"Il mondo all'alba del terzo millennio"

Relazione del prof. Giorgio Campanini in occasione dell'apertura dei mini-sinodi diocesani

(Rende 15 gennaio 2002)

 

Violenza e pace

La globalizzazione e i suoi effetti

Relativismo etico e nuova domanda di senso

LA RISPOSTA DELLA CHIESA

La responsabilità della comunità cristiana

Un nuovo stile di chiesa

 

Nella lettera di indizione dei mini sinodi Mons. Agostino ha posto tra gli  altri questo interrogativo: “Dove Dio si sta manifestando, oggi, in questo momento storico, culturale, epocale?"

E’  una  domanda  che  si  riallaccia  direttamente  alla  sollecitazione  conciliare, ancora  e  sempre  attuale, per  la  lettura  dei  “segni  dei  tempi”:  la  missione  della  Chiesa,  ammonivano  i  padri  conciliari,  va  sempre  declinata  nel  confronto  con  la  storia.

All’alba  del  nuovo  Millennio  sembrano  aprirsi  nella  storia  degli  uomini  nuovi  scenari;  e  nascono  inevitabilmente,  di  qui,  nuovi  problemi ma  insieme  nuove  speranze. Questa  compresenza  di  “ nuovi  problemi”  ma  insieme  di  “nuove  speranze”  è desumibile  dai  tre  più  vistosi  fenomeni che  caratterizzano  l’attuale  momento  storico.

Si  tratta  in  primo  luogo  dell’emergere  della  violenza  ma  insieme  dell’interrompere  di  una  nuova  domanda   di  solidarietà  e  di  pace;  in  secondo  luogo  dell’affermarsi  della  globalizzazione   come  rischio  e  come  opportunità;  ed  infine del  profilarsi  di  un   insidioso  relativismo  etico,  al  quale  tuttavia  si  contrappone  una  forte  e  significativa  domanda  di  senso.

Violenza  e  pace.

Da molti decenni, in modo ora manifesto ora strisciante, ricorrenti ondate di violenza hanno scosso il mondo. Quanto  è avvenuto  nell’ultimo  quadrimestre  dell’anno  2001  ha  rappresentato  un’esplosione  di  violenza  ( ed  insieme  la  “rivelazione” di  una  realtà  rimasta  a  lungo  nascosta),  ma  non  un  fatto  realmente  nuovo.  Di fronte a questa diffusione e radicalizzazione della violenza – che è il volto oscuro anche di questo inizio di XXI secolo – la duplice tentazione dei cristiani di occidente  è da un lato il ricorrere alla violenza, dall’altro l’abbandonarsi alla rassegnazione.

La recente esplosione della violenza va considerata come una sollecitazione ed una sfida ad un occidente quasi del tutto dimenticato delle parole ammonitrici della  Populorum progressio: “lo sviluppo è il nuovo nome della pace”; così come, con una drammatica antitesi, il sottosviluppo è il nuovo nome della guerra. Sarà impossibile in futuro debellare il terrorismo, evitare le “guerre locali”, porre un freno alle lotte tribali senza avviare un adeguato processo di sviluppo.

E’ invece inquietante constatare come in questo ambito si registri un arretramento piuttosto che  un avanzamento della coscienza collettiva: sia per quanto riguarda la solidarietà interna tra le nazioni e la rimozione delle sacche di sottosviluppo e di povertà che tutti i paesi industriali avanzati conoscono; sia per ciò che concerne gli aiuti diretti allo sviluppo, in constante flessione in tutto il mondo.

Occorre  invece avviare una nuova stagione di solidarietà, ed in questa linea sono chiamati a operare i cristiani, non solo nella comunità dei credenti, attraverso l’impegno personale, il volontariato, il servizio della carità; ma anche e forse soprattutto nella comunità civile, per dare corpo e sostanza ad una nuova stagione della politica che abbia al centro la giustizia e la solidarietà, nei rapporti interni ad ogni paese ed insieme in vista del riequilibrio delle relazioni fra le varie aree del mondo.

