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Il mio mondo uno scrigno

Di: Marco Pellacani

 

Marco Pellacani è nato a Modena il 10 marzo 1969, dove vive; è disabile dalla nascita e scrive poesie dal 1992; le diffonde nella speranza di conoscere gli ammiratori. E’ sposato ed ha una bambina di nome Maribel.

Ha pubblicato: «UOMINI SENZA VOLTO», «POESIE AD OLTREMARE», «PER UN PUGNO DI POESIE»; opere che propone e vende a chi ne fa richiesta.

Abbiamo scelto «Il mio mondo è uno scrigno» poiché le parole più comuni in un suo verso rendono un suono nuovo; pare che la voce nel profferirle le faccia vibrare e tragga, a lungo, echi non conosciuti. Leggete:

«Traccio solchi nella sabbia,

segni strani

per occhi incapaci di intendere».

E negli orecchi ronzano, alle bocche salgono melodie, forse dimenticate.

Sono versi che possono accontentare chi di più chi meno; ma qualcuno rimane veramente incantato dal suono, come Ulisse dal canto delle Sirene, altri possono compiacersi e passare oltre, ma tutti i lettori vi troveranno qualcosa di comune e di particolare, il suono: l'indefinibile ritmo dell’anima.

Pare che il loro effetto maggiore nasca dall’intensità del ritmo che li rende spaziosi e vibranti; tutta la loro consistenza è negli accenti che spiccano una battuta dall'altra, che creano fra le parole come un vuoto in cui ognuna si prolunga in una vasta eco sonora.

«Disegno...

tutti pensano che io viva nel mio mondo.

Loro hanno strane forme,

visi diversi creo…

con la matita dell’immaginazione…

per un presente tutto mio,

che la gente non avrà mai».

In termini tecnici, la ragione del ritmo che i versi emanano è quantitativa; perché è sentito come un accordo di tesi profondamente calcate e d’archi vibranti, come musica pura.

Ma intendiamoci bene; ho detto musicali, non melodiosi; poiché a considerare le sillabe e i suoni in se stessi, sembrano duri, aspri, spezzati, difficili, «come la matita della immaginazione». E vorrei dire che la loro melodia non nasce semplicemente e materialmente dai suoni: nasce da ciò che egli, facendoli, li ha cantati; se li è cantati.

Giacché a fattura e struttura, il verso del Pallacani è cosa molto semplice; le parole per solito seguono l'una l'altra secondo la legge dell'uso più comune. Non c'è discorso, non c'è disegno, non c'è composizione; sono frasi che si trovano sulla bocca di tutti.

Insomma, sono versi senza forma, è il contrasto fra l’intensità del ritmo e la povertà del suono, che acuisce la profondità delle intenzioni e la virilità dell'espressione.

«Lo tengo stretto geloso,

fra le mie mani deformate dalla malattia,

anche la mia voce trema».

E già la disuguaglianza del metro (notato anche nelle altre liriche postate nel sito) in molti canti, ad un certo punto diventa segno d’uguaglianza, d’ispirazione e d’animo, esclude certi eccessi, certe sottilità, certi abbandoni.

Del resto certi apprezzamenti forse sono fuori di luogo: poiché alla fine i versi del Pallacani  non li possiamo ragionevolmente chiamare né belli né brutti, né buoni né cattivi. Essi sono quasi al di fuori di tutte le leggi e di tutte le consuetudini; e questa è la loro qualità propria essenziale.

«Le mie gambe sono immobili.

Chi potrà entrare con me nel mio scrigno?

A chi aprirò le porte?

Chi capire mi potrà?»

Egli sogna e canta, ma quando più pare che s'abbandoni al sogno con tutta l’ingenuità dell'anima e già ceda alla voluttà del canto, allora si risveglia e diventa più vigile, cauto e accorto a discernere con l’incredibile sottilità ogni variare del sogno. E’ fermo su se stesso a considerare a una a una le modulazioni della sua voce e a meravigliarsi di compiacersi...

Reno Bromuro

 

 

 

 

 

 

 

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