Globalizzazione e sfide etiche

 

Padre Felice Scalia s.j.

 

 

1. L’uomo storico del terzo millennio

Come cristiani e uomini di buona volontà, non possiamo fare a meno di interrogarci sul tempo che viviamo, sul mondo verso cui andiamo. Non so come avete vissuto il Grande Giubileo. Non so come percepite questo nostro ingresso nel nuovo secolo, questi cambiamenti rapidi della nostra società. Forse siamo spettatori passivi. Forse oscilliamo tra la gioia di raduni oceanici organizzati nel nome del Signore, la fatica nel tentativo di arrestare una deriva sociale e democratica, e il dubbio che tanto chiacchiericcio e tanta mole organizzativa non servano poi a molto. A volte siamo tentati di pensare che, passato il fuoco effimero di una mobilitazione, tutto ritorni come prima. Proprio perché nulla cambia in profondità.

Ed, in effetti, così sarà se noi cristiani non troveremo il coraggio di domandarci che mondo ci lasciamo alle spalle e verso che mondo vogliamo andare, che annunzio abbiamo fatto e che annunzio le mutate condizioni culturali e lo Spirito ci chiedono di fare.

In altri termini, se vogliamo essere attenti ai “segni dei tempi” siamo chiamati ad un serio bilancio. Che cosa ereditare del ‘900? Cosa ricusare? Cosa progettare per il futuro? Di cosa essere lieti? Su cosa puntare la speranza?

Qualche anno fa si è interrogato su questo un convegno organizzato dal Comune di Roma: «’900: ricusazioni ed eredità».

In una prospettiva cristiana, bilancio e progettualità hanno, ovviamente, connotazioni specifiche. Non pensiamo si possa evitare di chiederci a che punto è la salvezza portata dal Salvatore, dove lasciamo questo pianeta visitato dallo Spirito di Dio, che ne è della ‘carne’, di questa ‘carne umana’, della storia nostra, assunta dal Verbo.

Poiché tutto questo è un po’ generico, tentiamo di mettere meglio a fuoco i problemi che agitano il cuore dell’uomo di oggi (dell’uomo pensoso e responsabile ovviamente, non di quello superficiale e indifferente), fino a fare dire a ciascuno di noi, con il papa (“Redemptor Hominis”) che “de homine hangamur”, “a causa dell’uomo e del suo destino siamo tormentati, angosciati”, ma disposti a scommettere tutto.

 

A fare un elenco dei problemi che il terzo millennio deve affrontare non ci vuole molto; peccheremo sempre per difetto.

1. Uno stile di vita “pericoloso”, equivoco. Fare tutto, permettersi tutto, godersi l’esistenza senza alcun limite. Ciò porta alcool, sesso, droga. L’ “altro” – in questo clima - è un concorrente, un nemico. D’altra parte quanto io ho, è sempre troppo poco.

2.     Tensioni internazionali di tipo economico ma acerrime, pronte a sfociare in riarmo e in guerre.

3. Guerre locali.

4.     Minacce alla libertà personale e di nazioni intere. Fondamentalismi religiosi ed ideologici di una aggressività sconcertante.

5.     Interrogativi posti dalla bioetica.

6. Squilibri Nord-Sud.

7. Debito estero.

8. Abusi sull’infanzia.

9. Crisi della famiglia.

10. Ruolo della donna.

11. Tutela dell’ambiente.

12. Insignificanza delle religioni come punti di riferimento per la vita.

Se vogliamo porre il problema in modo ancora più crudo, c’è da chiedersi:

1. Che ne facciamo dei disoccupati, degli affamati, dei fuoriusciti, dei fuori mercato, degli esuberi, degli extracomunitari?

2. Che ne facciamo dei palestinesi? e dei kurdi? e degli ebrei? e degli zingari? Si può morire di freddo a tre mesi (24/01/’99)!

3. Che ne facciamo degli albanesi, dei kosovari, delle donne in mano a regimi islamici fondamentalisti?

4. Che ne facciamo dei bambini schiavi in Brasile e in Pakistan?

5. Che ne facciamo dei malati cronici, dei vecchi?

6. Cristianamente: che ne facciamo del Dio che ha fame, sete, è in carcere?

Le risposte ci sono. Alcune sicuramente “umane”, cariche di compassione e bontà, ma anche timide, incerte, forse velleitarie, incapaci di affrontare un contesto culturale che annunzia l’impossibilità di sottrarci alle rigide leggi della selezione naturale. Qualche altra altera, trionfante, sicura di sé, “unica” addirittura. E’ il caso del cosiddetto “pensiero unico”.

Cosa è questo “pensiero unico”? Abbiamo sentito parlare molto di globalizzazione; le immagini viste riguardano proprio questo fenomeno. In che rapporto sono globalizzazione e “pensiero unico”?

Fino al 1989, due grandi ideologie si confrontavano.

 Ad Occidente si diceva: libertà personale e di mercato, individualismo, sana competizione, voglia di arricchirsi, democrazia rappresentativa, stati nazionali, proprietà privata; costituiscono il migliore sistema per produrre e distribuire benessere e dignità (per gli esiti di questa prospettiva si veda ”Il peccato originale del ‘900” di Losurdo, Laterza, 1998 – “Il libro nero del capitalismo”, Marco Tropea Editore, Milano, 1999).

 Ad Oriente si diceva: per assicurare ad ogni uomo sulla terra l’uscita dallo sfruttamento, la dignità umana, le condizioni essenziali per la vita (cibo, lavoro, casa, salute, istruzione) è necessaria la proprietà sociale dei mezzi di produzione, il centralismo organizzativo e produttivo, la limitazione della libertà di impresa che finisce per creare sfruttamento nei meno privilegiati (per l’esito di questa prospettiva, si veda  «Libro nero del comunismo», Mondadori).

Questa contrapposizione dura più di 70 anni. Nel 1989 crolla il muro di Berlino ed emerge un fenomeno complesso che in economia si chiama neo-liberismo, in politica economica globalizzazione, in filosofia «pensiero unico». Ecco di che si tratta.

La guida degli uomini e della società, il regolatore base della vita economica (che è l’unica vita in qualche modo regolabile - l’altra, quella spirituale, ideale, è lasciata in mano ai singoli) è solo ed esclusivamente il mercato.

Dopo millenni di storia questa è l’unica verità. Tutte le altre forme si sono rivelate illusorie. «Il capitalismo non può crollare, è la condizione naturale della società. La democrazia non è la condizione naturale della società. Il mercato sì» (Alain Minc, saggista neoliberista).

Questa verità unica si dipana in sei ferrei comandamenti o dogmi:

1.  Il processo di mondializzazione è irreversibile (ricchezza, povertà, lavoro, emarginazione, nazionalità... vanno guardate solo in questa ottica).

2. Impossibile sottrarsi alla rivoluzione scientifica e tecnologica.

3. Nessuno può sottrarsi alla competitività se non vuole essere un ‘escluso’, un barbone.

4. Merci, capitali, lavoro devono girare liberamente nel mondo intero, senza nessuna limitazione. L’orizzonte è il pianeta, con una logica di tipo imperiale: a tutto e a tutti un posto!

5. Le decisioni non sono più nazionali, né politiche; esse vengono prese dalle imprese e dalle banche centrali. Bush, nella realtà, conta meno di Bill Gates e il nostro Presidente del Consiglio molto meno degli azionisti Fiat.

