1. STORIA DELLA PREGHIERA


Il Qaddìsh è una preghiera nota a chiunque abbia una minima conoscenza del rituale ebraico; è un insieme di piccole e semplici formule che ricorre con notevole frequenza nel corso della preghiera, con alcune varianti e aggiunte, a seconda dei momenti. Anche il testo, in gran parte in lingua aramaica, è ben noto; peraltro poco si sa sul significato preciso e meno ancora sulla storia di questa preghiera. Queste note hanno lo scopo di chiarire, per quanto è possibile, gli elementi più importanti del Qaddìsh.

Il primo dato da mettere in evidenza è che non possediamo delle notizie precise sulle origini di questa preghiera, e quanto viene affermato dalla critica è il risultato di deduzioni da fonti indirette. In ogni modo possiamo farci un'idea abbastanza soddisfacente su come il testo della preghiera si è sviluppato. Infatti bisogna parlare di sviluppo e di evoluzione, perché quanto ora è in nostro possesso è il risultato di un processo di elaborazione abbastanza lungo.

Il nucleo fondamentale di tutta la formula è l'espressione aramaica "jehé sheméh rabbà mevoràkh le 'alàm ul'almé 'àlmaià", che significa, in traduzione piuttosto libera, "sia il Suo Grande nome benedetto, per sempre e in eterno". Ancora oggi questa formula viene recitata coralmente dal pubblico, come risposta all'invito dell'officiante di esaltare il Signore. Gli elementi di questa formula sono due: benedizione e riferimento all'eternità. Espressioni analoghe si trovano già nella Bibbia, sia come risposte del pubblico (come nel Salmo 116:2), che come inizio della preghiera (come in 1 Cron. 29:10); cosi è anche una frase, molto simile a quella del Qaddìsh, nella preghiera in Daniele 2:20, proprio in lingua aramaica. È inoltre importante segnalare un uso nel Santuario di Gerusalemme: in vari momenti del servizio, il pubblico che assisteva ai riti e ascoltava le benedizioni rispondeva con la formula ebraica "baruckh shem kevòd malkhutò le'òlàm wa'éd" (benedetto il nome della gloria del Suo regno per sempre), nota a tutti, perché oggi è rimasta in uso dopo il primo verso dello Shemà. Dal Targùm Jerushalmi (Gen. 49:2) apprendiamo che la frase aramaica (Jehé shemé...) che troviamo nel Qaddìsh è la traduzione di quella in lingua ebraica in uso nel Santuario. Dunque la frase in questione è la versione aramaica di una espressione di lode e benedizione molto diffusa nell'antico ebraismo, sia come inizio di preghiera, che come risposta del pubblico; oggi è interamente letta dal pubblico come risposta, ma ancora in tempi talmudici poteva essere divisa in due parti, di cui la seconda soltanto di risposta (Sifré Devarim 32:3). Si suppone che con la distruzione del Santuario si sia progressivamente estesa l'abitudine di usare questa formula di risposta, tradotta nella lingua di maggiore comprensione popolare. Come nel Santuario, doveva chiudere espressioni di benedizione e preghiera; presto divenne formula di chiusura di riunioni di studio, come apprendiamo dal Talmùd Babilonese (Sotà 49a). I rabbini dell'epoca insistevano sull'importanza di questo uso, fino a dire che era "una delle cose per le quali il mondo resta in vita"; e ciò è un segno del grande rispetto con cui questa formula veniva considerata, ma anche del fatto che la sua applicazione non era ancora un'abitudine consolidata.

Da queste origini il Qaddìsh conserva due elementi distintivi: la recitazione responsoria e il ruolo di chiusura di momenti di studio, o di parti di preghiera. Quest'ultimo ruolo può sfuggire all'osservazione superficiale, se si pensa al fatto che molti Qaddìshim sono inseriti dentro le preghiere giornaliere, e non solo alla fine; in realtà ognuno ha un suo ruolo preciso, proprio di chiusura di parti definite.