 

La globalizzazione e i suoi effetti.

Il secondo insieme di fenomeni con i quali misurarsi è quello connesso al processo di globalizzazione in atto soprattutto da tre decenni a questa parte e le cui conseguenze appaiono destinate ad accentuarsi, per effetto di un movimento che appare inarrestabile, legato com’è alle nuove tecnologie e a più recenti processi informatici che hanno ormai trasformato il mondo (anche se, per ora, quasi soltanto il mondo delle relazioni economiche) in un “grande villaggio globale”. Ciò che sino a ieri era un insieme di mondi lontani e non comunicabili è attraversato da forze e sollecitazioni che travalicano le barriere nazionali e stanno progressivamente intaccando il potere di guida e di indirizzo dei governi nazionali e delle stesse autorità monetarie internazionali. L’avvento della nuova moneta europea è, sotto questo aspetto, emblematico.

       Di fronte al fatto della globalizzazione ciò che si richiede ai credenti è, prima di tutto, una profonda comprensione del fenomeno in vista di una sua regolazione e di un suo controllo; contro il rischio di una sorta di elefantiasi dell’economia a tutto danno sia della politica sia dell’etica (sino alla assolutizzazione del profitto non solo come regola dell’economia  ma come stile di vita e insieme come unico metro di valutazione dell’efficienza e della qualità della politica dello Stato).

Il magistero sociale della Chiesa, soprattutto con Giovanni Paolo II (nella linea che va dalla Centesimus annus sino ai più recenti pronunciamenti), senza assumere un atteggiamento pregiudizialmente critico nei confronti della globalizzazione, ne ha tuttavia messo in evidenza i rischi e le ambiguità.

Il rischio maggiore è quello di una riconduzione di tutta la storia degli uomini, delle loro azioni e delle loro attese, alla sfera dell’economia, come se la massimizzazione dei redditi e dei profitti fosse il principale obiettivo dell’umanità e come se al mito del progresso (economico) dovesse essere sacrificato ogni altro valore: dalla coesione del gruppo sociale alla stabilità dell’istituto familiare. Se non interverrà un controllo sociale dell’economia (che è altra cosa da vecchi e superati statalismi) e se le nascenti élites economiche non saranno sorrette da adeguati valori etici, vi è il rischio di trasformare il mondo in un immenso mercato all’interno del quale siano considerati soltanto come merci gli uomini e le donne che lavorano, le tradizioni e le culture locali, i valori etici e religiosi.

Non stupisce oltre misura che questo abnorme “ideale” di vita susciti preoccupazioni ed anzi aperte avversioni nei paesi in via di sviluppo, non disposti a vendere la loro “anima”, e cioè la loro cultura ed i loro valori (anche religiosi), per un “progresso” ridotto alla pura crescita materiale delle risorse.

Ma anche all’interno dei paesi industrializzati la globalizzazione è un processo che deve essere guidato ed orientato, per evitare che la crescita economica si traduca in arretramento complessivo della vita sociale e dunque della stessa “qualità della vita”.

Senza acritiche demonizzazioni, così da valorizzarne le componenti positive e da controllarne gli effetti potenzialmente negativi, è questo, un importante ambito di lettura dei “segni dei tempi”, e dunque un luogo essenziale per l’esercizio del discernimento. Non basta una società prospera ma è necessaria una società giusta. Va conseguentemente rifiutata sia la teoria, un poco cinica, che se si vuole la prosperità occorre rassegnarsi al permanere di situazioni d’ingiustizia (ritenute inevitabili); sia la posizione di coloro che ritengono una “società prospera” in grado di realizzare automaticamente, e per così dire di secernere un poco alla volta, nel corso del tempo, una “società giusta”.

 

Relativismo etico e nuova domanda di senso.