6. Impossibile evitare la privatizzazione di trasporti, ospedali, istruzione, banche, cultura, acqua, luce, gas.

Lo sbocco promesso è un aumento della produzione e dunque dell’occupazione.

Ramonet così descrive il «pensiero unico»: «È la traduzione, in termini ideologici che hanno la pretesa di essere universali, degli interessi di un insieme di forze economiche, in particolare di quelle del capitalismo internazionale».

Ecco una notazione importante: il pensiero unico è selettivo, escludente, non esportabile; riguarda non gli interessi dell’uomo, di ogni uomo, ma solo di un numero limitato di potenti.

1. In effetti questo processo crea disoccupazione: 20 milioni in Europa, 35 milioni nei paesi OCSE (membri aderenti alla Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico).

2. Esso crea marginalità sociale al Sud. Mentre c’è un 20% della popolazione mondiale sempre più ricca, un altro 20% esce dai circuiti della produzione e del consumo. L’abbandono dell’Africa a se stessa non è che un caso di una carneficina annunciata. La Banca Mondiale proclama a chiare lettere che 1.260.000.000 di abitanti della terra sono senza futuro, senza possibilità di lavoro, senza un’accettabile condizione igienico-sanitaria; e tali resteranno. Da questo immenso lager derivano i 40 milioni di morti ogni anno per fame o per malattie endemiche o per AIDS.

3. Questo processo inoltre: distrugge le basi della sussistenza delle popolazioni locali e favorisce il dilagare di conflitti armati, regionali, tribali.

4. Non si è tanto interessati a produrre beni, quanto a massimizzare profitti finanziari. La finanza ha ormai attributi divini: immaterialità, immediatezza, permanenza (si opera 24 ore su 24), dimensione planetaria.

5. Di fronte agli interessi della finanza, qualsiasi argomento sociale, umanitario, deve essere messo in secondo piano, a danno ovviamente dei più deboli. Gli uomini si dividono in cooptati e in esuberi.

Si sarà certamente notato che il “pensiero unico” esaspera l’individualismo che è alla base del capitalismo e del mondo moderno. È il pensiero dell’”uno” in antitesi alla valorizzazione dell’incontro con l’”altro”, con il “diverso”. Chi non è me è un nemico. Con lui, nei limiti dell’opportunità, c’è da usare solo la violenza, larvata o esplicita non importa, ma solo violenza. La solidarietà è parola senza senso. L’individuo è senza legami sociali, senza appartenenze, al di fuori di quelle originate dal sangue e dal suolo.

Ci si domanda che probabilità di successo abbia questa utopia che noi chiamiamo ‘nuova’, ma che in effetti  è formulata fin dal 1944 in occasione degli accordi di Bretton-Woods, ed ha dalla sua grandi organizzazioni finanziarie come FMI, OCSE, GATT (accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio), CEE. L’individuo non reagirà? Non si solleveranno i poveri?

Rispondono i teorici del “pensiero unico” che si impone la necessità di un severissimo controllo sociale con nuovi metodi di condizionamento: la gente si deve abituare, deve accettare come ‘normale’ non solo la competizione ma anche l’annullamento di chi ci è di fronte. Così si è all’opera. Pensate alla TV ed alla violenza trasmessa come rapporto ordinario uomo-uomo (in una settimana 670 casi di assassinio, 846 risse, 15 stupri, 419 sparatorie...). Pensate ai video-giochi: tutto sta nell’eliminare l’avversario senza provare nessun rimorso.

Morte e vita vengono banalizzate. La religione viene svuotata.

Pensate agli spot pubblicitari: sei felice solo se hai più degli altri, più di ieri. Un dodicenne ha già visto 100.000 spot pubblicitari. È già un consumatore ansioso e depresso, incapace di distinguere realtà e finzione, bisogno e illusione. Oppure un consumatore felice, che consuma il consumabile purché con l’etichetta giusta.

Si impone un controllo poliziesco all’interno e militare all’esterno. Non è senza significato che l’America risogna lo scudo stellare e reinveste in armi. Ed è altamente significativo che una malattia come l’AIDS (cioè l’infetto di AIDS) venga considerata come pertinenza del Pentagono, problema di “sicurezza nazionale” da affrontare militarmente (Repubblica 1.5.2000).

Ci avviamo verso una «dittatura implacabile servita da un esercito di funzionari, di esperti, di statistici, che a loro volta si appoggiano a milioni di spie e di gendarmi».

Questi non «tengono a rispetto» come dice Bernanos «in tutti i punti del mondo e nello stesso momento le intelligenze carnivore, le bestie feroci e astute fatte per il guadagno, la razza di uomini che vive dell’uomo» ma organizzano e difendono questa razza...

 

Ci sono, nel “pensiero unico”, evidenti contraddizioni.

1. La disoccupazione aliena l’uomo, quanto ieri lo alienava il lavoro sfruttato;

2. la migrazione verso un Nord ricco, o sedicente tale, contrasta la tranquillità dei privilegiati;

3. il disastro ecologico contro cui un ventilato eco-capitalismo nulla è stato capace di pensare;

4. il Sud del mondo oggi, in patria, non si rassegna: si organizza, si ribella, si pensa, diviene protagonista; il Chiapas è solo un caso; di nuovo c’è che il Sud non si contenta più di regalie e di concessioni assistenziali cadute dall’alto: vogliono, questi popoli, partecipare attivamente all’elaborazione di un destino comune;

5. la fragilità delle economie asiatiche che mette in crisi lo stesso mondo opulento.

Ma che avviene se le contraddizioni esplodono? Cosa pensare di questo «pensiero unico» che pure ad alcuni sembra una parola di salvezza (cfr. Presbyteri 1998/2)?

Ci affidiamo a tre testimonianze:

1. Jovannotti in «Il grande boh» (Feltrinelli, Milano, 1999), osservando la realtà africana, la sua agricoltura, scrive: “Questo in Europa si chiamerebbe neo-liberismo, qui si chiama morte” (1).

2. Mons. Juan Gerardi, 75 anni, vescovo ausiliare di città del Guatemala, assassinato il 26/04/1998, affermava: «Il sistema neoliberista punta solo al mercato internazionale, si basa sulla competizione e sullo sfruttamento della mano d’opera a basso costo. Se i lavoratori rivendicano i propri diritti, le imprese chiudono e si trasferiscono altrove». «Dire la verità, denunciare, significa essere oggetto di minaccia, intimidazione, morte. L’uccisione di studenti, contadini, dirigenti popolari, sacerdoti (...), uomini e donne, è stata la risposta dell’esercito e delle forze paramilitari, colluse con le più alte cariche dello Stato, a chi osava ribellarsi. La Chiesa è diventata, negli anni, punto di riferimento autorevole per la difesa delle vittime e per la promozione del rispetto dei diritti umani». Così parlava mons. Gerardi. Ed alle parole faceva seguire l’azione.

3. Gli incontri di Davos. La terza testimonianza la ricavo dalle critiche al World Economic Forum tenuto a Davos (Svizzera) nel gennaio 1999. Questo forum, nato circa 30 anni fa, in tempo di guerra fredda, oggi è diventato una passerella di ricchi che si esibiscono, per poi chiudersi nella loro torre d’avorio. Il fondatore di questo incontro ha scritto: «Le forze dei mercati finanziari umiliano i governi, riducono il potere dei sindacati e della società civile, creando un senso di estrema vulnerabilità per l’individuo».

