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Libertà di vivere

Di: Andrea Salerno

Più nuovo, per la maggior parte dei lettori, e credo riesca più gradito questo canto lirico di Andrea Salerno, rimasto per più di un anno fermo nel sito «http:\\ digilander.iol.it/wholt/»

Per dare un'idea quanto ali questa lirica è necessario che io mi soffermi un poco sulla poesia, per capire come questo desiderio di libertà, che è atavico e legato alla vita stessa degli esseri viventi, Andrea Salerno la rappresenti in uno dei momenti più tragici della sua esistenza. Attenzione, però, questa parola tragico, riferita ad un momento dell’esistenza di Andrea, non può avere il significato che le diamo comunemente. Se per un verso io non conosco la sua vita, non avendo trovato uno straccio di biografia, per l’altro leggo quanto la sua anima aneli una libertà che gli spetta perché nata con lui; e forse è stata la parola gridata nel primo vagito.

«Dove finiscono i limiti dello spazio,

si erge il monte dell’inquietudine.

Siamo sazi di guardare nubi vagare e dissolversi

nell’intenso traffico del cielo.

Avrai visto le stanze della mia anima

senza stupore.

Il mio grido risveglia i tuoi pensieri

somiglianti ad ombre selvagge

al cospetto delle tenebre.

Lasciati raccontare un’altra bugia,

implora i venti

di scuotere gli alberi solitari delle foreste».

Non conosco nemmeno le bugie che si possano raccontare al vento e che narrino una vita che spiri mitezza. Docilità cosciente, acquistata a forza di riflessione e di volontà; pacatezza che non perde mai la signoria di se stessa, non perché ignara del male o incapace di misurarne il valore; ma perché lo vede e intanto, volendo negarlo, sopprimerlo, sterminarlo totalmente da sé e dagli altri, non trova mezzo migliore che cercare sempre e in tutto il bene.

«Avrai visto le stanze della mia anima

senza stupore.

Il mio grido risveglia i tuoi pensieri»

È l'altezza suprema cui l'uomo possa giungere; è un segno che dev'essere così, si potrebbe ravvisare nel fatto che, levato in quella stanza dell’anima, culmini «senza stupore» e l'uomo si ricongiunga al bambino, davanti al cui occhio il male sembra non esistere.

Il poeta dunque è di fronte a se stesso, in colloquio serrato con la sua anima che non ha voglia di raccontare bugie, sebbene potrebbero fare bene. Egli lo sa, lo vede, lo legge in ogni cosa, perché tutto parla al suo cuore di questa «Libertà di vivere».

«Incredibile ci sembra la melodia degli uccelli

quando vaghiamo per sentieri estranei.

Il giorno annulla la paura

di blandire i segreti della notte,

la notte accende il fuoco del nostro amore.

Prova a camminare

con le braccia incatenate e gli occhi chiusi,

prima di rinserrarti nella prigione della solitudine».

La lirica acquista vita e comincia a dare il suo frutto, perché ormai è matura; e dunque che resta, se non prendere la penna e scrivere le sensazioni che fuoriuscono come acqua sorgiva dalla roccia? E il poeta ha scritto, quasi non credendo a quanto la penna andava vergando:

«Prova a camminare

con le braccia incatenate e gli occhi chiusi,

prima di rinserrarti nella prigione della solitudine».

Perciò nella sorte dello scritto vergato egli rivede la sua «Libertà di vivere»: il suo giorno indimenticabile. Tuttavia il pensiero va alle braccia incatenate, agli occhi chiusi e vorrebbe rifiutare lo stimolo che lo vuole nella prigione della solitudine. Lui ama, anela quella libertà, non può assolutamente chiudersi in quella prigione. Egli vorrebbe che al suo passare lo salutassero dicendogli: «Ave, fratello!». Ma poiché egli sente davvero la necessità di vivere in libertà tutto quanto dice e fa, rinnovano il presentimento della morte; quando, invece, vorrebbe tanto bruciarsi al fuoco dell’amore. Ecco anche spiegato perché desidera che vedendolo passare lo salutassero come fratello, perché lui sente che gli altri siamo noi e quindi fratelli figli dello stesso Padre.

Il silenzio degli uomini che pur vedendolo passare non lo salutano, anziché spaventarlo, lo attrae a sé, svelandogli l'altra sua faccia, che si chiama libertà e che va ri-conquistata, proprio «dove finiscono i limiti dello spazio».

«Qual è la tua fine?

Hai guardato attraverso le sbarre

per fissare il mondo che ti eri inventata.

Stringiti a me, urla il bisogno di trovare un luogo

dove celare i segreti,

oltrepassa il muro che hai eretto

per non far entrare la malinconia».

Ha seminato ed ora aspetta che il seme si ravvivi e nasca e prenda forma. Guarda attraverso le sbarre e scorge, infatti, la meta della sua semina: il grano è spuntato e, come spinto dalla somiglianza, si posa a sedere, senza avvertire la necessità di urlare «il bisogno di trovare un luogo/dove celare i segreti»; è all'ombra della libertà, pensando che, di lì a non molto, popoli interi oltrepasseranno il muro eretto, affinché la malinconia non possa entrare. Gli uomini verranno a sedersi e riposarsi all'ombra di lui, perché dal suo canto fermenterà la vita, che insegnerà a vivere la libertà tanto desiderata.

Il seme che ha sparso, è già sulla bocca di fanciulli che gli corrono incontro per cantare in coro, l’inno atavico che nasce con l’uomo.

«Il mare dei sogni potrà trascinarti ovunque,

nello spazio e nel tempo,

non pregare che Dio spinga la tua barca,

lotta per la gioia di vivere,

segui il destino per goderti la libertà».

Con l'ombra nella voce ascolta il guizzo del mare che manda l’umanità a godersi la sospirata libertà. L'immagine del mare che potrà portare ovunque i sogni di ognuno e per mezzo del quale egli è riuscito a scuotere gli animi e dare un senso di serenità, seppur nella tragica presenza, risorge e subito dilegua.

Dal cuore è scomparsa anche l’ombra della morte, risorge a nuove intenzioni e idee vive. La «lotta per la gioia di vivere» si rincorre nella valle come un’eco interminabile, e s’ingigantisce sempre di più perché ad ogni eco si aggiunge una voce, ed è moltitudine. Egli non ha tardato un istante a riconquistare la sua forza per la lotta.

«Libertà di vivere» è poesia, nella sua semplicità, grande e commovente, e insegna a esser buoni meglio di qualunque ragionamento.

Reno Bromuro

 

 

 

 

 

 

 

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