A cominciare dal
motto che lo riassume, "senza giustizia non c'è pace, senza
perdono non c'è giustizia", il messaggio del Papa per la prossima
giornata della pace, che merita di essere letto per intero, mi ha
toccato profondamente. Ci ho ritrovato la serena ma non banale unità
interiore del cristiano che ammiravo in mio padre: da lui, che era un
giurista, ho imparato da ragazzo l'idea che perdono e giustizia non sono
due termini antitetici, ma piuttosto due elementi che si completano a
vicenda. Da lui, che come il Papa era figlio di un militare, ho imparato
l'orrore per la guerra e la violenza, ma anche la coscienza che qualche
volta la minaccia e perfino l'uso della forza possano essere
tragicamente necessari.
Un cristiano può
rinunciare alla difesa di se stesso - mio padre aveva rinunciato alla
scorta, che pure gli era stata proposta - ma non alla difesa dei deboli,
di persone innocenti e inermi che vengono oppresse, aggredite o
sterminate. Un cristiano può avere dubbi anche gravi sul modo in cui
fermare efficacemente la violenza e le tante ingiustizie del mondo.
Eppure per lui il tentativo di arginare il male, nella misura in cui è
possibile farlo con mezzi umani e quindi in modo certamente imperfetto,
non solo è legittimo, ma può essere addirittura un dovere.
E' falsa la
contrapposizione fra una giustizia fredda e disumana ed un perdono ricco
di calore e umanità: essi sono invece due facce della stessa medaglia,
perché non si può fondare la pace sulla sopraffazione dei deboli, né
si può considerare pace l'assenza di conflitto e il silenzio delle armi
quando il più forte ha messo a tacere l'inerme. Giustizia e perdono
sono due volti dell'amore e costituiscono, come dice il Papa, i veri
pilastri della pace.
Certo l'innesto nella
civiltà umana del perdono cristiano non è cosa banale. A causa del
peccato, anche dopo secoli e millenni riemerge sempre in ciascuno di noi
la vecchia, barbara legge: occhio per occhio! D'altra parte non possiamo
dirci cristiani se non sappiamo perdonare; il perdono è sostanza stessa
del messaggio evangelico e aspetto costitutivo della nostra vocazione.
La cultura del perdono, proiezione comunitaria (nei secoli e nelle
diverse nazioni) di tante vite autenticamente evangeliche e quindi
orientate alla salvezza, non alla condanna, è uno dei contributi più
preziosi che, in quanto cristiani, abbiamo offerto e offriamo alla
società.
In questo senso
alcuni importanti principi di chiara impronta cristiana - la
responsabilità penale è personale, e perfino un'azione di forza deve
tendere al ricupero di chi sbaglia - sono stati recepiti piú di
cinquant'anni fa nella Costituzione Italiana e in altre carte europee.
Ma è importante che il Papa li ribadisca in questo messaggio, non solo
perché vengano attuati dove già sono riconosciuti, ma perché
diventino patrimonio anche delle non poche nazioni in cui sono
sconosciuti: ancora oggi, in alcune grandi nazioni, vige infatti la pena
di morte, ed è perfino previsto che i parenti delle vittime assistano
alla sua esecuzione. Ciò però è incompatibile col Vangelo, e anche
umanamente, numeri alla mano, non riduce l'incidenza statistica della
violenza omicida.
Giovanni Paolo II lo
ripete con chiarezza in questo messaggio: la semplice e attraente
matematica della vendetta - occhio per occhio - è alla base di una
spirale di violenza che finisce col colpire sempre nuovi innocenti,
portando alla guerra di tutti contro tutti, non alla giustizia e alla
pace: benché il perdono, annunciato con pienezza da Gesú, possa
apparire paradossale, nel lungo periodo esso risulta efficace anche nel
curare le ferite sociali e internazionali: nel perdonare, dice il Papa,
vi è in realtà una certa 'ragionevolezza'. Mio padre, quando ero
bambino, aveva riferito una frase di Kennedy di simile tenore, che non
ho dimenticato: conviene sempre lasciare un'onorevole via di scampo
all'avversario. Offrire una via d'uscita è al tempo stesso un atto di
amore e un gesto prudente, lungimirante e ragionevole: lo spirito di
riconciliazione è destinato a produrre, nel lungo periodo, frutti
positivi.
Del resto, dice il
Papa, l'autentica giustizia è agli antipodi della vendetta: non è mai
una gustosa rivalsa dei buoni contro i cattivi, un regolamento di conti
tra vittima e colpevole, quanto il tentativo della comunità degli
uomini, imperfetto eppure necessario, di difendere i deboli e la
possibilità di un'ordinata ed equa vita comune. Ad un'azione negativa,
che dovrebbe essere mirata ai colpevoli e non coinvolgere interi gruppi
nazionali, etnici o religiosi, va dunque sempre accompagnata un'azione
positiva capace di estirpare le radici della violenza.
In questa prospettiva
il perdono non consiste in un buonismo sdolcinato; è invece l'impegno a
superare, anzitutto con la volontà del cuore, a livello personale, e
poi anche comunitario, i limiti di questi dolorosi, ma a volte
inevitabili interventi. La coscienza che tutti abbiamo in qualche misura
contribuito al male, che la nostra giustizia è sempre finita (summum
ius, summa iniuria, dicevano gli antichi), che non si uccide in nome
di Dio, che ogni uomo è nostro fratello - come diceva il motto di una
delle prime giornate della pace quando ero giovane - deve fare da guida
alla nostra azione.
Facile a dirsi ma non
a farsi - direbbero a questo punto molti austeri cultori della
realpolitik: le inerzie dei governanti e dei capi delle nazioni non sono
meno tragiche delle guerre, come insegna la storia dell'Europa di fronte
al nazismo. Ma proprio il superamento delle ferite della seconda guerra
mondiale attraverso una progressiva integrazione europea, o l'uscita
dell'Italia dal tunnel del terrorismo negli anni 70 e 80, suggeriscono
che, come già gridava Paolo VI alle Nazioni Unite, la pace è
possibile. E' possibile conciliare giustizia e pace, giustizia e
perdono.
Certo si tratta
sempre di una pace imperfetta, la pace che può dare il mondo: finché
siamo su questa terra, essa consiste solo nella progressiva
trasformazione dei conflitti in competizioni regolate. Una giustizia
aperta alla riconciliazione resta un ideale a cui ogni generazione deve
tendere sapendo di non poterlo mai riassumere in una formula definitiva.
A quanti però, negli articoli di fondo dei grandi quotidiani, guardano
con sufficienza a questi richiami del Papa, o addirittura considerano il
rifiuto della guerra di religione come l'ultimo tabú da infrangere -
basta con questa storia che non si uccide in nome di Dio, basta col
dialogo interreligioso - occorrerebbe ricordare che anche alcuni
dittatori dicevano di avere Dio dalla loro parte (Gott mit uns)
mentre altri si domandavano con ironia quante divisioni avesse il Papa.
Ma avevano fatto male i loro conti.
Giovanni
Bachelet