Quanto mai garbata (ma inutile e sostanzialmente inascoltata) a Davos  la critica di Nelson Mandela fatta a modo di domanda: «La globalizzazione deve beneficiare solo i potenti, i finanzieri, gli speculatori, i trader? Non offre nulla agli uomini, alle donne, ai bambini che sono afflitti dalla violenza della povertà?».

 

 Ma probabilmente l’effetto più devastante il “pensiero unico” lo ha sui bambini. Nella presupposizione che i problemi del mondo trovino una soluzione aumentando la ricchezza, dopo avere sfruttato le materie prime rapinate ai possessori (colonialismo), ed avere abbattuto il costo del lavoro con l’incremento della disoccupazione, il capitalismo internazionale ha scoperto nei bambini la forza-lavoro capace di fare realizzare guadagni inimmaginabili.

Sono centinaia di milioni i bambini nel mondo lasciati a se stessi. Perché non sfruttare questo enorme potenziale assicurando magari una minestra e, forse, un tetto per dormire? Del resto non si deve anche ai bambini la ricchezza europea della prima rivoluzione industriale?

Si dà il caso che le quotazioni in borsa di una ditta, che nell’uso dei bambini si mostra spregiudicata e cinica, volino alle stelle. Si pensi al caso di Nike o Benetton. Non dimentichiamo che oggi un titolo è tanto più quotato quanto più vistoso è il suo piano di smaltimento di operai.

Per quanto possa essere triste farlo vedere, la verità è agghiacciante: i bambini sono entrati nella sfera degli oggetti sottoposti a quella che oggi è l’unica vera legge vigente, cioè la legge del mercato.

1. Piacciono come oggetti sessuali e vengono violentati con o senza soldi, venduti ad estranei o zittiti da padri e fratelli. Bambine albanesi in Italia. Bambini che vivono nelle fogne di Bucarest e Sofia per prostituirsi con rispettabili europei. Così in Cambogia, Thailandia, India. Dodici milioni nel mondo i bambini che si prostituiscono.

2. Sono ‘irresponsabili’ disponibili e li si utilizza per spaccio di droga, per guerra in Africa, per difendere la loro terra dagli ebrei colonizzatori.

3. Hanno dita sottili e filano tappeti in Iran e Pakistan.

4. Sono in sovrappiù se donne, e le si fanno morire in orfanatrofi-lager in Cina.

5. Disturbano in Perù, in Brasile vengono abbattuti dalla polizia privata dei possidenti, o sequestrati per l’espianto di organi.

6. Sono piccoli e indifesi ma abbiamo troppo poco tempo per rispettare la loro integrità psicologica, il loro diritto a crescere in un clima di sicurezza, stabilità e affetto. Se qualcuno vuole perdere il sonno, riveda il film mandato in onda dalla TV “Ikbal”

Tutto ciò ha un solo significato. Ci troviamo di fronte al sintomo di un malessere profondo. L’umanità, forse senza accorgersene, sta abdicando alla condizione essenziale della propria conservazione e alla conservazione della propria identità, se è vero che, secondo Platone, la ‘paideia’ è il principio di cui si vale ogni comunità umana per conservare se stessa. Per l’uomo non basta la procreazione fisica, è necessaria la trasmissione culturale. Ma quando i bambini diventano fonte di guadagno, strumenti di sussistenza, oggetti di piacere, tutto ciò è radicalmente negato, ed il futuro si chiude. Che uomini saranno questi bambini, che noi stiamo convincendo di essere appena ‘cose’?

Col ritmo attuale, del resto, queste ‘cose’ non sapranno come relazionarsi nel mondo, perché già nel 2000 un sesto dell’umanità (un miliardo) è composto da analfabeti (lo prevedeva già il rapporto UNICEF 9/12/1998).

Parlando di tutto ciò non abbiamo voluto affatto trovare un motivo per piangere o intristirci. Ci basterebbe avere trovato mezza ragione per lottare. Attenzione però. Il fenomeno lavoro minorile è complesso: è tutt’uno con un sistema, ha una sua logica. Non basta affatto «non essere come gli altri», o pretendere di essere migliori solo perché conosciamo certi fatti e li condanniamo. Non basta denunciare un crimine per considerarsi automaticamente assolti dal concorso in reato. C’è il rischio di perpetuare il sistema facendo finta di combatterlo.

Rendiamoci conto che il capitolo ‘bambini sfruttati’ (o non previsti in una vita di coppia) fa parte di un trattato unico: il neoliberismo con le sue leggi di libero mercato.

 

E’ possibile che a questo punto un senso di sgomento ci assalga. Che mondo è mai questo? Che razza di umanità ha partorito la storia nonostante due mila anni di cristianesimo? Non si stanno cancellando così quei diritti dell’uomo che sembravano il fiore all’occhiello della società moderna?

Effettivamente, In occasione delle celebrazioni parigine per i 50 anni della carta ONU dei diritti dell’uomo, unanimemente i giornali hanno parlato di 50 anni di diritti traditi. Il Papa ha detto: «Il segreto della pace vera sta nel rispetto dei diritti umani... Il riconoscimento dell’innata dignità di tutti i membri della famiglia umana è il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo». Tuttavia, se stiamo coi piedi per terra, c’è da chiedersi:

1. o queste sono parole in libertà quotidianamente contraddette dai fatti, pure aspirazioni, vuote di qualsiasi impatto con la vita;

2   oppure bisogna convenire che la parola uomo è da riservare solo ai bianchi, cristiani, privilegiati; gli altri sarebbero non-uomini;

3. oppure bisogna pacificamente ripartire dai ‘diritti’ di tutti i figli di Dio per ripensare il pianeta (2).

La prime due ipotesi, messe insieme, conducono al razzismo, al genocidio, alla soluzione finale; realtà queste che ancora suscitano sentimenti non omogenei all’andazzo attuale.

La prima ipotesi (i diritti dell’uomo sono utopie, poesia, romanticume senza riscontro) conduce alla rassegnazione, alla “concretezza”- come dice la gente dotata del solito “buon senso”. Noi cristiani diremmo che toglie la speranza. Altri dicono che stare ai fatti è tipico dell’adulto. È tempo di renderci conto, in altri termini, che quanto noi moralisticamente chiamiamo ‘male’ è nulla più che una eterna legge di vita - denuncia polemicamente I. B. Singer. Il problema ci tocca da vicino. Il papa, nella “Tertio Adveniente Millennio” avvertiva: “C’è talora un vero consenso di numerosi cristiani davanti alla violazione dei diritti umani fondamentali da parte di regimi totalitari”.

 

Per farci accettare questa ineluttabilità della morte, del dolore, della sopraffazione (mors tua via mea) sono stati elaborati due meccanismi di difesa collettivi che chiameremo razionalizzazione e irresponsabilità. Di un terzo meccanismo di difesa, la nuova morale postmoderna, parleremo a parte.

 

1.  la razionalizzazione

Non è di oggi il pensiero che i rapporti umani storici (quelli attinenti all’essere, non al dover-essere) sono essenzialmente connotati da un rapporto servo-padrone. Con molta chiarezza lo notava Hegel e lo estremizzava Sartre con la sua affermazione perentoria che ogni uomo è l’inferno dell’altro uomo. Quasi una versione peggiorata dell’hobbesiano «homo homini lupus» che almeno lasciava aperta la strada ad un possibile vincitore. La radice di questa visione (che è difficile qualificare come fenomenologica o metafisica) è lontana. Si rifà ad una antropologia, ad una visione dell’uomo con cui noi cristiani ci dobbiamo confrontare.

