Il
mestiere dell'insegnante
Web Scuola - 4 marzo 2003
04/03/03
- Una riflessione su relazione ed educazione
attraverso il film “Essere e avere” e la
nostra intervista al pedagogista Amilcare Acerbi
Insegnare ed educare: due elementi che
avanzano, o che dovrebbero avanzare, di pari
passo e per i quali la scuola rappresenta un
contesto privilegiato. Ma qual è il
valore della relazione nel processo educativo?
Lo abbiamo chiesto ad Amilcare Acerbi,
pedagogista, che ha più volte
inserito la visione di film nei suoi incontri con
gli insegnanti. L'ultima occasione per questo tipo
di operazione gli è stata fornita da Essere
e avere, un film del noto documentarista Nicholas
Philibert, che descrive la vita
di una classe unica in una scuola
nella regione dell'Auvergne (Francia).
Com'è noto, la classe unica nelle
scuole elementari di alcune zone isolate prevede
che un solo maestro insegni contemporaneamente a
bambini che frequentano dalla prima all'ultima
classe del ciclo. Il film-documentario, quindi,
racconta e mette in scena le giornate
di un gruppo di bambini e del loro maestro,
mettendo in luce le emozioni e le ribellioni dei
piccoli, la loro curiosità e i loro stupori di
fronte ai primi incontri col sapere.
Professor Acerbi, per quale
ragione inserisce questo film nei suoi percorsi
con gli insegnanti ?
Avevo già provato ad utilizzare
i film per affrontare delle problematiche
educative. L’ho fatto qualche anno fa,
quando dirigevo il servizio comunale a Torino, con
gli educatori e il personale ausiliario dei nidi e
delle scuole d’infanzia, per ragionare su temi o
fare esperienze non necessariamente attinenti al
lavoro quotidiano ed indurre riflessioni personali
sul proprio lavoro. Ho anche affrontato il tema
del proprio ruolo nelle situazioni difficili
usando il film Ricomincia da oggi di
Tavernier, trovando
riscontri significativi.
Essere e avere mi è sembrato molto interessante
rispetto da un lato alla crisi di ruolo e
di identità degli insegnanti, e
dall’altro alla discussione sul maestro
prevalente, che tocca soprattutto le
scuole elementari. Credo comunque che sia un film
molto valido anche per gli insegnanti delle scuole
d’infanzia e per gli insegnanti delle
scuole medie, anzi, forse ancora di più per loro.
Il film sollecita anche il dibattito
sulla chiusura delle scuole periferiche,
rimaste senza allievi sia nei centri
urbani che nei paesi, che purtroppo oggi in Italia
si sta affievolendo ma che varrebbe la pena di
riprendere: ormai sono molti coloro che, per avere
un luogo più tranquillo dove vivere, dalle città
si rispostano in campagna. Di fatto, le chiusure
delle scuole sono già state attuate ed in genere
sono state determinate da criteri
economico-finanziari, non di identità o di
creazione di una comunità.
Quali sono i temi principali
descritti nel film-documentario di Philibert?
Questo film punta molto non tanto su un
modello scolastico quanto su un modello di
relazione, su come ci si relaziona con i
bambini, come li si può ascoltare, come li si può
indurre a comportamenti rispettosi nei confronti
della comunità nella quale vivono. Credo che oggi
uno dei problemi della discussione intorno
alla scuola dell’obbligo sia proprio
quello di aver accantonato il confronto e
la ricerca sui contenuti: al massimo ci
si ferma sulla questione delle "3 I", ma
non si ragiona intorno al tema della relazione e
di come rapportarsi con un bambino. Da questo
punto di vista, il film è magistrale.
A chi è stato presentato il
film?
Ho sperimentato la proiezione
del film in contesti e con platee differenti.
Ad esempio, a Gavirate, in provincia di Varese, in
collaborazione con la comunità montana Valcuvia,
il film è stato presentato durante una mattinata ai
bambini delle elementari, nel pomeriggio ai
ragazzi delle medie e durante la sera ai
genitori e agli insegnati.
Qual è stata la reazione degli
insegnanti alla proiezione del film?
