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Poeticamente"
A
mio padre
Di:
Michela Montrasi
Michela
cancerina;
come i nati sotto questo segno, è estrosa e creativa, se poi aggiungete
l’ascendente Bilancia, avete trovato l’equilibrio. Un equilibrio che la
porta a credere nella reincarnazione. Per me credere nella reincarnazione ha
il significato di «eternità» intesa come rivivere dopo la
morte del corpo, cioè credere in un mondo più giusto e più bello dove
l’equilibrio spirituale non è mai turbato da nessuno scossone.
Ama
scrivere, e condividere con altre persone le opere che la sua mente partorisce
siano poesie, siano quadri, siano brani musicali, oppure solo sogni e
aspirazioni al bello. Ha una famiglia che adora. Si autodefinisce scrittrice
dilettante; però facendo la casalinga ha tutto il tempo che vuole per
fantasticare.
Di
Michela Montrasi, vi commento la poesia «A MIO PADRE». Devo
confessarvi che fino ad ieri mattina credevo che le sole poesie scritte al
padre provenissero da Giovanni Pascoli, Salvatore Quasimodo e un paio
mie invece… invece, parlando al telefono con un amico (Gianni Capodicasa),
ho saputo che nella sua Regione lo scorso anno è stata pubblicata
un’antologia di poesie dedicate al padre; lì per lì mi sono compiaciuto;
poi è scattata la molla della ribellione: possibile che ancora oggi gli
pseudoeditori debbano averla vinta pubblicando cose pregevoli e interessanti
per la storia della letteratura italiana, sottobanco, invischiando il
preziosissimo manufatto tra i carpini spinosi del bosco inestricabile della
pseudoeditoria?
Ma
parliamo della poesia di Michela… Solo il pronunciare questo
proposito mi porta alla memoria fatti accaduti tra me e mio padre; se poi
leggo:
«Ricordo
che allora detestavo la tua immagine,
perché
mi prendevi la libertà…i miei cinque minuti,
per
sentirmi grande»,
mi
sovviene un ricordo dolcissimo, questo padre che ho visto in carne ed ossa
solo nel 1945, quando è ritornato dal suo vagabondare da un posto
all’altro, per colpa della guerra. L’impatto fu sorprendente, perché con
mio nonno, che si era sostituito a lui nella guida alla mia educazione, si era
instaurato un rapporto piacevolissimo io domandavo e lui pazientemente, senza
dar riposo all’ago, mi illustrava le risposte, ero felice perché mi portava
con lui anche ad ascoltare «Radio Londra», contro la volontà dei suoi amici
impauriti che io potessi parlare e mandarli tutti al «confino». Ho detto che
l’impatto fu sorprendente perché appena mi vide scrivere sopra il quaderno
mi domandò cosa stessi scrivendo, risposi sinceramente: «Una poesia». Una
poesia!? – Gridò cogli occhi fuori dalle orbite (aveva gli occhi
meravigliosamente grandi, mio padre, poi spalancati in quel modo sembrava si
aprisse la bocca dell’Inferno per inghiottirmi) -, le poesie montano la
testa di aria, solo aria e niente di costruttivo, vai ad imparare un mestiere,
vedrai è più redditizio; quando sarai più grande mi darai ragione. Al mio
diniego, mi suonò tanti di quei pugni in testa che ancora oggi quando sto per
fare qualcosa che non mi va ne sento il dolore. Dopo qualche mese al mio paese
stavano reclutando ragazzi che volessero diventare «musicanti», espressi il
desiderio di voler far parte anch’io della costituenda banda; e dissi di
voler imparare a suonare il clarinetto. Gli occhi di mio padre si riempirono
di lacrime, allora non lo capii, oggi lo so: non aveva nemmeno i soldi per
comprare un quarto di litro di latte per farci fare colazione. Il nonno si
chiuse in un mutismo che non conoscevo; ed io accontentai Papà: andai ad
imparare a fare il barbiere.
Appena
la banda sembrò che decollasse perché ormai c’erano circa trenta iscritti,
Papà si presentò a casa, dopo essere stato a Napoli in segreto, con un
clarinetto. Questo è il Papà di tutti, anche quello di Michela che
non riusciva ad accettare la sua immagine,
«perché
mi prendevi la libertà…i miei cinque minuti,».
Io
continuai a nascondere le cose che scrivevo e chiamavo poesie, nelle camera
d’aria della sua bicicletta in disuso, abbandonata in un soprapiano della
stanza (unica camera che fungeva da cucina, stanza da letto, tutto) e
per vederlo sorridere frequentavo con assiduità sia la scuola di
musica che il Salone di barbiere.
«Non
capivo allora, che tu mi proteggevi,
da
una vita a volte dura.
Conoscevi
molto bene ciò che io ancora non conoscevo:
il
mio cuore».