Ai tempi della redazione della Mishnàh (circa 200 e.v.) la preghiera non aveva ancora una posizione ufficiale nella liturgia, come si deduce dal fatto che non viene menzionata tra le preghiere che non si possono recitare senza dieci adulti. Per arrivare alla formulazione esplicita di questo principio bisogna attendere la tarda Massékhet Soferim (cap. 10:7). È in queste testo che finalmente compare il nome di Qaddlsh, che significa 'santo'; in tutte le altre fonti precedenti il nome della formula era jehé sheméh rabbà. Il nome nuovo della preghiera indica anche che non si compone più della semplice formula di risposta, ma che questa è preceduta da una formula di santificazione del nome divino.

L'adozione di questa formula iniziale (Jitgadàl wejitqaddàsh...) si ricollega a precise tradizioni; in pratica l'uso di terminare le riunioni di studio con espressioni di lode a Dio, e insieme di consolazione, nelle quali si esprimevano i bisogni fondamentali della comunità con termini presi dalla letteratura profetica. Nel nostro caso la formula riprende le parole del profeta Ezechiele, 38:23 e 36:23, insieme all'invocazione del regno divino sulla terra in breve tempo: un'aspirazione radicata nella sensibilità ebraica, espressa ripetutamente in altre preghiere (un esempio è nell'undicesima benedizione della 'Amidàh). È difficile dire quando i due nuclei (la santificazione con la preghiera del regno, e la risposta) probabilmente esistenti indipendentemente da tempi lontani, si siano fusi nella formula unificata che oggi viene recitata; alcuni critici avanzano l'ipotesi che malgrado le notizie sul Qaddìsh siano tarde, la fusione sarebbe avvenuta già prima della distruzione del Tempio; prova ne sarebbe l'assenza di riferimenti a Gerusalemme e al Santuario. Risale comunque all'epoca dei Gheonim, nel Seder di Rav 'Amram, la prima fonte completa del testo. Poco dopo, in una seconda fonte, il Siddur di Sa'adià, compare una variante significativa nella frase iniziale: l'aggiunta wejatzmàch purqanéh (che faccia fiorire la sua liberazione); questa versione è confermata dal testo di Maimonide, mentre non ha riscontro nel Machazòr Vitry. Sono differenze che forse risalgono già agli usi diversi della Palestina e della Babilonia e sono state conservate nei vari riti; quello italiano omette l'aggiunta, conservando la versione originaria più semplice.

 

2. STRUTTURA E TIPI DI QADDISHÌM


2:1 Il Qaddìsh breve.

Dopo le due parti iniziali (lode e riposta) il Qaddìsh prosegue con una serie di lodi ulteriori, in lingua ebraica; le espressioni sono in totale otto; insieme alle due iniziali si arriva a dieci lodi. Probabilmente non si tratta di un caso, anche se è difficile dire cosa il numero delle lodi rappresenti simbolicamente. L'autore delle Shibbolé haLéqet, il romano Tzidqijàh 'Anàv, nella sua nota sul Qaddìsh - che è una delle fonti più preziose per la storia di questa preghiera - suggerisce a nome dei Gheonim che il numero dieci ricorda i dieci detti divini con i quali è stato creato il mondo; e si noti che la creazione del mondo è menzionata nelle prime righe del Qaddìsh. 'Anàv aggiunge che le dieci espressioni sono divise in due gruppi (prima due e dopo otto) come i dieci comandamenti; i primi due, secondo il midròsh, furono dati al popolo direttamente dalla voce divina, e gli altri dalla voce di Mosè.

La prima parte del Qaddìsh si chiude con una frase aramaica, che nuovamente ricorda il nome divino, che è al di sopra di ogni capacità espressiva di lode nel mondo. In questa frase compare, con dubbio significato, tra canti e lodi, anche la parola nechamatà, che letteralmente significa consolazione. Anche qui è di aiuto una spiegazione dalle Shibbolé haLéqet: tutte le lodi pronunciate dai profeti, secondo una tradizione rabbinica, sono riferite al "giorno della consolazione", il giorno in cui i mali di Israele e dell'umanità saranno risolti; quindi parlare nel Qaddìsh di "consolazione" è come dire che la gloria divina è indescrivibile persino con tutte le espressioni di lode e ringraziamento che la tradizione profetica ha dedicato per l'occasione della liberazione dell'umanità dalle sue sofferenze. Ma forse la spiegazione più semplice è che il termine, come in una radice araba simile, significa ugualmente lode e gloria.