In generale, gli insegnanti sono
colpiti dall’emozione che il film suscita:
ho verificato le stesse reazioni anche a Cremona,
a Firenze, a Milano .... Direi che gli insegnanti,
a parte qualcuno che pensa che il film sia
ideologico e legato al ruolo unico del maestro
prevalente, escono colpiti e commossi
dalla capacità di relazione. Mi sembra
di percepire che avere dei bambini con cui
dialogare sia il sogno a cui aspirano. In
generale gli insegnanti hanno un atteggiamento
"contro" i comportamenti più difficili
dei bambini e "contro" i genitori che,
secondo loro, non fanno a sufficienza per
costruire una capacità di relazione in famiglia; ecco,
dal film emerge che in quella
scuola esiste uno stile, che a scuola è
possibile predisporre un metodo, e che è
proprio questo che manca: un’iniziativa
collettiva degli insegnanti per aiutare i bambini
ad acquisire autonomia ed autocontrollo nei
comportamenti in comunità.
In che modo il film si inserisce
nel dibattito la questione del "maestro
prevalente"?
Il film nasce in un contesto avulso
dalle nostre attuali discussioni, ma uno dei suoi
temi forti riguarda la centralità della
didattica: ne viene fuori una figura
di insegnante autorevole, riconosciuta
dalle famiglie e dai bambini, che corrisponde poi
al desiderio del 99% degli insegnanti.
E qual è stata la reazione dei
genitori?
Alle proiezioni i genitori non
sono stati tantissimi, ma quelli
che sono intervenuti hanno riscontrato il
modello di scuola, di rispetto e di
attenzione verso i propri figli che
vorrebbero. E' vero che i genitori spesso
non educano in maniera sufficiente i bambini per
come se lo aspettano gli insegnanti; ciò detto,
è anche vero che i genitori sono molto
cambiati, e che non c’è più
la percezione di avere a che fare
con genitori che affidino alla cieca i
figli alla scuola. In passato esisteva
una concordanza di modelli,
scolastico e familiare, autoritari:
nel momento in cui il modello è evoluto verso una
forma democratica, impostata sulle relazioni e non
sulla forza, è chiaro che è diventato più
difficile trovare i metodi giusti per crescere i
figli; nel momento in cui maschio e
femmina sono molto più sullo stesso piano di
potere all’interno della famiglia, sia da un
punto di vista legale che del riconoscimento –
entrambi hanno un reddito, lavorano tutti e due,
doverosamente legati l’uno all’altro ma anche
liberi di slegarsi – è chiaro che tutte
le relazioni all’interno di una famiglia sono su
un piano più democratico, e quindi
lo sono anche le relazioni con i
figli.
Oggi, picchiare un figlio o un bambino
è un reato, o comunque molto più riprovevole che
nel passato: la società respinge questo
tipo d’azione. Se il contratto che
nasce quotidianamente col figlio non è valido o
non c’è dialogo, non c’è comprensione, il
figlio cerca la scappatoia per poter essere
libero, perché tutto parte dall’idea di libertà
che si ha: se si è per la libertà incondizionata
di fare tutto ciò di cui si ha voglia, oppure se
la propria libertà è mediata dalla relazione con
gli altri e ci si autocontrolla. In
assenza di controllo, ovviamente un
bambino cerca di fare ciò che vuole: lo
abbiamo fatto tutti, e talvolta lo fanno anche i
genitori. Il problema è che se i genitori danno
questi esempi e non stanno attenti, i figli
finiscono con l’acquisire quel tipo di
comportamento.
Credo che la riflessione su come
si costruisce il nuovo contratto con i propri
figli, o il nuovo
contratto con i propri alunni,
sia ancora molto limitata: quando si è in
difficoltà spesso si rimpiange il modello
autoritario, che ovviamente non è più
recuperabile perché le normative e le leggi non
lo permettono. Anziché contrapporsi,
però, bisognerebbe mettere sul piatto la
questione e gli insegnanti più attenti
potrebbero mettere a disposizione i loro metodi,
i loro strumenti per educare i propri
alunni alla democrazia e alla relazione: in
realtà, credo che ci voglia una concordanza tra
scuola e famiglia, anche perchè oggi i genitori
sono molto più attenti al percorso culturale ed
educativo dei propri figli, non solo al loro
brutale “allevamento”.
Non crede che vedendo un film
ambientato in una dimensione di campagna un po’
particolare, siano possibili due tipi di reazione:
ritenerlo un modello nostalgico oppure un modello
inapplicabile?
Questa in effetti è la reazione
di qualcuno, ma è
talmente forte la soddisfazione di vedere un
insegnante che ascolta, ed è così forte la
solidità del rapporto che si crea tra bambini ed
insegnante che si apre uno spiraglio di
emozione e di attenzione che fa riflettere
sul tema di fondo della relazione.
