L'Italia
con le pile scariche
Repubblica-
7 dicembre 2002
di
CURZIO MALTESE
L´ITALIA
del 2002 è una nave che galleggia verso la
deriva, avverte all´orizzonte le «nubi nere del
declino» ma non sa reagire e cambiare rotta. È
questa l´immagine desolata che sovrasta il
rapporto annuale del Censis, il check up sul
sistema Italia. Stavolta il professor De Rita
abbandona il tradizionale ottimismo, tradotto in
tanti slogan, spesso geniali, a volte consolatori
(«Piccolo è bello») ma sempre fortunati, per
sposare toni inusualmente cupi.
Non è tanto la crisi economica a preoccupare i
ricercatori del Censis, quanto l´"assenza di
reattività" di un Paese rassegnato a
"una prolungata bassa congiuntura",
pieno di paure e povero di idee.
L´Italia del Censis ha «le pile scariche», è
stanca, disillusa, depressa (esplode il consumo di
psicofarmaci) e sempre più tentata di fuggire la
competizione internazionale per rifugiarsi in una
dimensione di «buon vivere» provinciale che
ricorda il famoso orticello di Candide. È un
imborghesimento fiacco e senza borghesia. Nel
migliore dei casi borghigiano, col sogno di un
buen retiro enogastronomico fra i paesaggi dell´Italia
centrale. Nel peggiore dei casi, un rinchiudersi
nella soffocante inerzia casalinga da piccola
borghesia televisiva e un po´ guardona. In ogni
caso lontano dalla migliore tradizione di un
popolo che, ricorda De Rita, «ha dato il meglio
quando ha attraversato l´angoscia per darsi
serietà: nel poverissimo dopoguerra, nei
drammatici anni ´70, nella crisi finanziaria del
´92» .
La situazione è grave ma non seria. Il 2002 è un
anno nero per la Fiat ma ottimo per i maghi,
negativo per l´Università (che si «liceizza»)
ma eccellente per i concorsi televisivi, le «fabbriche
di miraggi», da Miss Italia a Saranno Famosi,
frequentati da centomila giovani, contro le poche
centinaia che provano a entrare nelle accademie. A
dar retta al rapporto Censis, pare che i giovani
aspirino nella grande maggioranza a fare le veline
o i giornalisti, mestieri che infatti tendono a
confondersi.
Gli italiani del resto credono ai telegiornali
quanto ai varietà e hanno smesso di abboccare
alla «politica degli annunci», dopo che le
promesse di nuovo miracolo economico degli Harry
Potter governativi sono franate nel misero 0,5 per
cento di crescita. Non è un caso se il professor
De Rita stavolta tralascia lo slogan e lancia un:
«Diamoci una calmata e affrontiamo i problemi
seri». È il genere di appelli alla Ciampi,
destinati ad essere molto applauditi e subito
ignorati.
La
vita pubblica italiana sembra prigioniera di altre
logiche, una «sterile personalizzazione della
politica» e la tecnica pubblicitaria di
promettere sempre nuovi «miracoli» e «rivoluzioni».
Come se non fosse già abbastanza salato il conto
che l´Italia del 2002 sta pagando al decennio
delle grandi rivoluzioni mancate. Dall´illusione
di Mani Pulite (una «svolta abortita») alla
bolla della new economy, dal culto delle
privatizzazioni fino all´idea di Europa come
panacea universale. Anni e anni persi dietro a
slogan vuoti e virtuali, mentre l´Italia reale
scivolava da quarta o quinta a settima potenza
economica, sprofondava al trentanovesimo posto
nelle classifiche di competitività e regalava un
quarto delle quote di mercato ai concorrenti. Nel
1991 le merci italiane erano il 5 per cento del
mercato mondiale, nel 2001 sono appena il 3,7. All´appello
manca soprattutto la grande industria, quasi
sparita. Sono stati «decapitati» i quattro o
cinque «grandi alberi», dalla Fiat all´Olivetti
alla Pirelli, e in attesa che crescano i cento
alberi dell´impresa medio-grande (i Merloni e i
Della Valle) il sistema soffre di un preoccupante
nanismo.
Le «nubi nere» del declino italiano hanno
contorni netti che la società però non vuole
vedere. Si chiamano incapacità di innovazione
tecnologica, scarsa accumulazione di capitale
culturale e sociale, azzeramento della ricerca,
povertà di grandi infrastrutture. È un tirare a
campare, fidando nella gallina dalle uova d´oro
della piccola e media impresa, che continua a
sgobbare e a esportare macchine utensili e moda, l´ultima
linea del Piave del made in Italy. Ma senza più
la forza della grande impresa e l´identità di
uno Stato che perde i pezzi, messo in liquidazione
al peggior offerente con le privatizzazioni e
minacciato da una rovinosa «devolution dall´alto».
Nessuno dunque programma, nessuno studia e
finanzia la ricerca, con i pochi cervelli che
scappano all´estero, anzitutto negli Stati Uniti
e Gran Bretagna. Nella certezza di trovare
migliori condizioni e opportunità di quelle
offerte da un paese che ha inventato la plastica e
il primo microprocessore eppure è riuscito a far
fallire l´industria chimica e quella dei
computer.
Sul
resto del sistema incombe la «nube nera» di un
territorio fragile, dove non si è investito.
Porti e aeroporti che si bloccano di continuo,
autostrade perennemente intasate, treni che
impiegano 18 ore per andare da Palermo a Venezia
(e si chiamano pure Freccia della Laguna), ponti e
reti ad alta velocità che non ci sono e non ci
saranno tanto presto, visto che il debito pubblico
somma record su record anche a cantieri fermi.
Il professor De Rita assicura che una nuova classe
dirigente capace di affrontare i «veri problemi»
è alle porte. Ma ci vorranno tre o quattro anni
prima che si ponga il problema della
rappresentanza politica. Tocca dunque sopportare
ancora l´attuale, chiassosa e incompetente: un «grumo
di potere» che «blocca la vitalità del Paese».
Con la complicità servile dei media, sempre più
controllati e rivolti a un basso compito di «pettegolezzo
cortigiano». Non resta davvero che rifugiarsi nel
«buon vivere», stappare una bottiglia di Chianti
e brindare tutti insieme a un 2003 migliore.
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