Un terzo complesso di cambiamenti che non manca di interpellare la coscienza cristiana è quello legato all’affermarsi, in vaste aree dell’occidente, del “relativismo etico”,  e cioè della tendenza a porre sullo stesso piano le diverse proposte, affidando la scelta fra l’una o l’altra all’orientamento, o alle emozioni, dei singoli (o, come impropriamente si dice, alla loro “coscienza”: dimenticando tuttavia che ben altra  cosa è l’autentica coscienza). In questa prospettiva, tutte le proposte di valore e, di conseguenza, tutte le fedi possono essere rispettabili e di fatto rispettate, ma nessuna può reclamare per sé la  verità: tante “verità”, dunque, ma nessuna verità.

Viene così  a poco a poco oscurata l’autentica categoria di tolleranza religiosa – lucidamente enunciata dalla costituzione conciliare Dignitatis humanae            - in virtù della quale il rispetto dell’altro non nasce da una impossibile neutralità o da una indifferenza di fronte ai valori ma dal profondo rispetto dovuto all’altro, anche quando sia portatore di una coscienza erronea. Alla base della tolleranza, da questo,  secondo  punto di vista, non sta l’indifferenza ma la fede; una fede aperta e responsabile che riconosce  i limiti dell’uomo e accetta l’inevitabile gradualità del suo cammino.

       Quella del relativismo etico è forse la sfida più seria recata alla visione cristiana della vita in questo inizio di millennio. Il cristianesimo rischia, nel polimorfo occidente, di essere semplicemente una delle tante voci che si levano in un mondo popolato di “nuovi déi”: è  un nuovo ed immenso Areopago nel quale vi è posto per tutti  (ma alla fine non vi è autenticamente posto per nessuno). Sembra che il mondo moderno sappia soltanto udire e non più ascoltare.

Bisogna tuttavia riconoscere – e sta qui la grande opportunità che si offre in questo 21° secolo al messaggio cristiano – che sono cadute molte antiche barriere e sono venute meno molte rigide preclusioni.

Superati antichi fraintendimenti e deposte viete pregiudiziali, il messaggio cristiano può essere riproposto nella sua forza, nella sua essenzialità, nella sua unica e irripetibile capacità salvifica. E’ una grande stagione missionaria che si apre così alla Chiesa e ai credenti, pur in un contesto in cui la fede cristiana non  ha più lo statuto privilegiato del quale ha a lungo goduto in occidente. L’antica  cristianità ha ormai concluso il suo corso. Spetterà ai cristiani la responsabilità non tanto di difendere a spada tratta questa antica  cristianità o di volerla ad ogni costo riproporre in quella specifica forma storica che ha caratterizzato l’occidente dal medio evo alla modernità, ma di reinventare nuove forme e nuove modalità  di  presenza in un nuovo contesto, quello della post-modernità, in cui, nonostante tutto, vi è ancora posta per l’annunzio del Vangelo. Il  guai a me se non evangelizzerò  di Paolo vale anche per il nostro tempo: non vi è epoca della storia in cui non vi siano più spazi per l’annuncio del Vangelo. Il problema sta nell’individuare questi spazi (diversi dagli antichi) e nell’annunziare lo stesso messaggio con le nuove parole che la stagione della post-modernità ormai richiede.

 

LA RISPOSTA DELLA CHIESA

L’ insieme delle sfide che il corso della storia pone alla comunità cristiana implica una profonda revisione del rapporto Chiesa-mondo, nella linea già intuita dal Concilio Vaticano II, in particolare con la Gaudium et spes,  ma anche alla luce delle successive, e non marginali, trasformazioni, e soprattutto di un mutamento di prospettiva riconducibile all’ormai  constatabile fine della cristianità occidentale. Ciò nel senso nel senso che si è concluso un modello di società dominante in occidente per oltre un millennio e  che faceva esplicito riferimento, nelle sue strutture e nelle sue istituzioni, alla religione cattolica, alle sue verità, soprattutto alla sua etica.