Si chiude così la prima parte del Qaddìsh, che nella liturgia può avere un ruolo compiuto a sé stante, ed è conosciuta con il nome di Qaddìsh qatzàr (Q. breve) o Chatzi' Qaddi'sh (mezzo Qaddìsh). L'uso di questa formula ridotta era già diffuso all'epoca dei Gheonim. Oggi la si usa frequentemente nella preghiera, in genere quando si finisce la lettura di una parte che costituisce un blocco autonomo, o risponde ad un obbligo specifico. Si tratta in pratica di una formula che pone fine a piccole parti di preghiera. Un caso è quello della preghiera di Minchàh, dopo la lettura del salmo (Tehillàh leDavid), che rappresenta l'adempimento ad una norma particolare; o dopo le benedizioni che accompagnano lo Shemà di 'Arvìt, prima della 'Amidàh, perché, almeno in origine, 1' 'Amidàh serale era facoltativa, e quindi chi usciva prima dalla Sinagoga non doveva mancare di recitare con il pubblico la formula di chiusura della preghiera obbligatoria.

 

2:2 Il Qaddìsh intero

Oltre a questo Qaddìsh breve, ne esistono altri tipi. Il primo da ricordare è il Qaddìsh batrà (ultimo), detto anche Q. gamùr o shalém (completo) o Q. titqabbàl, dall'inizio della formula aggiuntiva, che è una preghiera affinché le richieste e le invocazioni della comunità di Israele siano accettate "dal loro Padre che è in cielo". L'espressione è in aramaico e finisce con l'invito alla comunità a rispondere con l'Amén. Seguono due invocazioni di pace; la prima in lingua aramaica ('ehé shelamà rabbà...), la seconda in ebraico ('òséh shalòm...); quest'ultima frase è la stessa che chiude la preghiera della 'Amidàh; l'espressione iniziale riprende quella biblica di Giobbe, 25:2.

Così strutturato questo Qaddìsh è detto 'ultimo', perché rappresenta la effettiva formula di chiusura della preghiera pubblica. Lo si recita infatti dopo l'uvà leTziòn del mattino, dopo le 'Amidòt pomeridiane e serali, alla fine del Musàf.

Talora, nei vari formulari, la preghiera dopo questo Qaddìsh prosegue, ma si tratta di aggiunte non essenziali, o comunque successive rispetto allo schema fondamentale dell'intera preghiera.

Il mezzo Qaddìsh e quello intero sono da taluni chiamati Qaddìshim deTzibbùr, del pubblico, perché recitati dall'officiante in momenti precisi della normale liturgia.

2:3 Il Qaddìsh derabbanàn

Una formula speciale di Qaddìsh viene impiegata per chiudere le riunioni di studio. In questo Qaddìsh non si dice la frase che inizia con Titqabbàl, ma si inserisce una formula aramaica di preghiera per i maestri di Israele e in genere per tutti coloro che si dedicano allo studio della Toràh. Dopo questa formula si prosegue con l'invocazione della pace ('ehé shelamà ecc.). Questo Qaddìsh è generalmente chiamato "derabbanàn"; Maimonide tuttavia con questo termine indica il Qaddìsh che vedremo subito avanti. Oggi questo tipo di Qaddìsh viene recitato come alle origini, in chiusura di riunioni di studio, o alla fine della lettura di brevi stralci di brani rabbinici inseriti nella liturgia a chiusura delle preghiere. Spesso il Qaddìsh derabbanàn ha il ruolo di integrare la recitazione del Qaddìsh dell'orfano (v. più avanti) con il significato più specifico di dedica di un momento di studio alla memoria di un defunto; tale uso è specialmente raccomandato quando si ricordano i maestri scomparsi.

2:4 Il Qaddìsh de'attid lechaddatà.