A partire dall’età classica si è considerata l’idea che il vero uomo fosse il signore, non ogni nato da donna.

Sono note le teorie filosofiche che parlavano di facoltà superiori e facoltà inferiori dell’uomo, di anima “concupiscibile”, irascibile e razionale, di creature perfette e di attrezzi pensanti o schiavi. Il vero uomo era colui che, affrancatosi dal lavoro per sopperire alle sue necessità, viveva contemplando, in piena autosufficienza e libertà, alieno da ogni limite, immune da paure per la sua sicurezza, dati i beni di cui dispone in abbondanza. Il vero uomo è il signore. A lui compete la piena natura umana, il governo della città, il culto della bellezza, la stessa saggezza del vivere.

Perché questo ‘signore’ ci sia, è necessario che stia al suo posto chi, dotato di anima “concupiscibile” o irascibile, può e deve lavorare, può e deve combattere: è il servo.

La società allora è naturalmente ineguale, divisa per etnia, nascita, condizione, sesso, razza, casta. Come ci vuole il capo, così il servo. Il senso della vita del servo è la vita del “signore”.

I cambiamenti sociali possono fare diventare signore un servo, o possono rendere un servo signore, ma nulla più.

Roma trova la sua unità quando gli schiavi di Spartaco vengono crocifissi, “impalati” a migliaia sulla via Appia, e mostra la sua grandezza quando fa sfilare sotto gli archi di trionfo i re sottomessi al suo potere.

Questo schema ‘servo-padrone’ è ritenuto ovvio ed ineliminabile (non sono storicizzabili le parole di Gesù: “Voi siete fratelli” o “Non chiamate nessuno padre o padrone”). Tutto quanto i giornali riferiscono rientra in questa storia. Siamo in un mondo dove gli uomini si governano, si impongono, sono sicuri l’uno dell’altro quando si dominano e si tormentano reciprocamente. Io smetto di avere paura, mi sento al sicuro dalle minacce del prossimo solo se ho tante armi da poterlo tenere a bada. In questo clima l’uomo è un oggetto senza valore, un animale. Si usa la sferza della paura e lo si doma, lo si addestra ad eseguire ordini, gli si mettono davanti agli occhi le terribili conseguenze di certe divergenze. Si può dire che in fondo predomina la crudeltà, il tradimento e il terrore in un mondo simile, ma è così ovvio che una realtà diversa sembra inimmaginabile.

Nello schema servo-padrone c’è un altro aspetto non meno deleterio: l’appartenenza, e cioè la rinuncia alla libertà e alla autenticità. Ciascuno ‘appartiene’ a qualcun altro e in massima parte ai più forti. Gli uomini alle mogli; più spesso le mogli agli uomini, i bambini alle donne, il popolo ai politici, il lavoratore al sindacato, il lavoro a «cosa nostra» o ai capricci delle borse.

Cosa sottolinea questa esperienza? Ancora una volta che l’uomo è in vendita al migliore offerente perché è abietto, sfruttabile, misero, istintivo. Da tenere al guinzaglio. E il guinzaglio può cambiare padrone, allungarsi o accorciarsi, ma mai sparire.

In questo mondo si parla anche di religione, ma per benedire e sacralizzare guinzagli, appartenenze, autorità. Come strumenti di dominio, per esercitare a man salva il potere, aggiungendo una minaccia in più, quella dell’inferno. E tutto questo viene chiamato ordine.

Questo meccanismo di difesa (ineluttabilità della figura servo-padrone) è così diffuso, così introiettato da avere ispirato perfino la «leggenda del grande inquisitore» in Dostoevskij.

 

2.   La irresponsabilità

Non meno deleterio e non meno diffuso l’altro meccanismo di difesa, che elimina con un colpo magico ogni responsabile delle atrocità più turpi causate dal mondo che abbiamo costituito, che abbiamo teorizzato nel pensiero unico, e che ci apprestiamo a rendere irreversibile. Si tratta di un atteggiamento sintetizzabile in queste due espressioni: «E io che c’entro? - È' il mio lavoro».

Qualche tempo fa, la lettura di uno strano libro mi sconvolse. Per certi versi mi aprì gli occhi. Si tratta di «Noi, figli di Eichmann» (Giuntina, 1996) di Guenther Anders. Lo scrittore inviò due lettere al figlio del gerarca nazista giustiziato a Gerusalemme; una nel 1963 dopo la condanna a morte, l’altra 25 anni dopo, nel 1988. Ovviamente nessuna risposta. Ma il fatto strano è che quelle due lettere sono in realtà indirizzate a ciascuno di noi. G. Anders sostiene che Hitler partorì certo un totalitarismo, quello politico, ma collaudò un altro totalitarismo, quello tecnologico. Se il primo per certi versi è scomparso (siamo tutti ‘democratici’!), il secondo è vivo e vegeto. Ecco di che si tratta.

Hitler inventò una macchina di distruzione dove ciascuno faceva il suo lavoro, il suo piccolo lavoro senza mai notare quali effetti produceva. Tutti erano ingranaggi di una macchina i cui ‘prodotti’ erano invisibili ai più, anche se per questo non meno devastanti. Chi trasmetteva una lettera di Goebbels, chi la protocollava, chi faceva una lista di deportati, chi piombava un carro, chi teneva acceso un forno...: tutti costoro facevano «il loro lavoro». E gli ultimi a sporcarsi le mani erano i «Sonderkommando» composti dagli stessi ebrei, che così guadagnavano qualche giorno in più di vita.

Ebbene, questo modello è vivo anche oggi. È una dittatura tecnica la nostra, dove ciascuno, compiendo il proprio lavoro, obbedendo agli ordini, ritiene di non avere il dovere di interrogarsi sul prodotto finale, sul ‘fine’ della sua azione.

Fabbricare mine anti-uomo è un lavoro come un altro. È il mio lavoro. Che c’entro io se saltano in aria donne e bambini? Se la domanda è tenuta alta proprio dal numero di corpi che essi lacerano?

È la civiltà del «button pushing», dello «schiaccia bottoni». Un rappresentante di commercio promuove la vendita di «Baci Perugina». A lui non interessa - né sa, forse - se la Nestlè, incrementata anche dal suo lavoro, investe in Africa per la propaganda dell’allattamento artificiale, che finisce per uccidere centinaia di migliaia di neonati (come denunzia l’Organizzazione Mondiale della Santità).

Preme solo un bottone il pilota di ‘Enola Gay’ che porta un ordigno gentile ‘Little boy’ da regalare a Hiroshima.

Fa il suo lavoro patriottico chi stupra in Bosnia o in Kosovo, chi individua intellettuali in Cambogia, quel finanziere che cerca lauti profitti investendo in fabbriche d’armi, il soldato volontario che ubbidisce a Sharon nell’eccidio di Sabra e Shatila, o nella battaglia di Betlemme.

Ciascuno al lavoro, tutti irresponsabili, ciascuno emotivamente analfabeta. Che c’entro io? Ho solo obbedito agli ordini. Ho solo fatto il mio dovere. «Se almeno sapessi che volete da me - sbotta ingenuo il gerarca delle SS Priebke durante il processo - io mi sono solo attenuto agli ordini».

Questa innocenza gira tra noi. La dittatura tecnocratica di oggi è simile a quella di Hitler, proprio come una rappresentazione alla Scala è simile ad una ingenua prova di teatro parrocchiale. Sia chiaro: il teatro parrocchiale è l’esperimento nazista...