Sotto  molti aspetti il Cristianesimo non è oggi più al centro ma alla periferia dell’Occidente, e non perché esso sia “uscito da Dio”, ma perché l’organizzazione complessiva della società fa riferimento ad un insieme di valori, soprattutto ai “diritti dell’uomo”, solo in senso lato, e remotamente, riconducibili al messaggio cristiano.

Si tratta dunque di valutare in quale misura,  qui ed ora, il Cristianesimo possa rappresentare l’anima profonda dell’occidente e il cuore stesso della sua proposta di civiltà. Prendere atto del processo di secolarizzazione impetuosamente sviluppatosi negli oltre due secoli che ci separano dalla rivoluzione francese – e cioè dal grande “manifesto” della società secolare – non significa abbandonare gli scenari della storia e ripiegare nel chiuso di nuove catacombe, ma instaurare un nuovo rapporto fra fede e cultura moderna.

 

Le responsabilità della comunità cristiana

       E’ possibile, in questa ottica, delineare il possibile contributo della comunità cristiana alla soluzione dei problemi del nostro tempo, soprattutto in relazione alle tre grandi questioni cui si è in precedenza accennato.

Per quanto riguarda il tema della violenza e della pace, si tratta di operare per la promozione della giustizia (ma senza mai dimenticare il valore non soltanto religioso ma anche civile del perdono, come ricorda Giovanni Paolo II nel messaggio per la “Giornata della pace” del 2002) all’interno di una società che intende accogliere e promuovere questo valore ma che non sembra avere, senza l’apporto dei cristiani, le indispensabili risorse etiche che ispirino e sostengano questo impegno per la giustizia e lo salvino dalle ricorrenti sollecitazioni degli egoismi aperti o mascherati. Proprio dopo la fine dello “Stato cattolico” è più necessario che mai operare nella società per creare non solo strutture ma anche un’etica collettiva e comportamenti  individuali ispirati alla giustizia e orientati alla salvaguardia ed alla promozione della pace.

Nei confronti del processo di globalizzazione, si tratta di non indulgere ad una visione dell’economia che faccia riferimento soltanto alla concorrenza e al profitto, quasi che una migliore allocazione delle risorse fosse ottenibile soltanto fidando nelle forze del libero mercato, e nell’illusione che basti massimizzare i consumi per rimuovere la povertà. Si tratta, dunque, di dare un’anima al processo di globalizzazione e di piegarla a quel servizio all’uomo, e non alle cose, che rischia di essere dimenticato quando si faccia affidamento soltanto sulle presunte “leggi” dell’economia.

Quanto, infine, alla sfida del relativismo etico, spetta alla comunità cristiana riproporre ogni giorno con forza il problema della verità: della verità di Dio, certamente, ma anche della verità dell’uomo, e cioè di quell’insieme di valori che non sono soggetti al gioco mutevole  delle maggioranze e delle minoranze ma rappresentano – o dovrebbero rappresentare – un ineludibile punto di riferimento di ogni civiltà a misura d’uomo.

Contro il rischio di un esasperato soggettivismo, spetta alla comunità cristiana la responsabilità di proporre una nuova sintesi e di aprire all’uomo moderno nuovi orizzonti di senso.

Quella che attende i cristiani del ventunesimo secolo è dunque un’impresa non semplice né facile: quella della riformulazione della proposta cristiana nei nuovi scenari di una società che ha in larga misura dimenticato la fede, ma che di questa fede avverte ancora una profonda nostalgia. Si tratta di trasformare questa generica “nostalgia”, questo vacuo rimpianto del “buon tempo antico”, in una lucida presa di coscienza del vuoto nel quale rischia di precipitare una civiltà che presuma di vivere e di realizzarsi “come se Dio non fosse”, nell’illusoria autosufficienza della “società secolare”.