L’emozione suscitata dal film è
forte: certo, la soluzione non sta in una
scelta personale ma piuttosto collettiva,
condivisa con i colleghi. E’ un film che
potrebbe dare speranza ai molti insegnanti che
sulla strada dell’importanza della relazione ci
sono e lavorano. Penso, ad esempio, ai due
insegnanti che nelle scuole materne accudiscono i
bambini in età prescolare e che già hanno questa
capacità, perché condividono un modello di
comportamento nei confronti dei bambini preparando
le lezioni, le attività, calcolando in anticipo i
tempi di durata dell’interesse e
dell’attenzione dei piccoli, che dopo un po’
sfuggono.
Ecco: in Italia questo tipo di
capacità è molto diffusa ed
era già diffusa, ad esempio, nelle scuole a tempo
pieno, dove c’erano e ci sono i due insegnanti.
E’ più difficile con i nuovi moduli,
perché sono tre le persone che devono mettersi
d’accordo. Il modello del tre ha portato
a discutere di architettura, e non di bambini,
e questo è un peccato. Gli insegnanti delle medie
non condividono le strategie di relazione con i
ragazzi, ma a mio avviso dovrebbero farlo. In
definitiva, ritengo che il film possa in qualche
modo valorizzare ed incoraggiare i bravi
insegnanti.
Ci parli della reazione dei
bambini alla visione del film ...
In linea generale li ho trovati interessati.
Addirittura, quando il film è finito, a Gavirate
è partito l’applauso spontaneo; poi i bambini
si sono fermati: avevano voglia di parlare.
La proposta che ho fatto è stata quella di
provare a trovare quattro o cinque aggettivi che
potessero qualificare il film: per una ventina di
minuti sono stati molto attenti, con le mani
alzate, per definirlo o per dirmi che cosa si
ricordavano del film, perché l’altra domanda
che avevo posto loro era se il film avesse
suscitato qualche ricordo. Alcuni hanno riportato
dei ricordi scolastici, altri invece dei ricordi
inerenti al film: tutti hanno comunque
notato la solidarietà, la
capacità di aiutarsi, l’attenzione
del maestro nei confronti dei bambini che
avevano litigato oppure nei confronti del bambino
che rischiava di perdere il padre perché aveva un
tumore alla gola. Più di uno mi ha parlato in
termini diversi di questa solidarietà, di questa
capacità di relazione: i bambini avevano
colto il nocciolo della questione.
Ai bambini è sembrato naturale
e positivo che fossero presenti bambini di età
diverse: nel film è bellissima la sequenza in
cui i bimbi scendono con lo slittino da una
collinetta innevata, con grandi e piccoli che
giocano tranquillamente insieme. A loro non è
venuto il dubbio che avendo età diverse non si
possa fare insieme una partita a calcio!
Ma la cosa che mi ha piacevolmente
sorpreso è che nonostante il film sia
sottotitolato i bambini l’hanno seguito per
un’ora e quarantacinque minuti, senza
distrarsi se non quando c’era un
dialogo un po’ lungo e complesso: allora si è
visto qualche bambino agitarsi sulla
poltroncina e non riuscire a stare attento, ma
nessuno ha respinto il film. I bambini
delle elementari si sono immedesimati; più
difficile è stato per quelli delle medie, che
hanno già un atteggiamento di superiorità, visto
che il film non parla di loro.
Devo anche notare che ho trovato altrettanta
attenzione e compartecipazione in quei genitori
che sono venuti coi loro figli: è stata
una storia condivisa, quindi direi che si è
trattato di una bella esperienza
A suo modo di vedere, il film
fornisce qualche spunto rispetto al dibattito di
questi giorni riguardante la presenza maschile
nella scuola? (ndr: un OdG inserito nel testo della Delega al Governo per la
riforma della scuola, presentato nel corso
del dibattito alla Camera, si propone di
valorizzare la presenza maschile nelle scuole)
E’ vero che il protagonista del film
è un maestro, ma il regista Nicolas Philibert
dice di essersi fermato nella scuola dove ha
girato il film non tanto perché, dopo una lunga
ricerca, avesse trovato il maestro migliore quanto
perché, sul piano tecnico, la collocazione
Come pedagogista e coordinatore
di servizi mi sono soffermato a lungo sulla
questione. In linea di massima, almeno nella
relazione iniziale, con bambini e ragazzi è più
facile essere maschi piuttosto che essere femmine.
Ciò che sta intorno ai bambini è fatto molto di
figure femminili e questa è una novità: un tempo
i bambini stavano dentro famiglie allargate,
dentro a contesti urbani o rurali dove vedevano
sia il maschio che la femmina lavorare e con i
quali potevano identificarsi, mentre oggi fanno un
po’ più fatica. Nel momento in cui c’è
un maschio in classe, si fa fronte ad una carenza.