Questa ‘irresponsabilità’, con l’ Euro, in qualche modo è divenuta uno stile ovvio fra noi, indiscutibile. Le decisioni per l’Italia non vengono più prese da un governo rappresentativo, ma da comitati, da assemblee tecniche che hanno tutti i poteri (chi ha deciso i parametri di Maastricht o le linee del FMI, la guerra in Kosovo o quella in Afganistan?) che poi non si fanno carico di nessuna responsabilità. Delle conseguenze delle loro decisioni non ‘rispondono’ a nessuno. È dunque già in atto una scissione fra potere e responsabilità. Dell’avvelenamento di una città nessuno è responsabile, nessuno ha il dovere di dare spiegazioni. È così. La supremazia dei fatti che sono ‘veri e legittimi” per il semplice fatto che si pongono.

 

 

2. La morale postmoderna

 

Enrique Dussel – “filosofo della liberazione” argentino – al Forum di Porto Alegre 2002, affermava con estrema chiarezza: “Quella della globalizzazione è un’etica della morte. Se lasciamo che le cose continuino così, assisteremo ad un vero suicidio dell’umanità. Abbiamo assoluto bisogno di un’etica della vita”(3). Dobbiamo purtroppo affermare che ne siamo ancora ben lontani.

Un attento osservatore della situazione mondiale come Noam Chomsky, studioso di linguistica di fama internazionale, scrive: “I mass media servono a distrarre il popolo ancora grezzo ed a rafforzare i valori sociali fondamentali: la passività, la sottomissione all’autorità, l’indifferenza verso gli altri. Lo scopo è di fare in modo che il gregge disorientato continui a disorientarsi”.

Forse a noi una simile osservazione sembra cinica, negativa in ogni caso. Difficile comprendere come la passività e l’indifferenza possano essere “valori”. Il fatto è che noi “ragioniamo all’antica”, secondo parametri desueti. Nei termini invece in cui il “pensiero unico” pone le questioni, si ha assoluta necessità di fare apparire “bene” ciò che prima veniva giudicato “male”. E viceversa.

Dieci anni fa moriva un uomo grande prete: David Maria Turoldo. Scriveva: “Quando un popolo è indifferente, allora sorgono le dittature e l’umanità diventa un gregge solo, appena una turba senza volto; allora il bene è uguale al male, il sacro al profano…”. I nuovi “valori” servono, e come! Senza di essi cadrebbe il “pensiero unico” ed avrebbe una grande scossa la “globalizzazione” così come essa si è andata configurando in quest’ultimo decennio.

Amartya K. Sen, premio Nobel 1998 per l’economia, in un articolo sui “Sole 24 Ore” del luglio scorso, scriveva che bisogna interrogarsi non soltanto sull’economia e sulla politica della globalizzazione  “ma anche sui valori che contribuiscono alla nostra concezione del mondo globale senza lasciarsi sopraffare da un misto di ottimismo testardo e di pessimismo dissennato”. Vorremmo poterlo fare. Ma se guardiamo non alla globalizzazione nel suo concetto astratto, bensì nella sua concreta realizzazione in chiave neoliberistica e mercantilistica; se la comprendiamo come la realizzazione per la prima volta pura di un capitalismo selvaggio ormai senza avversari politici e con incredibili mezzi tecnici di mondializzazione; se infine ci mettiamo nella prospettiva delle vittime (uomini in “esubero”, pianeta terra, “poveri” in generale”), se osserviamo quanto ci capita in questa ottica, allora non possiamo dimenticare che a tutto oggi presiede l’utilitarismo di Hobbes o di Sturt Mill, dove il concetto di “bene” è per sé cancellato. Dove fine della scienza è null’altro che la potenza e dove la stessa dignità umana perde un suo valore intrinseco.

Il punto è questo: quanti oggi parlano in nome dei diritti dell’uomo e di ogni uomo, quanti parlano di giustizia e di pace, quanti rivendicano il primato del diritto alla vita sul diritto di proprietà, quanti ritengono che accogliere sia un imprescindibile dovere umano e ritengono barbare e incivili espressioni come quelle di un Bossi “Una bella cannonata e via!”; costoro vengono immediatamente retribuiti con uno di questi epiteti, a scelta: terzomondialista, antimoderno, comunista, populista, utopista (4). Dal loro punto di vista hanno ragione. Noi non abbiamo ancora capito (e ci rifiutiamo testardamente di farlo) che:

-         “E’ male fare del bene ai poveri”- come scriveva Stuart Mill alla pia moglie

-         quanto noi riteniamo vizio e peccato “è solo legge eterna della vita”.

A ben guardare un pensiero coerente a queste massime erigerebbe la forza e l’interesse come motori della vita, eliminerebbe l’Amore e quindi il Dio di cui ci ha parlato Gesù Cristo.

La globalizzazione ha i suoi “valori”. I più evidenti sono il Dollaro, l’Euro, lo Yen. Questi “valori” non conoscono il bene e il male, l’ingiusto ed il giusto. Solo la “quantità”. Ha tre “dei”: Moneta, Mercato, Capitale. Sono oggetto di culto esclusivo. Siamo ad una idolatria di mercato che prevede “sacrifici umani” quasi di rito. Ha la sua “etica”, stabilita 2 secoli fa da Adam Smith: ogni individuo sia implacabile nel suo egoismo – non badi al suo prossimo – la “mano invisibile” del mercato porterà prosperità a tutti. Ha una sua “metafisica”: tutto è merce. Acqua, aria, vita, sentimenti…: null’altro che merce. Quanto era considerato inalienabile diviene oggetto di business. Amore, virtù, scienza, opinione, coscienza, se prima erano espressione di libera umanità, ora possono essere venduti. Sembra il tempo della corruzione generale, un po’ come aveva previsto C. Marx nella sua opera “Miseria della filosofia”.

 

Per non addentrarci eccessivamente in questo labirinto, forse può essere utile riportare alcune frasi significative di ciò che il “pensiero unico” ritiene “immorale”.

-         E’ immorale – scriveva Skinner già alla fine degli anni ’60 – rifiutarsi di dimenticare “concetti prescientifici come la libertà e la dignità” se vogliamo pensare al bene dello stato ed alla sopravvivenza della specie.

-         E’ immorale tenere conto dei singoli individui – incalza Friedrich A. von Hayek. Così scrive: “Una società libera richiede una morale sicura che in ultima istanza si riduce al mantenimento della vita, ma non di tutte le vite, perché potrebbe essere necessario sacrificare vite individuali per preservare un numero maggiore di altre vite. Pertanto le uniche regole morali sono quelle che portano al calcolo delle vite…” (classica la sua opera fondamentale “Legge, legislazione, libertà”). Tutto questo, all’occorrenza, diviene scelta politica e militare. Michael Kinsley, che si pone nell’ala liberale dell’attuale maggioranza USA, scrive che una politica avveduta deve “soddisfare il test dell’analisi costi-benefici, una analisi della quantità di sangue e di miseria che sarà prodotta e  della probabilità che alla fine ne scaturisca la democrazia” (N. Chomsky, “11 settembre, le ragioni di chi?”, pg 81).

-         Il Consiglio permanente di un gruppo di lavoro spagnolo “Cristianesimo e Giustizia” di Barcellona, sintetizza in tre principi di “immoralità” la cultura corrente. E’ immorale rinunciare a qualcosa di ciò che la realtà offre. Data la durezza della vita, si tratta di prendere ciò che si può, anche se il “qualcosa” è la moglie di tuo fratello o il denaro del tuo prossimo.