Il Qaddìsh denominato da Maimonide come derabbanàn si compone oltre che della formula speciale di preghiera per i maestri di cui al paragrafo precedente, di un inizio in lingua aramaica del tutto diverso, in cui si parla del mondo futuro, della risurrezione dei morti e della ricostruzione della città di Gerusalemme. La formula già compare nel Massékhet Soferìm (19:12), come aggiunta particolare riservata al Qaddìsh che viene chiamato deagadta, cioè quello recitato dopo lo studio. É quindi probabile che questo Qaddìsh (che per non confondersi è meglio chiamare de'attid lechaddatà, dalle sue prime parole differenti) fosse alle origini il vero e proprio Qaddìsh derabbanàn, riservato alla chiusura dello studio; mentre quello che oggi denominiamo derabbanàn sia solo una formula semplificata che al Qaddìsh normale ha aggiunto la preghiera finale per i maestri. Oggi le tradizioni per il suo uso non sono univoche; a Roma l'introduzione della formula è recente, e questo Qaddìsh si recita solo in momenti particolari: la sera e la mattina del 9 di Av (per il ricordo di Gerusalemme), al momento della sepoltura (per il riferimento nel testo alla risurrezione dei morti) - in questi casi omettendo l'aggiunta finale "'al Jisràel" - e alla fine dello studio di un trattato di Talmùd (in questo caso omettendo la frase "Titkelé...").

 

2:5 Il Qaddìsh dell'orfano

La grande popolarità del Qaddìsh è in maggior parte dovuta all'occasione particolare della sua recitazione durante il primo anno di lutto (undici mesi per i Sefardìm) e negli anniversari. Il testo del Qaddìsh dell'orfano è uguale a quello completo (v. sopra al §2:2), meno la frase Titqabbàl. Viene recitato alla fine delle preghiere principali (dopo 1' 'Alénu della mattina e della sera, e alla fine di Minchà e di Musaf). L'inizio di questo uso è attestato nella Massékhet Soferìm (19:12), che però si riferisce solo alla recitazione in occasione della morte di un maestro: successivamente si estese ad ogni defunto (secondo la testimonianza di Nachmanide).

Sono due i motivi indicati dalle fonti tradizionali a giustificazione di questo uso. Il primo è quello dell'accettazione, da parte della persona colpita dal lutto, del decreto divino. Come il Salmista dice: "ho trovato disgrazia e pianto e ho invocato il nome di Dio" (Salmi 116:4-5), e Giobbe dichiara: "il Signore ha dato, il Signore ha preso, sia il nome del Signore benedetto" (1:21), così il rito prescrive in vari momenti, a chi è in lutto, la recitazione di benedizioni (benedetto il Giudice di verità, ecc.). La lettura pubblica del Qaddìsh diventa in questa prospettiva la pubblica dichiarazione dell'accettazione dell'ordine e della volontà divina sulla terra, insieme ad una espressione di speranza. I termini di questa speranza, nella formula impiegata, non comprendono riferimenti espliciti alla risurrezione e al mondo futuro. Chi recita il Qaddìsh dell'orfano prega per l'avvento del regno divino su questa terra, e la prospettiva immediata è quella di una liberazione storica, e non in termini metafisici o escatologici. Comunque il riferimento alla risurrezione non è del tutto escluso dal Qaddìsh, perché nella formula speciale che si recita al momento della sepoltura (v. § 2:4) se ne parla esplicitamente. L'importante è comunque sottolineare che nella pratica quotidiana del rito prevale una visione e una problematica differente.