 

Un nuovo stile di Chiesa

Sullo sfondo di questo vasto e complesso processo di trasformazioni culturali, economiche e sociali sta il problema della Chiesa: quale Chiesa per il terzo millennio? La Chiesa di sempre, è ovvio; ma anche una Chiesa che sappia misurarsi con il nuovo contesto storico e con la specifica situazione dell’uomo.

Un primo ed essenziale punto di differenziazione è rappresentato dal diverso ruolo della Chiesa-istituzione. Una dimensione in senso lato “istituzionale” è necessaria alla Chiesa, anzi ne costituisce un elemento costitutivo (soprattutto nel punto decisivo, che riguarda la individuazione della categoria di “ortodossia”). Una comunità non può vivere se non si identifica con se stessa e se dunque non precisa i confini che la separano, o comunque la distinguono, da altre comunità. E’ necessario che- di fronte all’immenso proliferare delle appartenenze religiose e delle stesse declinazioni dell’unica fede cristiana – vi sia un’autorità  che comincia a definire chi, e a quale titolo, può definirsi cristiano e componente dell’unica Chiesa. E’ possibile che in futuro l’essere cristiani e lo stesso essere Chiesa implichi una notevole latitudine in ordine ad alcuni aspetti della vita cristiana. Ma  si potrà essere, e dirsi, cristiani negando la divinità di Cristo, rifiutando il concetto di sacramento, affermando l’incompetenza della Chiesa ad emettere giudizi morali? Il solo fatto di postulare l’esistenza di qualcuno che decida, e dunque che orienti i fedeli, implica l’accettazione di un’autorità.

Il ruolo dell’autorità, e dunque dell’istituzione, può tuttavia essere dilatato oltre misura, oppure delimitato e ristretto.

La Chiesa del terzo millennio dovrà prepararsi a ridurre –ma nello stesso tempo ad approfondire qualitativamente – gli spazi dell’istituzione, sino ad arrivare ad una Chiesa più essenziale e concentrata sulle grandi verità della fede e meno preoccupata dell’uniformità e dell’omogeneità della prassi.  Ambiti  come quelli  della liturgia, dei ministeri, dell’organizzazione ecclesiastica potranno uscirne profondamente rinnovati.

Un secondo aspetto di novità della Chiesa del terzo millennio sarà probabilmente rappresentato da un nuovo equilibrio, nella vita della Chiesa, fra sacerdoti e religiosi da una parte e laici (uomini e, soprattutto donne) dall’altra. La Chiesa del secondo millennio è stata poco laicale e poco femminile. Mentre le chiese della tradizione apostolica e patristica non hanno conosciuto la rigida distinzione, intervenuta successivamente, fra ministri istituiti e “semplici” laici, quelle del secondo millennio l’hanno invece approfondita e talvolta esasperata.

 La Chiesa del terzo millennio dovrà riconoscere e valorizzare tutti  i carismi, individuare nuovi ruoli nella Chiesa, superare i muri che hanno diviso in passato, e in parte ancora oggi dividono, clero e laici. La stessa diminuzione delle vocazioni sacerdotali appare, in questa prospettiva, come una sorta di sollecitazione profetica a cambiare: Dio chiede di esperimentare nuove vie di servizio pastorale, per non lasciare il suo popolo privo dell’Eucarestia, della Parola, della remissione dei peccati.