-         E’ assolutamente immorale pretendere di cambiare qualcosa di questa realtà. Colui che tenterà di farlo incontrerà avversioni e dure condanne.

-         Finalmente è ancora più immorale rinunciare a qualcosa nella speranza di cambiare un poco la realtà.

 

Questa descrizione non riproduce criteri che vengono sempre formulati espressamente. Riflette in ogni caso una mentalità che si rende trasparente in tutti quei prodotti dell’industria culturale che risultano essere “commerciali”. In questo contesto le grandi parole come onestà, libertà, pace, democrazia, diritto alla vita, sono sempre cose che “bisogna dire”, per mascherare la realtà, ma a cui nessuno deve credere. Si badi al fatto che le grandi parole, le grandi promesse, i grandi valori siamo soliti sentirli in tempi di guerra, in un tempo di menzogne cioè, oppure in chiesa, dove tutto si consuma in un mezz’ora. Un esempio forse chiarisce molto: noi continuiamo ad affidare i nostri risparmi al Banco di Sicilia, alla Banca Commerciale Italiana, al Banco di Roma, al Credito Italiano, alla Banca Nazionale del Lavoro, e poco ci interessa che si tratta delle cinque banche italiane che più hanno investito nell’esportazione di armi.

 

Di questa mentalità noi non dovremmo meravigliarci più che tanto. L’Occidente ha insegnato a ciascuno di noi a cercare il proprio “io” e la sua stabilità nell’essere come possesso esclusivo ed escludente che riduce a sé ogni cosa. Questa è la radice del totalitarismo. Sui chiudono porte e finestre. Si vede l’altro solo in chiave di “utile”. Si divide il mondo in amico/nemico – servo/padrone – Menschen/Untermenschen. La coscienza non “ospita” nessuno ma riduce a sé ogni cosa: ingloba o distrugge. I campi di concentramento sono nel cuore dell’uomo prima che ad Auschwitz. Quanti “morti” attorno al nostro “io”! E quanti “nemici” che a loro volta, se sono entrati anch’essi nel gioco, sono disposti ad “ucciderci”. Scrive Lévinas: “Essendo, ossia proprio a motivo del mio essere, non sono un assassino?” In effetti, ponendomi come “assoluto”, minaccio l’alterità dell’altro, la sua “gloria”, cioè la sua “manifestazione”. L’”altro” deve essere come voglio io o non deve semplicemente esserci.

 

Probabilmente, quanto siamo andati dicendo lascia un senso di confusione nei nostri cuori. E di sgomento. Forse ne abbiamo bisogno di sensazioni simili. Noi che tante volte guardiamo troppo semplicisticamente le cose. La realtà moderna, la cultura che stiamo costruendo, è complessa. Troppo complessa per essere affrontata con formule semplicistiche e solo con la “buona volontà”. Tanto ingarbugliato è il nostro tempo da rendere possibile un fatto incontestabile: oggi è possibile parlare di Dio ed essere, nella pratica, anni luce lontani da Lui. Parlare di amore per l’uomo e contribuire ad ucciderlo. Come pure è possibile negare Dio con le parole, e mettere a Suo servizio – senza saperlo – la propria vita. Penso alla parabola di Gesù in Mt 21,28-32. Penso allo strano legame fra una assassina di bambini come la Nestlé e il Grande Giubileo (5).

 

 

 

3. Una morale per il nostro tempo

 

Abbiamo bisogno di un altro modi di vivere per… sopravvivere. Dobbiamo partire da altri presupposti se vogliamo salvarci. Dobbiamo “lasciare la nostra terra”, ciò che ci è usuale ed ordinario, che accettiamo acriticamente perché… ovvio, se vogliamo che l’umanità abbia un avvenire ed un senso. Non è affatto detto che il mondo corra sugli unici binari possibili. Proprio questo vogliono farci credere quando parlano di “ineluttabilità” del sistema. Noi, con il popolo convenuto a Porto Alegre, diciamo che “un altro mondo è possibile”.

 

Se il mondo – per sua natura - non è questa violenza dell’”io” e dell’essere, se la storia non è una serie di eventi che capitano, se il pianeta non è governato solo da una natura a volte impietosa a volte benevola, se le cose non stanno così, perché sarebbero solo preludio di una disumanità assassina (la guerra di tutti contro tutto e tutti), allora si può cominciare a fare attenzione ad un altro fatto incontestabile, si può, quanto meno, fare una scelta diversa di campo.

Il mondo può essere visto come l’insieme di “volti”, tutti diversi, tutti “altri”, tutti “centri” bisognosi di altri “centri”, tutti insopprimibili (6).

“Volto” è la parte più esposta di noi, l’io nella sua disarmata nudità, ciò che resta quando tutto è diverso, impoverito, perfino devastato e perduto. E’ la “casa” che accoglie ed attende ospiti. “Volto” è una persona:

-         da guardare e stabilire nella sua unicità ed “alterità”

-         da rispettare eticamente

     -     da accarezzare affettivamente.

Forse se partiamo da questi presupposti c’è la possibilità di fondare il diritto alla dignità ed alla umanità di ogni creatura umana sulla terra. Il volto esprime l’irriduciblità sovrana dell’altro. E’ un assoluto unico, mai intercambiabile; è “altro” rispetto ad “altri”. Emergono così i diritti dell’altro ad esistere, a respirare, ad amare, a farsi la sua strada. E questo non perché a me conviene, ma perché a quel volto ciò è dovuto.

Sento che quei diritti devo rispettarli senza pretesa di reciprocità, se voglio essere “umano” fino in fondo. La reciprocità sarà un dono libero dell’altro, non una condizione del mio atteggiamento nei suoi confronti. Sento che c’è una domanda in quel volto. Domanda a cui sono chiamato a “rispondere” (responsabilità è null’altro che percepire una domanda e farsi carico di una risposta).

Sorge da questi orizzonti in me quasi un libero dono: l’”eccomi”! Se prima valeva il “cogito ergo sum”, il “sono civilizzato, dunque ho diritto ad esistere”, il “sono armato e quindi ho il diritto al rispetto”, ora vale un’altra fondazione della mia esistenza: “Ci sono, esisto perché mi sveglio ad una responsabilità. Esisto perché indispensabile a te”.

 

In questa prospettiva il cuore del mondo non è l’universo e le sue leggi, non il possedere per guadagnarsi il diritto ad esistere, non il “conoscere” che “cosizza” e assoggetta l’altro, Cuore del mondo è:

-         la coesistenza dei volti

-         l’amore del prossimo

-         l’esistere-per-gli-altri

-         il “fare” che segue “l’eccomi”.

 

Il futuro ha un solo compito: costituire una comunione di “volti”. Trovare quanto c’è da “fare” (e da soffrire) per vivere faccia  a faccia, volto tra i volti, col volto degli altri. Se ancora prevale il mio volto correremo di nuovo verso il totalitarismo, il regresso, la sopraffazione. Deve prevalere la faccia dell’altro, il suo diritto. E tutto questo con un atteggiamento di dono (l’”eccomi!”) unilaterale che desidera ma non aspetta reciprocità. Questa è la nuova “giustizia”, fino alla sostituzione completa di me in “lui”, fino allo “svuotamento”. Tornano ad avere consistenza frasi antiche come “chi vuole salvare la propria vita, la perde”.