Il secondo motivo dell'uso è quello di una preghiera in favore dei morti. È un'idea che è presente indubbiamente nella tradizione ebraica, anche se per valutarla bisogna considerarne con attenzione i termini. Già nell'apocrifo Secondo Libro dei Maccabei si racconta che alla fine della guerra venne offerto un sacrificio per espiare le colpe dei defunti. L'idea ricompare nel Sifré (Devarìm 21:8); anche per i morti, vi si dice, "è necessaria l'espiazione". Solo in epoche molto successive si pensò al Qaddìsh come strumento di espiazione. In un testo di epoca Gaonica, le Otijjòt deRabbi 'Aqivà, si immagina che nell'epoca messianica Dio siederà in trono mentre Zerubavel in piedi reciterà il Qaddìsh, che sarà ascoltato in tutto il mondo, dai vivi ed anche dalle anime della Geenna; quando anche queste risponderanno Amén, la pietà divina sarà risvegliata, e sarà concesso un perdono universale. In questo testo siamo ancora lontani dall'uso rituale da parte dell'orfano. Più specifica è invece una leggenda considerata ancora più tarda, la cui fonte più antica dovrebbe essere la Massékhet Kallàh, ed è citata in vari testi medievali. Vi si racconta di Rabbì 'Aqivà che incontra un uomo schiacciato da un carico di fascine, e gliene chiede il perché. L'uomo gli risponde che è la legna del rogo nel quale viene bruciato ogni giorno all'inferno, ad espiazione dei peccati commessi in vita; era preposto alla riscossione delle tasse, e rispettava solo i ricchi, mentre uccideva i poveri. 'Aqivà gli chiede se conosce un modo per mettere fine alle sue sofferenze; l'uomo gli risponde che ha sentito che se avesse un figlio che in pubblico dicesse Jitgadàl, e ottenesse la risposta (Jehé shemé...) dalla comunità, sarebbe subito liberato. L'uomo ha lasciato in vita la moglie incinta, ma non sa cosa è poi successo. 'Aqivà si reca quindi dalla vedova; per cercarla chiede notizie ai suoi concittadini, che maledicono il ricordo del morto e della sua famiglia e confessano di non avere neppure pensato a circonciderne il figlio. 'Aqivà prende il bambino con sé, lo fa circoncidere e lo mette nella sua scuola. Ma il bambino è refrattario a qualsiasi insegnamento. 'Aqivà allora digiuna per quaranta giorni, finché una voce lo informa che finalmente i suoi sforzi avranno successo. Il bambino inizia a studiare, impara a recitare il Qaddìsh, e si reca in Sinagoga a leggerlo; il pubblico gli risponde, e in quel momento cessano le sofferenze del padre morto.

Questa leggenda è molto importante per valutare il senso preciso del rito; c'è solo da aggiungere, per la comprensione completa dei dati, un altro principio rabbinico, non collegato con il Qaddìsh, per il quale la pietà del figlio ha influenza sulla sorte dei genitori defunti (già in Talmùd Babilonese, Sanhed. 104 a).

La sostanza del discorso è questa. La tradizione ebraica si preoccupa di creare e conservare nel tempo una società ordinata che segua un modello di comportamento ideale. Chi si discosta da questo modello turba un equilibrio sociale e culturale; ma la sua colpa è considerata tanto più grave quando si perpetua nel tempo e nella società; nel nostro caso particolare, se il cattivo esempio dei genitori si trasmette ai figli, e non c'è una limitazione nel tempo delle implicazioni negative delle azioni illecite, i reati commessi sono giudicati con la massima severità. Diverso è il caso, se i figli rifiutano l'esempio negativo ricevuto e con le loro azioni cercano di sanare e limitarne le conseguenze. D'altra parte può succedere che la società che sente le conseguenze e i pericoli di un comportamento scorretto crei dei sistemi difensivi esagerati, ed emargini non solo il colpevole, ma anche il suo ambiente e la sua famiglia. Così quello che è in origine un meccanismo di legittima difesa sociale diventa un sistema perverso di conservazione del male, visto che non si concede più la possibilità, anche agli innocenti, di ricostruire una esistenza positiva.

La leggenda di Rabbì 'Aqivà mostra l'opinione ebraica in merito e spiega il senso reale del concetto di 'espiazione per i morti' attribuito al Qaddìsh. 'Aqivà non è qui il mago che vuole insegnare la formula magica al bambino, per liberare il padre; è il maestro che tenta di limitare nel tempo e nello spazio i danni di una vita perversa, e le reazioni ugualmente negative di una società che per difendersi irrazionalmente propaga il male. Il digiuno di 'Aqivà rappresenta gli sforzi che ognuno, persino i maestri più preparati, devono fare, per superare le diffidenze e le prevenzioni. Il bambino che impara e recita il Qaddìsh diventa chiaramente il segno di una riparazione, di una ripresa di vita normale, di una ricomposizione dell'ordine ideale, rappresentato dal regno divino sulla terra. C'è un solo modo per la società di 'espiare' cose già avvenute, che evidentemente non possono ritornare come erano: impedire che si verifichino di nuovo. Anche in questo senso i morti continuano a vivere: vive il loro esempio, il prodotto delle loro azioni; ed è certo che richieda espiazione. A questa azione è chiamato in primo luogo, perché coinvolto biologicamente, il figlio del defunto; ma anche la comunità è coinvolta in questo disegno; è questo il significato della necessità di una recitazione pubblica del Qaddi'sh dell'orfano, e della risposta imposta al pubblico all'invito a benedire fatto dall'orfano. Sono tutti coinvolti nel processo di riparazione, e questo inizia nell'accettare nella comunità che prega il figlio del defunto, e continua nel rispondere alle sue parole.

