La
giovane minoranza protetta e temuta
La
Repubblica – 19 gennaio 2003
di
Ilvo Diamanti
È
difficile, seguendo il dibattito politico in
questa fase, non raccogliere i segni di una società
presentificata. Immersa nell´attualità estrema.
Al punto da non riuscire più, non dico a
"prevedere", ma neppure a
"pensare" il futuro.
La discussione sulle pensioni. Per ridurne il
carico, insostenibile per una popolazione attiva
sempre più ridotta, si mira ad allungare la vita
lavorativa delle persone. "Saturando",
così, spazi ulteriori all´ingresso dei più
giovani. Gli investimenti in ricerca, sull´Università,
sulla formazione. Sempre ridotti. In misura
desolante. Anche se tutti sanno che la conoscenza
è l´unica, vera, risorsa che permetta alle
persone come al sistema sociale e alle
istituzioni, di "costruire" il futuro.
Il futuro, appunto. È un problema eluso. Rimosso.
In parte perché genera angoscia. La maggior parte
delle persone intervistate nell´indagine su
"I cittadini e lo Stato", pubblicata di
recente da Repubblica, considera un azzardo fare
investimenti seri, per sé e la propria famiglia,
ritenendo il futuro "incerto e carico di
rischi". Rischi globali, in primo luogo. Come
la minaccia terrorista. Come la guerra in Iraq,
che incombe da mesi. E agita le nostre paure. Ma
vincola anche l´economia, gli affari. Quelli
grandi e quelli minimi.
Come pensare, seriamente, a tutelare i nostri
risparmi, se la guerra possibile, anzi probabile e
quasi certa, deprime le borse e rende volatili i
depositi bancari?
Tuttavia, la tendenza alla presentificazione che
marca la visione della vita e del mondo si
collega, sicuramente, anche alla nostra struttura
demografica. Siamo diventati una società anziana.
Nella quale l´assistenza prevale, come problema,
sulla profezia e, più modestamente, sulla
programmazione. Gestire l´invecchiamento delle
persone conta assai più di preparare la carriera
dei giovani e dei giovanissimi.
Una società "sterile": è l´orizzonte
che sembra avvolgere la nostra esistenza, in
questa fase. Genera pochi figli, affronta con
disagio i flussi migratori e insegue la
prospettiva dell´autoriproduzione. Il suo mito è
compensare i limiti della "generazione"
naturale mediante l´ingegneria
"genetica".
La società sterile: sposta sempre più in avanti
nell´età il baricentro sociale del potere. (D´altronde
l´età mediana dell´elettore, il riferimento
delle strategie di marketing politico, in Italia,
ha superato i cinquant´anni). Sarà per questo
che guarda con sentimenti tanto opposti i giovani.
Li coccola e li teme. Vincola il loro futuro
(...senza pensioni, senza lavoro stabile, senza
sicurezza..), ma li protegge e li trattiene in
famiglia sempre più a lungo (una persona su tre,
a 35 anni, continua a vivere con i genitori,
secondo l´indagine Iard del 2001). Cerca di
rispondere alla scarsità di giovani allungando
sempre di più la giovinezza. E guarda con
malcelata paura gli episodi efferati di figli che
uccidono i genitori; e di genitori che ammazzano i
figli. Eventi sempre accaduti, che oggi ottengono
tanto clamore perché esposti al grandangolo dei
media; e alla sottile inquietudine che pervade i
genitori di fronte ai figli. A loro così vicini,
in apparenza. E in realtà così lontani. I
genitori: abituati ad averli in casa per tanti
anni, i figli. E a parlare con loro sempre di
meno. Abituati, inoltre, a isolare i temi di
conflitto, genitori e figli, per evitarli
accuratamente. Non ci sono più le baruffe di una
volta, in famiglia. I contrasti, talora accesi,
che servivano a marcare la distanza fra le
generazioni; aiutavano i figli a liberarsi, a
imporre la propria autonomia, i padri a
"trasmettere" loro il senso della
continuità. (Anche per questo i giovani restano
così a lungo in famiglia: manca loro il bisogno
di andarsene alla ricerca di libertà e autonomia.
Prevale il ricatto reciproco: dipendenza relativa
in cambio di affetto e compagnia).