 

Probabilmente intuiamo cosa in questo momento sta passando nella mente di tutti. Questa è santità. Questo è vangelo. Questo è eroismo. Roba che non ci appartiene. “Ebbene, e se fosse?” – così rispondeva una giovane ebrea, Hetty Hillesum, in un campo di concentramento a chi le faceva osservare che perdonare è roba cristiana, non ebraica. Ci tengo a sottolineare che abbiamo schizzato solo una “meta” desiderata, intravista, cercata, forse mai perfettamente raggiunta; e dopo aver detto che qui è di vitale importanza cambiare direzione nel nostro pensare di occidentali centrati sull’”io” e sul “mio”, aggiungiamo un interrogativo: chi ci dice – con buona pace di Becket - che il nostro tempo non abbia bisogno di eroi, di santi? Come interpretare questi continui appelli del papa e dei nostri vescovi verso la “santità”?

 

Rendiamoci conto che anche gli appelli che si levano dal mondo intero verso la pace, sono parole vuote se non ci si mette in una prospettiva che possiamo chiamare di “santità sociale”. La patria della pace non è un trattato internazionale, né l’utilità di una nazione su una più debole. Non sta in un “tu sei mio”, ma in un improbabile ma necessario “io ci sono per te”. La strada della pace è unica, sia a livello personale che sociale: che io realizzi questo mio dovere di riconoscere il diritto altrui in un “fare” morale che risponde alle esigenze dell’altro. Si tratta di mettere tra parentesi il proprio diritto e fare confluire tutto sul diritto altrui.

Prese alla lettera parole come queste possono confondere. Non stiamo proponendo una sorta di “suicidio”, un mettersi nelle mani di un altro che potrebbe piegarmi alle sue voglie e prepotenze? Tutto è possibile. Solo che stiamo parlando di una, in ogni caso, doverosa “deposizione” della sovranità dell’”io”, per riconoscerci volto tra volti. Si tratta di tirare tutte le conseguenze da una espressione forse poco tematizzata, ma molto contestata: “Io non sono dio!”. Se vogliamo parlare di “annientamento”, “kenosi”, in senso paolino, facciamolo pure. Purché sappiamo di che parliamo: conoscerci umani (“humiles”) tra umani, non “dei” su bestie striscianti. Noi non stiamo cercando la pace dei morti, “il faccia a faccia dei teschi”  - come dice Cioran. Stiamo parlando della pace che si addice a volti viventi. Volti che sono “vivi” proprio perché hanno “de-posto” ciò che li rendeva morti: la sovranità, la tirannia, l’atteggiamento assassino.

 

In positivo, “deporre” significa:

-         Instaurare relazioni di “parola” (scambio, insegnamento, comunicazione…) di tipo “unitivo”, “mistico”. Siamo tutti raggi di un’unica fonte luminosa; colori di un solo arcobaleno, fino a giungere ad un chiaro “io siamo”. In una simile ottica Dio non è il sacralizzatore del potere del mio ”esserci”, ma l’estrema difesa di tutti gli “altri”.

-         Percepire la diversità dell’altro come mia ricchezza.

-         Percepire la “parola” unica, il “mistero” che è l’altro come nostalgia-evocazione di una mia possibilità.

 

Da tutto questo ne discenderebbe come ovvia

-         l’”empatia”: sentire coi sentimenti dell’altro – pensare coi suoi pensieri – amare per conoscere, fino ad “ascoltare il nemico”;

-         l’”accettazione incondizionata”, come gesto primario di vita morale, umana;

-         la “vita” come cammino verso una modalità della persona che diventa capace di “ospitalità” e di “responsabilità” per l’”altro”.

-         Quel “nuovo socialismo”, di radice non-marxista, che Frei Betto auspica, assieme a tanti altri, al secondo Forum Sociale Mondiale (7).

-         Ne discenderebbe, in una parola, una umanità degna di questo nome. E sarebbe possibile vivere finalmente quel “principio-amore” evocato a Palermo dalle chiese italiane nel 1995 per essere “elemento strutturante della storia”, non più pietoso intervento di una buona “crocerossina” che si limita a lenire le ferite dei vinti.

 

Ritengo che il grande salto di qualità a cui è chiamata la Caritas sia il completamento di un passaggio – di una “pasqua”! – già in atto: da soccorritrice, da braccio amorevole della chiesa italiana, a cuore pensante di una nuova storia dell’uomo, ad elemento profetico di una chiesa che è chiamata sempre di nuovo a convertirsi al Dio-amore, l’unico che conosciamo, l’unico di cui ci ha parlato il Signore Gesù.

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Note

(1)      Ci dovrebbe fare riflettere il fatto che l’attuale società sembra essere caratterizzata dal vecchio modello “mors tua vita mea” che oggi diventa industrializzazione della morte di massa come premessa di vita di pochi. Porta morte l’industria della guerra per cui si spendono, anche in Italia, cifre iperboliche. Hanno portato morte le 150 guerre che sono seguite alla seconda guerra mondiale.. Morte le manipolazioni genetiche, ecologiche, gli sfruttamenti insensati delle risorse. Il vescovo Casaldaliga ha definito la globalizzazione “il più grande genocidio della storia umana”. Il Subcomandante Marcos, in Chiapas, parla della globalizzazione come della “quarta guerra mondiale” che dà luogo ad un meccanismo di distruzione/ricostruzione, risistemazione che si estende a tutto il pianeta. In effetti la nostra cultura, per la prima volta nella storia, ha creato il principio di “autodistruzione”. Con armi biologiche ed atomiche possiamo distruggere la terra in 25 modi diversi. Abbiamo tutto il potere di morte, ma nessuna saggezza di vita. Siamo nel cuore di una crisi di civiltà. Con la globalizzazione non abbiamo più risorse spirituali per un orizzonte di speranza nel futuro dell’umanità e dello stesso pianeta Terra. Noi manteniamo il sistema in piedi solo con la violenza. Poiché non c’è stata mai tanta esclusione come ora, mai tanto uso di violenza per contenerla, creeremo campi di concentramento per disoccupati ed emarginati? Viene da chiedersi – con Samir Amin al Forum Sociale Mondiale 2002 – se l’unico sviluppo possibile per questo tipo di società, non sia davvero il genocidio.

 

(2)      Sulle posizioni dei cattolici di fronte al neo-liberismo e alla globalizzazione un buon quadro lo offre la partecipazione a Genova durante il summit dei G8. Una sintetica rassegna in ADISTA 46/02/14-15. Più articolati gli interventi dei vescovi al Sinodo dei vescovi sul ministero episcopale (30 sett. – 27 ottobre 2001). Si tratta di pastori che nel loro ministero incrociano le difficoltà della loro gente.

Mons. Concessao, arcivescovo di Delhi: “Esiste un terrorismo nascosto, subdolo, di cui si parla poco. Parlo del terrorismo di un sistema economico ingiusto che ogni giorno conduce alla morte migliaia di persone”.Parole dure che il vescovo sostiene con dati inoppugnabili. Con la globalizzazione chiudono le piccole industrie e si perdono posti di lavoro. Gli stati si interessano sempre meno dei disastrati. Ci sono al mondo un miliardo di analfabeti. 110 milioni di bambini non hanno scuole. Un miliardo e 300 milioni di creature umane non hanno acqua potabile. 3 miliardi sono senza assistenza medica. Dall’altro lato: i ricchi spendono 400 miliardi di dollari l’anno in droghe. 780 miliardi di dollari l’anno per la “difesa”. La sola Europa spende 50 miliardi di dollari l’anno in sigarette e 105 in alcolici. La sua conclusione: “siamo assassini”. E ricorda il Decreto di Graziano citato nella Gaudium et Spes:”Dai da mangiare all’uomo che muore di fame, perché se non gli dai cibo lo uccidi!”.