Da tutto questo è ben chiaro che il senso della recitazione del Qaddìsh dell'orfano è profondamente religioso. La spiegazione proposta è la più semplice e 'razionale', ma ne sono possibili ulteriori approfondimenti, nell'ambito delle dottrine sulla prosecuzione della vita dopo la morte, su cui qui non ci si può dilungare. E ovvio che in questo contesto è estremamente facile scivolare verso l'automatismo dell'azione, il semplicismo dei meccanismi coinvolti, in una parola verso il magico: recita un Qaddìsh e salvi i genitori dall'inferno. È un rischio che si corre con ogni preghiera e che, nel caso particolare, svuota tutto il senso dell'azione. Dunque il Qaddìsh va letto con particolare attenzione e comprensione dei suoi significati. Già nel dodicesimo secolo Rabbi Avrahaàm bar Chijà haNassi di Barcellona avvertiva che non aveva alcun senso sperare nell'automatica remissione dei peccati per virtù delle preghiere dei figli, e Avraham Horwitz (XVI secolo) sottolineava che era meglio comunque l'adempimento di un precetto particolare piuttosto che la recitazione del Qaddìsh fatta allo scopo di far uscire i genitori dall'inferno. Sono segni di una vigilanza costante della tradizione contro i rischi di una degenerazione, vista con molta diffidenza.

Da quanto si è detto finora risulta che il rito si riferisce in particolare al figlio maschio; ogni altro caso ha sollevato discussioni. Ci sono per esempio opinioni divergenti sulla opportunità di far recitare, in assenza dei figli, il Qaddìsh al padre del defunto; in genere si tende a permettere la recitazione al fratello minore per il fratello maggiore scomparso; altri invece preferiscono che in assenza di altri sia il genero a recitarlo. In alcune comunità italiane le donne recitano il Qaddìsh, purché in presenza di dieci uomini adulti. È accettato che gli allievi recitino il Qaddìsh per il loro maestro. Alcuni permettono anche agli eredi, in caso di mancanza di figli maschi, di delegare qualcun altro alla recitazione. In ogni caso, in pratica, è opportuno rivolgersi al rabbino della propria comunità per le indicazioni precise sulle consuetudini locali.

 

2:6 Altri Qaddìshìm

La formula del primo brano del Qaddlsh ("durante la vostra vita e i vostri giorni...") si presta ad alcune elaborazioni. Da tempi antichi, in particolari occasioni, le si aggiungevano menzioni speciali. Sappiamo ad esempio che nella cerimonia di insediamento dell'esilarca di Babilonia veniva letto solennemente un Qaddlsh in pubblico che diceva: "durante la vita del nostro principe l'esilarca, e durante la vostra vita, e quella di tutta la casa d'Israele...". Si ha notizia di altre aggiunte di questo tipo; una di queste è un ricordo speciale di Maimonide, che viene recitato dagli Ebrei dello Jemen.

 

3. LA MUSICA DEL QADDÌSH


L'importanza del Qaddìsh nella liturgia ha sollecitato nei secoli una produzione musicale specifica. Ogni rito ha elaborato musiche speciali per accompagnare il canto di questa preghiera; spesso le diverse occasioni della sua recitazione hanno dato origine a motivi particolari che sottolineavano la particolarità di ogni circostanza. Per queste esigenze sono state utilizzate le tradizioni musicali più disparate, sotto gli influssi degli stili d'epoca e delle consuetudini locali. Non è mancato l'inserimento di musiche popolari, o profane, o addirittura patriottiche: un esempio curioso è l'uso della Marsigliese, nella Lorena intorno al 1830.

Anche negli usi della comunità di Roma si segnala una discreta varietà di motivi, anche se al confronto con altri luoghi la tradizione risulta relativamente meno ricca, e piuttosto sobria. Inoltre le musiche sono perloppiù di epoca remota.

RICCARDO DI SEGNI


Ringrazio il rabbino dottor Shalom Bahbout per la segnalazione di testi di consultazione e il rabbino Vittorio Della Rocca per le indicazioni sul rito romano.


 Nota Bibliografica

Queste note si basano su dati forniti da:


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