Michela
tocca, con la
sua, la storia di tutti, di tutti i popoli e di tutta la storia, ella tocca,
con senso quasi nuovo il sentimento, sempre contrastante tra padri e figli; ma
notiamo che non avviene altrimenti, ancora oggi; anzi, questi contrasti
atavici si sono inaspriti, perché la società si è incattivita e il ragazzo,
il giovane vede più fortemente come nemici i genitori; ed ecco che abbiamo
anche i delitti più efferati, primo perché la scuola non ha l’autonomia
dell’insegnamento (i docenti sono super vigilati dai genitori) e i ragazzi,
i giovani vivono la vita come gli piace; poi ci sono le discoteche, sempre
pronte, anzi prontissime per ottundere loro il cervello e come se non
bastasse, c’è il crack, l’eroina, la cocaina e chi ne ha ne metta. Avete
notato con quanta arroganza si arroccano convinti nelle loro idee? Li avete
visti e sentiti in trasmissioni televisive, che invece di pensare ad educare
aizzano gli uni contro gli altri come fossero galli da combattimento? Allora
eccoci a guardare la torre crollare: il docente non ha la libertà di
consigliare, educare; la mamma non può aprire bocca e il padre deve stare
zitto altrimenti scatta la tragedia.
A
proposito di:
«Conoscevi
molto bene ciò che io ancora non conoscevo:
il
mio cuore».
il
soggetto è grande, ma tutt'altro che nuovo: l'amore innato è geniale ed
espresso con acume sempre, perché
Ella lo seppe prima dal cuore.
Questa
è la novità della espressione poetica della Montrasi: l'oggetto
dell'errore, che altri oggi commettono in nome dell’arroganza e della
supremazia ad ogni costo; alla prevalenza di chi fa la voce più acuta, Michela
rappresenta in chiara luce, poiché più chiaro splende il ravvedimento e la
conseguente necessaria elevazione, che potrebbe apparire come un trasporto
mistico.
«Ho
imparato ad amarti con gli anni,
quando
il vento soffiò forte e il mio cuore si spezzò».
(…)
«Ho
combattuto con l’immaturità e i limiti della mia mente,
per
riuscire a sentire ciò che eri veramente per me:
due
occhi puri e un cuore immenso.
Forse
non un amico, ma sicuramente,
il
miglior maestro di vita che abbia mai avuto.
Colui
che mi ha insegnato a vivere,
nel
rispetto della vita, e degli altri».
L’amore
trabocca quando il poeta scrive: «Colui che mi ha insegnato a vivere»
e può o compiangere la dipartita del padre o accettare la sua presenza come
ricordo incancellabile.
Solo
in questo modo la malinconia di
qui a poco uscirà, e sarà svanita, lasciando all’anima una pace quieta e
rasserenante, convinta che la figura (anche se eterea) del Papà le sarà
sempre vicina, forse più che in vita.
«Onesto,
pulito dentro,
e
pieno d’amore.
Ho
capito quanto ci amavi,
non
ascoltando le tue parole,
ma
guardandoti negli occhi: si illuminavano, ogni volta
che
parlavi di noi.
Questo
è mio padre…..un fanciullo nel cuore e un saggio,
nell’anima.
Un
uomo che ha saputo dare un senso alla parola “UOMO”»
Da
una simile situazione il Leopardi avrebbe tratto una strofe piena del suo
pessimismo, della sua disperata filosofìa: La Montrasi è poeta
di altra tempra. Senza volerlo, è entrata nel
chiostro dei nostri sentimenti più nascosti e vi ha messo i vasi con i
suoi fiori, che stanno tra la vita e la morte, tra la vita che è ormai
lontana e la morte che minaccia ad ogni ora del giorno; e naturalmente Ella
aspira alla prima. La coscienza del destino dell’Uomo, oggi, la riafferra;
ed ella reagisce, combatte come può e non fa niente per liberarsi di questo
sforzo. Non è la sorte sua quella di tutti? Tutto al mondo passa: nessuna
meraviglia che sia passato anche suo Padre. Ella crede, s'illude di poter
uscir di sé; la sua vita, per quanto confusa con quella di tutti, rimane sua;
ed agisce come uno che si caccia in mezzo alla folla, nella speranza che,
guardando il viso degli altri possa leggere la stessa preoccupazione, lo
stesso affanno, riesca alfine a dimenticare se stessa, ad affogare la propria
angoscia nel comune destino.
Qualche
cosa di simile si era già riscontrato nella lirica del Pascoli, dove tuttavia
erano ancora presenti momenti di «commozione sentimentale»,
che gli impressionisti sicuramente rifiutarono in nome di una scarnificazione
o essenzialità totale dell'espressione poetica.
Reno
Bromuro