Card. Agré, arcivescovo di Abidjan (Costa d’Avorio): “Fra il Nord ed il Sud il divario si approfondisce, i rapporti contrastanti persistono. L’Africa è un Continente saturo di brutte notizie. Non interessa più a nessuno, salvo che alle multinazionali che saccheggiano Il pastore sente nella sua carne le incoerenze di queste povertà spesso ingiuste”. Scatta così in lui un nuovo impegno: richiamare le esigenze di equità e giustizia – partecipare alle lotte per uscire dalla penurie di infrastrutture economiche, sanitarie, educative – fare presenti i diritti della persona umana – lottare contro la pandemia dell’AIDS, della guerra, delle divergenze tribali. Per questo si sente lacerato tra chi lo spinge sempre più avanti in questo suo stare con la gente, e chi lo detesta.

Mons. Monsengwo Pasinya, arcivescovo in Congo: L’umanità è divisa da differenze sociali e da una cultura politica che integra il ricco ed esclude deboli e poveri. Il vescovo non può non gridare a tutti quelli “che si compiacciono dell’ingiustizia, dell’oppressione, della violazione dei diritti della persona e della sua dignità, del contrabbando di armi, dell’organizzazione della schiavitù”. Si noti quel “si compiacciono”. Quello che prima era visto come negativo, oggi è giustificato come legge di vita. Se l’esclusione fa parte del diritto di natura, osservare masse di affamati e di disoccupati, vedere un bambino scheletrico condannato a morte, provoca “compiacenza”. Così il bianco diventa nero. Il male bene.

Mons. Mutabazi (Rwanda): ricorda genocidi e massacri del 1994 ma fa presente che le guerre etniche continuano e che la sua terra è piena di rifugiati, orfani, vedove, affamati, infetti di AIDS.

Mons. Corral Mantella (Ecuador): il problema è teologico, mette in gioco lo stesso cristianesimo. “I poveri aumentano ogni giorno di più e tuttavia nelll’economia globalizzata non contano, sono esclusi”. Ma i poveri non sono persone umane? Non costituiscono il nucleo centrale dei destinatari del vangelo?

Mons. Quevedo (Filippine) indica nei vescovi coloro che stanno “con i poveri” e presentando Gesù loro speranza, diventano voce morale di esclusi, difendono i loro diritti, denunciano le ingiustizie sociali. Soprattutto si fanno poveri coi poveri.

 

(3)      Da una registrazione non rivista dall’Autore in ADISTA 16/02/15-16.

 

(4)      Si veda la polemica tra “Il Corriere della Sera” e “Avvenire” 30 luglio 2001 (“Mal d’Occidente tra i cattolici”)31 luglio 2001 (“Mal d’Occidente: gli alibi e la realtà”) La polemica continua anche nei giorni seguenti.

 

 

(5)      Le reazioni a questo stato di cose riflettono l’attuale confusione. Proponiamo una ipotesi di tipologia reattiva presente anche tra i credenti.

Cinici. Non c’è differenza tra gli attuali governanti del mondo e quelli del passato. Questa è la vita. C’è un ciclo nella storia e bisogna accettare le cose come vengono. Meglio se ci troviamo dalla parte dei vincenti.

Spiritualisti. Il mondo va in malora e non c’è nulla da fare. La pace va cercata nella nostra interiorità e nell’attesa della beatitudine del cielo, dopo la morte.

Pessimisti. Criticano tutto e tutti, ma “sanno” che non c’è nulla da fare.

Opportunisti. Criticano tutto e tutti, sanno che non c’è nulla da fare, che questa è la vita. Tanto vale profittare, nei limiti del loro possibile, della situazione, entrando nel gioco.

Ribelli. Contestano la situazione, la rifiutano. Invocano una élite illuminata che non trovano o che non dà risposte plausibili.

Eroi. Facendo leva sul senso di rivolta e di responsabilità per i loro simili, rischiano di venire strumentalizzati per progetti che nulla hanno da spartire con il riscatto dei poveri. Tra le cose più atroci la rinascita dei kamikaze anche tra giovani, come volontari di eserciti che pensano di combattere la guerra totale contro “il male”.

Spartachisti. Come chiamarli? Il termine non è per nulla dispregiativo. Si tratta di masse organizzate che si ribellano all’”impero” sia localmente che regionalmente, disposte a vivere di vittorie e sconfitte. Si pensi all’insurrezione argentina, alla mobilitazione delle FARC in Colombia, al Movimento dei “senza Terra” in Brasile, alle proteste in Bolivia; in qualche modo, anche allo stesso popolo di Seattle.

Incarnazionisti. La fede cristiana non conosce uomini divisi in anima e corpo. Cristo si è incarnato nella storia. Il “regno” inizia qui ed ora, anche se il suo compimento è metastorico. Abbiamo bisogno di una nuova spiritualità, globalizzata appunto. Una spiritualità “di resistenza” ci verrebbe a volte di dire. Non possiamo apostatare dalla speranza perché tutto è complesso, il potere troppo forte, noi troppo deboli. Abbiamo dalla nostra il mistero della risurrezione. Gesù, il risorto, si merita una chiesa migliore, più decisa!

   

        (6)  Ci riferiamo al “nuovo pensiero” di Rosenzweig, Lévinas, Buber, Gadamer, ecc.

    

(7)     Tutto il suo intervento è la descrizione di una istanza etica alternativa all’attuale fase della globalizzazione. Una nostra sintesi. La natura, la vita, i diritti umani, la libertà, l’amore, la cultura non sono “merce”. Noi abbiamo i nostri valori, ancora validi, ancora da vivere: libertà, fraternità, uguaglianza. Fanno parte della “morale utopica”, sovversiva. Si tratta di promesse non realizzate, ma realizzabili. Attengono al principio-speranza, permettono all’uomo di stare a testa alta. Intendiamo parlare di libertà di opinione, di stampa, di religione, di organizzazione, anche di commercio. Oggi però le regole del commercio sono imposte da una vera dittatura finanziaria. La libertà di vivere e pensare, in ogni caso, deve riguardare ogni uomo, non soltanto alcuni.

Oggi non ci sono “emarginati” che potrebbero ritornare al “centro”. Ci sono “esclusi” e questo va contro il diritto all’uguaglianza. La marcia per l’uguaglianza è lotta per la giustizia, revisione del diritto di proprietà. Sono’ “morali” Bill Gates, Paul Allen, Warren Buffet, Larry Ellison che concentrano nelle loro mani il prodotto interno lordo di 42 Paesi poveri con 600 milioni di abitanti? Non si possono perseguitare i clandestini. Non si possono lasciare alla loro sorte i bambini di strada, le donne senza lavoro e abbandonate dagli uomini.

La fraternità è la traduzione del principio evangelico dell’amore del prossimo. No a competizione, a concorrenza feroce, alla guerra di tutti contro tutti. Dobbiamo globalizzare la solidarietà, non la miseria. Deve interessarci ciò che succede in Pakistan anche se ci sembra “conveniente” il prezzo dei tappeti acquistabili in Occidente. Contro ogni discriminazione, anche religiosa, “vogliamo un mondo in cui entrano molti mondi”. Si tratta di una civiltà della solidarietà che nasce dal sentirci “uno”.

 

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