Groto, è simbolo di Cristo.79) Diceva infatti la leggenda che il pellicano era solito nutrire i propri nati con il suo stesso sangue. Il Dizionario veneziano del Boerio ci informa che il termine "groto", in dialetto veneziano, significa, appunto, "pellicano".80) E' quindi evidente che il Groto istituiva un'identificazione tra la propria famiglia e la figura di Cristo. Il suo era pertanto un "nome divino", ed egli era per ciò investito di un'aura profetico-sacrale che era testimoniata persino dal nome. L'equazione pellicano-Cristo è data dal Groto stesso in una lirica di una emblematicità unica, che s'inizia, rivolgendosi a Cristo, con queste parole: "Pelicano Divin":

 

 

Pelicano Divin, dà co ‘l tuo sangue

A i figli spenti, vita Leon forte,

Desta co 'l tuo chiamar l'alme da morte,

Rimanendo per lor rauco, et essangue...81)

 

E il Groto, essere divino, interpreta alla lettera la funzione magico-pratica della retorica, così come l'aveva enunciata il Poliziano: "Hominum pectora mentesque irrumpere"; "viros eorumque egregie res gestas exornare atque extollere dicendo".82)


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