Un terzo aspetto di novità della Chiesa del terzo millennio è rappresentato dalla nuova centralità della coscienza. E’ forse questo l’elemento più innovativo; perché il ridimensionamento dell’istituzione e la ricerca di un nuovo equilibrio fra ministeri istituiti e popolo di Dio potrebbero essere interpretati come un ritorno al passato, sia pure in un contesto totalmente nuovo. Il tema della centralità della coscienza appare, invece, per molti aspetti, un dato tipicamente moderno, legato com’è alla nuova percezione e consapevolezza dei diritti dell’uomo, punto di arrivo di un lungo e complesso processo storico che è tipico della modernità e che si lega ad alcune nuove acquisizioni rese possibili dallo sviluppo economico, dalla mobilità sociale, dalla diffusa alfabetizzazione, dall’affinamento sul piano filosofico della stessa centralissima categoria di persone. In una società aperta al riconoscimento dei diritti dell’uomo, sulla base del valore centrale della persona e del franco riconoscimento della sua eminente dignità, lo stesso messaggio etico va proposto in forma nuova, essenzialmente come invito alla conversione e come appello rivolto alle coscienze: abbandonando l’illusione di un magistero “normativo”, che pretenda non solo di proporre i valori ma di dettare i comportamenti.

Che possa derivarne un senso di smarrimento e di sconcerto in campo morale (le ambiguità dell’etica negli anni conclusivi del ventesimo secolo ne sono un’evidente riprova), è fuori discussione; ma, più che cercare di riguadagnare il terreno perduto moltiplicando e irrigidendo le norme, si tratta di misurarsi sino in fondo con questa nuova centralità delle coscienze e recuperare il valore del dialogo personale di ogni coscienza con Dio,  senza rifiutare la mediazione della Chiesa ma anche senza fare di essa un punto di passaggio obbligato ogni volta che si deve assumere una decisione in ambito morale. Occorrerà qui recuperare il senso autentico – senza un indebito ampliamento della sfera della soggettività, ma anche senza tentazioni neo – autoritarie – della libertà del cristiano, del cristiano come essere chiamato da Dio alla libertà (Gal. 5,17).

Come proporre di nuovo Gesù Cristo nella società pluralistica, complessa, secolarizzata del nostro tempo, ma che è pure in silenziosa ricerca  di una Persona con cui misurarsi, di un Volto nel quale rispecchiarsi? Come realizzare nella storia, in luogo degli antichi e non più proponibili schemi del passato, un nuovo e più autentico radicamento della fede.

La risposta a questi interrogativi non potrà provenire certo da un singolo studioso o da una singola Chiesa locale (o nazionale). Sarà un’impegnativa fatica collettiva alla quale ci invitano gli inizi di questo terzo millennio; un impegno la cui delicatezza ma anche la cui centrale importanza è stata percepita dalla Chiesa italiana attraverso la proposta del Progetto Culturale.

Non si tratta di rinunziare alla concreta testimonianza della vita, che è e sarà sempre il centro e il punto di forza di ogni possibile evangelizzazione, ma di coniugare questa testimonianza con un’adeguata consapevolezza dei problemi che stanno davanti a noi e dunque della posta in gioco.

Ai fini della riuscita di questa impresa comune, l’impegno di tutti i credenti, quale che sia il loro stato di vita, è essenziale. Opportunamente ammonisce la CEI: “Abbiamo bisogno di cristiani con una fede adulta, costantemente impegnati nella conversione, infiammati dalla chiamata alla santità, capaci di testimoniare con assoluta dedizione, con piena adesione e con grande umiltà e mitezza il Vangelo” (CVMC, n. 44). Crescere e maturare in questa “fede adulta” – che come tale sa ogni giorno confrontarsi con il passato che oggi separa Vangelo e cultura.

Nasce da questa consapevolezza l’invito ad ampliare gli orizzonti, a guardare lontano: “Prendi il largo: in molti sensi e in molti modi questo invito di Gesù ci raggiunge…… oggi. Mentre ci invita a dare ancora uno sguardo alla riva che lasciamo, ci apre gli orizzonti che ci sono davanti. Per un credente non è mai il tempo nella nostalgia né tanto meno del rimpianto. E’ sempre l’ora della speranza, della fiducia, dell’amore”. (C.M. Martini, Sulla tua Parola, Centro Ambrosiano, 2001, p. 38).

E’ anche questo, oggi e sempre, il tempo della Chiesa.

 

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