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Malinconica divina attrazione

Di: Francesco Gheza

 

Francesco è nato a Esine, provincia di Brescia, il 30 marzo 1943. La madre era vedova di guerra, e per tale motivo fu costretta a mettere il bambino in collegio. Lui non lo seppe, né lo capiva a soli sei anni, perché la madre e il direttore avevano interrotto la dettatura/trascrizione dei suoi dati; udì soltanto il direttore che diceva:

«Franco, ora il prefetto ti accompagna in guardaroba…» - come il mormorio di un rio in secca e non capì minimamente il senso di tale espressione; ma intuì in qualche modo che era giunta l'ora del suo ingresso nella nuova famiglia/collegio e che la madre doveva uscirne… Iniziava in questo modo la chiusura e la decennale, solitaria sofferenza di lei.

Appena entrato, fu subito evidente con grande sollievo la diversità di quell'ambiente un poco più illuminato dei luoghi già percorsi, ma soprattutto per il clima sereno e laborioso che vi regnava: macchine da cucire, scaffali, tavoli e tavoloni, armadi di varia grandezza e… quattro, cinque figure bianche sorridenti, che, lasciato immediatamente il lavoro e la preghiera detta ad alta voce, gli dimostrarono subito un'affettuosa attenzione raccolta, senza eccessiva sorpresa.

La biografia di Francesco Gheza sembra la rilettura in chiave teatrale del dramma di Savatore Di Giacomo «’O mese mariano»

Gli anni del collegio dovettero segnare profondamente lo spirito di Francesco Gheza, quasi consimile a quello vissuto da Giovanni Pascoli, con la differenza che, mentre nell’altro fu fruttifero il rimanere «fanciullo» fino al ritorno a casa, a questi la solitudine, non è riuscita neanche a riempirla lo studio, ché la trivialità burlona dei compagni più grandicelli, dimenticando ogni valore della vita, il loro materialismo, che fa le pene d'ogni idealità, non solo permette di intuire il sensibile e corporeo; poiché soppressa ogni spiritualità, negata ogni passionale serietà, fuori di tutte le commozioni umane la sua poesia avrebbe poi inciso a non vivere che del concreto, con rappresentativa corpulenza.

«Una leggera malinconia talora m'affligge:

vorrei cacciarla adorando sensibilmente DIO,

in contemplazione appartata e sublime,

ma non posso più carpire come un tempo

questa gioiosa fremente divina sensazione».

Forse senza accorgersene, come quando bambino la madre e il direttore parlavano sottovoce, senza mai pronunciare la parola «papà», afferma quel materialismo, potente ed assoluto, come la più grande negazione della vita dello spirito e della cultura, umiliazione del mondo, rivolta anarchica e beffarda contro tutto che non voglia alfine riconoscersi naturalmente e necessariamente brutale.

Il poeta materializza in metafore il pensiero, nell'empirico l'indefinito, nell'atto fisico e nella sensazione animale ogni emozione.

«…vorrei cacciarla adorando sensibilmente DIO,

in contemplazione appartata e sublime»,

L’invisibile è reso plasticamente, per richiami concreti determinando le qualità eccellenti; si giunge fin ad immaginose stravaganze:

«Sono richiamato più dal ricordo antico

che dal cuore a cogliere il Suo sguardo,

ad interpretare l'infinito suo orizzonte

entro cui scorre la mia ed altrui vita».

Tale materialismo del Gheza è, come si vede, teneramente alla ricerca continua di quella fanciullezza che crede ancora «rubata» e, per questo tutto ciò che lo circonda è negativo e distruttivo.

Non riesce a dimenticare perché sono vive come lame roventi gli anni, i mesi, le ore, i minuti trascorsi in grande camerine a contatto  con un’altra famiglia: ragazzi che vivevano la sua stessa esperienza, lontani dai legami familiari.

Vorrebbe adorare Dio, nel silenzio della sua solitudine, ma c’è continuo e reale «il richiamo del ricordo antico»; e ciò gli arreca dolore e angoscia soffocati per liberare, senza che potesse trattenerlo il «livore» verso colui o coloro che gli hanno fatto vivere una vita che lui non avrebbe mai vissuto se suo padre non fosse caduto sul campo di battaglia.

«Scrivo ancora di Lui Ineffabile Eterno

e quando m'accingo, quasi incredulo, vedo

che scorre la mia penna senza pentimenti».

Affinché il ricordo lo abbandonasse, aprendo la mante ad altri ricordi più lieti, che potrebbero essere l’abbraccio della sorella, tornata dalla madre prima di lui, l’abbraccio della madre incredula di poterlo ancora stringere sul petto, forse anche al primo incontro d’amore; ma non può e se duole, che quel ricordo antico lo chiama a sé sempre con voce più forte e potente; allora si rifugia nella preghiera: «Scrive ancora di Lui Ineffabile Eterno» perché possa cogliere dal suo cuore e staccarlo, definitivamente, quel ricordo antico.

Per questo non può formarsi una coscienza di pensatore che si orienta nel cosmo, ma di molti pregiudizi per imparare a ridere.

Educazione negativa fu quindi la sua, di distruzione senza costrutto; in tal modo l'intravatura della sua coscienza dissestata, non riesce a vedere con occhio limpido «la penna che scorre senza pentimenti» E gli rimane per disperazione la nostalgia del cattolicesimo servile senza più la spontaneità della fede, con tenacia il tarlo del dubbio nel cervello, mentre il suo materialismo artistico, perde il concretato nella psicologia del «ricordo antico».

Perciò, nessuna serietà d'affermazioni noi possiamo trovare nella poesia del Gheza. E quando dobbiamo riconoscere che là dove sembra che la poesia sghignazzi e s’irrida della fantasia, propria lì, dicevo, troviamo davvero la poesia vera, la quale, del resto, poi subito proromperà per essere dominante.

«Poi rileggo assorto i miei divin pensieri,

quasi non li riconosco da Lui ispirati;

 allora esplodo in un sommesso grido: Diosanto!»

Tutto diventa grande quando autoironizza sui suoi stessi pensieri, definendoli «divini».

I ricordi antichi svaniscono e trova la forza di gettare via le vigliaccherie della vita borghesemente piccina, trascorsa in un enorme camerone dove altri bambini, ragazzi e infine giovanotti, hanno lasciato i giorni più belli e sognanti della loro esistenza senza ardore, trascorsa più per spasso che per eccitamento, sicché anche quelle che sarebbero le sue idealità civili e religiose non arrivano a entrare pienamente nella sua arte, o freddamente di rado la conturbano: sono ad ogni modo transitorie ed effimere.

Reno Bromuro

 

 

 

 

 

 

 

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