Diversa è la questione del
perché i maschi non si fermino nelle scuole. Intanto, in molti mestieri tipicamente maschili cominciano ad
esserci figure femminili che portano la loro
carica e modificano la situazione. Una
donna lavora e si relaziona in maniera diversa
rispetto a un uomo, con una logica
differente, usa una scala di valori diversa
nell’affrontare le questioni: di fatto,
quindi, dove c’è più di una donna che
lavora le situazioni si modificano.
Io credo che nella scuola tutti
sarebbero più soddisfatti se il guadagno fosse
migliore, e comunque la questione
economica di dover portare un reddito forte in
famiglia, che l’uomo tenta comunque di avere,
pesa ancora. Senz’altro, inizialmente il
problema degli scarsi guadagni è stato
determinante. Poi per
gradi l’insegnamento è diventata una
professione quasi solo femminile, anche
perché per come era strutturata la scuola il
presunto tempo corto permetteva
di gestire i figli o comunque la
casa.
Ora le cose stanno cambiando anche in campo maschile: il maschio
acquisisce dei ruoli nell’ambito della gestione
familiare, e le situazioni si modificano. La
soddisfazione di una donna nel lavoro proviene
dalla relazione e dalla capacità di relazione con
chi lavora, mentre probabilmente il maschio cerca
in quello che fa delle gratificazioni forti : il
problema è che non c’è né sfida né
gratificazione nell’insegnamento, perché la
struttura scolastica non lo prevede.
Inoltre, di fatto c’è tutta una casistica che
porta in generale ad un sorriso dispregiativo
sulla categoria degli insegnanti. Credo che si
paghi un po’ un assalto all’arma bianca che
c’è stato qualche anno fa contro la scuola.
Coloro che volevano migliorarla secondo me
l’hanno denigrata troppo e nei suoi confronti si
è creato un comune pensare molto negativo.
La libertà di insegnamento spesso o è
una scusa, o riduce all’isolamento, perché non
porta a confrontarsi con gli altri: l’insegnante
trova più soddisfazione nella relazione che
riesce a costruire all’interno del gruppo dei
bambini, e lì il cerchio si chiude.
dell’edificio gli avrebbe facilitato
le riprese.
Il film suscita riflessioni anche
nei confronti delle realtà scolastiche nei
piccoli paesi ...
Rispetto al discorso delle scuole di
campagna, di cui sentiamo sempre parlare sotto
finanziaria e, in termini più educativi, sulle
cronache locali, io proporrei di fare quattro
conti, perché il gioco di scaricare sul
bilancio del vicino è stato fatto con molta
“agilità”: alcuni
comuni non devono più pagare i maestri, si
possono prendere i bambini e portarli da
un’altra parte, ma questo vuol dire fare lavori
di ristrutturazione nella scuola che li accoglierà,
che sono a carico di altri comuni, avere il
pulmino che porta i bambini, avere un autista per
il pulmino; nella scuola dove andranno i bambini occorrerà,
magari, avviare una mensa che prima non serviva
... Di fatto, il Ministero dell’Istruzione non
hai più uno stipendio da erogare ma ha spostato i
costi su un altro soggetto; sommando le due spese
forse non ci si allontana molto dal punto di
partenza.
La conseguenza è che si lascia
“allo stato brado” quel villaggio
o quel comune, nel quale non ci
sono più punti di riferimento e dove,
quando i bambini tornano a casa, non c’è più
nessuno che li segua. In Italia, però, abbiamo
tanti di questi villaggi e paesi, e anche zone in
cui ci sono molti pendolari: spesso le famiglie
preferiscono spostarsi per lavoro ma abitare in un
contesto diverso da quello cittadino.
E
c’è anche un altro elemento: probabilmente la società vorrebbe che nei confronti
dei bambini ci fosse anche un po’ più di impegno. Non capisco perché lesinare il
centesimo sul processo educativo e non farlo
invece su altri interventi: il sostegno allo sport
domenicale è grandioso, e non parlo solo del
rifacimento degli stadi in occasione del
Campionato del Mondo, ma anche del costo del
servizio di polizia, del servizio d’ordine che
comunque viene gestito in tutta Italia tutte le
domeniche e che non ricade sulla società
calcistica che incassa gli introiti della partita.
Di fatto è un’esigenza della società
(calcistica) che però la Società ha preso in
carico, e per la quale paga.
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