Così, i giovani si delineano come una
"minoranza, che sviluppa le sue strategie
professionali ed esistenziali "fuori"
dai confini angusti tracciati dalla società
adulta. È questa l´impressione che si fa strada,
in modo magari confuso, considerando indizi che
riguardano gli stili di vita, i valori, i
comportamenti delle generazioni più giovani. È
in atto un distanziamento dalla società adulta,
dai loro genitori, difficile da percepire, perché
avviene in circuiti chiusi; perché raramente si
traduce in conflitto o in contrapposizione. Perché
avviene senza perdere il contatto con i genitori.
Perché i genitori, la società adulta, non sanno
vedere al di là del proprio naso.
I giovani: sono ormai il paradigma della
flessibilità. Abituati a pensare e a praticare il
lavoro per mille segmenti, mille piccole
esperienze. Perlopiù instabili. Preparati da un
percorso formativo anch´esso ormai a frammenti. E
soprattutto indefinito, instabile (sfido chiunque
a trovare una razionalità, un disegno negli
interventi e nei progetti sulla scuola degli
ultimi dieci anni). Flessibili per necessità e
per identità, ormai. E competenti, sul piano
delle tecnologie. Hanno e usano il personal
computer, il telefonino. Quasi tutti. Comunicano
per email; e dialogano con gli sms, fin dalla più
tenera età. Il che permette loro di stabilire
contatti costanti, quasi ansiosi, dentro relazioni
strette, ma, appunto, frequenti, anche se
virtuali. Hanno i loro ambienti generazionali, i
giovani. Dove, anche se sono pochi, possono
sentirsi in tanti e insieme. Le discoteche. O, in
alternativa, i centri sociali. Da cui gli adulti
sono perlopiù esclusi.
Verso la politica, quella di cui parlano gli
adulti, provano in-comprensione. E fastidio. Ciò
che li fa definire, li ha fatti definire, a lungo,
im-politici, indifferenti. Non è proprio così.
È che è difficile appassionarsi alla disputa sul
premierato, la devoluzione oppure sulla
"commissione di inchiesta sulle
inchieste" dell´epoca di Tangentopoli; anche
per il loro padri. Figuriamoci per loro, i figli,
che al tempo della caduta della prima Repubblica
avevano dieci, dodici anni. Magari di meno. Per
loro che si sono socializzati quando il muro di
Berlino era già caduto e la globalizzazione si
era già realizzata. Per loro, che la
globalizzazione la sperimentano concretamente
(viaggiano nel mondo, per studio, piacere, lavoro;
parlano le lingue; viaggiano in Internet...); che
non conoscono le ideologie.
Per questo, anche per questo l´unica idea, l´unica
questione che li appassiona davvero, che assuma la
parvenza di utopia, che riesca a mobilitarne
almeno una parte, è il "no-global".
Sono tanti i giovani che, nell´ultimo anno, hanno
manifestato contro le conseguenze economiche e
politiche della globalizzazione, contro la guerra
(anche ieri): il 40%, tra i giovani con meno di 25
anni e fra gli studenti, mentre nella popolazione
la media scende al 14%. Al di là di valutazioni
di merito, come non vedere in ciò la reazione a
una politica che si è ritirata dalla vita
quotidiana, dal territorio, dalla società? Che
viaggia attraverso i media, confusa fra un cartoon
giapponese, due veline e un cuoco à la page? E
come non vedere in ciò una reazione a una
politica piccola piccola, schiacciata sui temi
locali e lontana, estranea alle questioni
"globali", di cui si celebra, giorno
dopo giorno, l´importanza?
Da ciò una chiave di lettura, se non una
risposta, rispetto al problema da cui siamo
partiti: l´orizzonte minimo, senza brividi, senza
progetti, che rende opaco il confronto politico.
Stiamo diventando una società sterile.
Invecchiata, nella testa quanto nel fisico. Che
tratta i giovani come una minoranza protetta. Da
cui proteggersi. Una variabile dipendente. Segni
di un futuro corto e di uno sguardo stretto. Anche
perché, come ha scritto Alessandro Cavalli, se
una peculiarità accomuna e distingue i giovani,
è che essi "hanno ancora di fronte a sé
gran parte della loro vita". Mentre gli
anziani sono coloro "che l´hanno dietro alle
spalle". E come reagire all´immenso
presente, nel quale rischiamo di perderci; come
immaginare il futuro, come guardare avanti, se
procediamo con la testa voltata all´indietro?
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