Andrea
Carlini, genovese,
vent’anni appena compiuti, o forse è meglio dire che ne ha venti e
qualche mese, essendo nato il 29/8/1981 a Genova, appunto, dove vive ed ha
appena finito la maturità scientifica. Nel tempo libero coltiva la
passione per la scrittura, per la musica jazz e per il teatro al quale si
dedica come attore nella compagnia teatrale "Il sogno" e
nel Gruppo Esperienza Teatrale Genovese e occupandosi, come lo scorso
anno, anche della regia, di una commedia rappresentata, poi, al Teatro
Modena di Genova. L'amore per la letteratura e la poesia gli nasce
soprattutto dalla lettura d’autori quali Wilde, Poe, Pennac, Benni,
Campanile, Neruda, Prèvert, Caproni e Montale. "L'attore",
invece, nasce dalle emozioni che prova ogni volta che sale su un
palcoscenico e da come crede esse siano singolari e straordinarie quanto
un incontro immaginario e dolcissimo con uno sguardo. «Qualcosa che
scolpisce l'anima, che la plasma, che le dà l'ossigeno vitale
narcotizzandola con uno strano sentimento, l'amore, per poi destarla
quando ormai da vedere restano soltanto i riflettori spenti sulla scena
della nostra vita».
La lirica cui ci occupiamo oggi, anche se pecca d’ingenuità e
qualche dimenticanza grammaticale, non di poca importanza,
è l'espressione, nei suoi momenti più indicativi, di tutto il dramma
della vita.
«C'è
un uomo in quella nicchia.
Muri di passato
lo chiudono dentro.
Muri di cemento
(Il
plurale di muro e MURA e non muri)
lo chiudono fuori».
Il dramma di una vita intera, dicevo; nella
sua concretezza è di una universalità illimitata (compreso gli “orrori
grammaticali”) . Nella sua apparente povertà, è di una ricchezza
grande. I motivi fondamentali sono pochi, ma hanno variazioni infinite;
perché, come quella dei poeti che ama leggere, la sua lirica è
meditazione sulla propria anima, è percezione di tutte le voci più
delicate e tenui, di tutti i moti più lievi e indistinti.
«C'è
vuoto nella sua anima.
Cenere di vecchi incendi,
nel suo cuore
e nuove fiamme
che bruciano,
non scaldano».
Questa
limpidezza e concisione non è per niente un linguaggio da prosa. Basta il
primo verso per innalzare, nel mondo superiore della poesia, in altre
parole dell’inspirazione, ciò che di umile, di discorsivo c'è nella
lirica.
Quel cuore di giovane è squisitamente sensibile, trasmutabile, ricco di
sorprese; in pratica di espressioni di inferni, nell’inaspettata
profondità.
Una profondità che traspare anche dalle liriche che ho avuto modo di
leggere in questo sito, nelle quali, l’epigrammatico ridiventa nuovo per
lui, e questo ci fa fremere di passione e tremare di singhiozzi.
«Lacrime
di cristallo nella sua testa
e confusione
e smarrimento
e smaniosa e falsa felicità.
Solitudine e buio.
Un flebile fascio di luce penetra».
La
lirica corre
su un trito parallelismo. Il poeta è simile al cigno: l’ispirazione è
simile al sorgere del sole. Ma non si avverte quanto il motivo ha di
comune, di retorico, tra l’incontro del Sole con la Luna (com’è
accaduto stamani). Quanta tenerezza, quanto disperato abbattimento!
Quanto, soprattutto, novità, e verità — nell'alta poesia i due termini
si equivalgono — nei versi che seguono:
«Io
sono l'uomo nella nicchia.
Non voglio far entrare le vostre mani
che mi tirerebbero fuori,
o forse siete voi
che non volete entrare.
Soltanto tu,
che non puoi farmi uscire,
mi illumini col tuo fascio di luce;
come una carezza
sul mio madido viso,
una visione celestiale,
una forza che alimenta la fiamma
che mi brucia ma mi tiene vivo».
«Io sono l’uomo nella nicchia».
Qui
è la tragedia di vivere! Eppure il Carlini non ce la fa pesare, anzi,
diventa sentimentalmente ovvio che, sia lui l’uomo nella nicchia, non ci
fa sentire che le tarde lacrime dell'amata e drammatica vita, rimangano
come ghiaccioli risplendenti perché illuminati dalla fiamma alimentata
dalla forza ch’è in lui. Quella fiamma non è più una metafora, ma
compendia veramente in sé tutta la luce e la pace, che al poeta viene da
questo abbandono totale all’ispirazione.
Nello spasimo del desiderio che pervade i versi, non si avverte più il
gioco dell'allegoria: Egli nel fascio «di luce che alimenta la
fiamma» vede la sua immagine nell’ombra che questa proietta
sulla parete e avverte come una carezza mentre davanti agli occhi si
svelano scintillii che potrebbero essere paragonati a stelle: o meglio
quell'immagine sulla parete, si fonde e si dissolve nel fuoco che scorre
per la poesia.
«Illumina
il mio cuore
che bussa alle pareti di cemento!
Bussa cuore che nulla smuovi!
Bussa,
bussa,
bussa».
Ma,
come il cuore s’illumina, scompare il dramma, la tragedia fa chiudere il
sipario con naturalezza, per effetto dei
versi che tripudiano, e accendono la speranza e cantano una gioia solenne,
e poco meno che sacra (Bussa che ti sarà aperto).
Il poeta è giovane ma istintivamente, forse, isola le parole dallo
spirito che le ha dettate, per innalzare la lirica in un cielo terso e
inimmaginabile o sopra un mare infinito. Per Benedetto Croce
questa lirica sarebbe l’opera tipica di un iniziato che non sa ancora
distinguere bene il fatto creativo dalla forza razionale, non conosce
ancora la lotta conflittuale del vero artista per avere un’arte
maggiore; manca il polso di acciaio dell'artefice, manca la volontà e la
voluttà del domare e correggere e ravvivare una fluttuante visione, un
incomposto sentimento.