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Sito telematico dedicato all'informazione, al confronto, al dibattito sui problemi connessi con il primo CONTRATTO DEI DIRIGENTI SCOLASTICI – a cura del D.S. Paolo Quintavalla  in servizio presso la Direzione Didattica 3° Circolo di Parma - In Rete dal maggio 2000 –

 

 

 

 

TANTI DANNI, POCHI BENEFICI

Messaggero - 6 dicembre 2002

di GAETANO QUAGLIARIELLO

NELLA FAVOLA “i vestiti dell’imperatore" è un bambino ad accorgersi che il re, che tutti osannavano per la beltà dei suoi vestiti, era, in realtà, nudo. Nella vicenda politica della cosiddetta devoluzione è accaduto qualcosa di simile. Il Presidente della Repubblica Ciampi ha ricordato i rischi ai quali va incontro un Paese che rinunci ad una funzione centrale d’indirizzo nell’ambito dell’istruzione. Il Presidente del Senato Pera gli ha fatto eco intervenendo nell’aula di Palazzo Madama, mettendo, per di più, in evidenza che quei rischi sono già presenti nella nostra Carta Costituzionale a causa del terzo comma dell’attuale articolo 116, approvato, alla fine della scorsa legislatura, con la riforma del titolo V. Quest’articolo, infatti, prevede già la devoluzione e, dunque, la possibilità di forme di autonomia differenziata tra diverse parti del Paese. Il passaggio è di tale rilevanza che merita spendere qualche rigo per parafrasarne il testo legislativo, affinché i lettori - come il bambino della favola - possano credere a quel che vedono. L’articolo 116 prevede, infatti, che ogni regione possa chiedere la competenza legislativa esclusiva per tutte le materie di legislazione concorrente (tra le quali, ad esempio, tutela e sicurezza del lavoro; tutela della salute; grandi reti di trasporto; armonizzazione dei bilanci pubblici, eccetera) nonché per alcune materie di legislazione esclusiva dello Stato tra cui le norme generali sull’istruzione. E, in questi casi, non serve neppure una legge costituzionale: basta un provvedimento approvato a maggioranza assoluta dopo una sola lettura.
Tra la favola e la realtà vi è, però, una differenza essenziale. Nella finzione, è l’ingenuità di un bimbo che scopre la verità e mette a nudo ciò che i più si rifiutavano ostinatamente di constatare. Nella realtà, invece, questo ruolo lo hanno svolto le massime cariche dello Stato.
Esse hanno assunto sulle loro spalle l’onere d’indicare alle forze politiche le comuni responsabilità, dalle quali maggioranza ed opposizione cercano entrambe di sfuggire. Non è un buon segnale, perché evidenzia lo iato che sempre più spesso va aprendosi tra la politica e la realtà delle cose.

Si è assistito, in questi giorni, all’ulteriore fase di una partita che si prolunga ormai da qualche anno: il tentativo di assumersi la bandiera del federalismo ad ogni costo, senza riflettere sugli squilibri istituzionali, le duplicazioni burocratiche e l’ampliamento della spesa che tale cambiamento potrebbe arrecare. E, pertanto, senza porre il problema della riforma del bicameralismo e la creazione di una Camera delle regioni, invece indispensabile per evitare che la riforma federalista si esaurisca in risse e conflitti. E’ questa una partita tutta quanta ideologica. I problemi reali - creati dalle passate riforme non meno che da quelle che si annunciano - restano sullo sfondo. Non vengono neppure poste in discussione né vi è alcuna ricerca di soluzioni ispirate al cosiddetto bene comune.
Il Senato, in particolare, ha sprecato sei mesi, durante i quali il provvedimento sulla cosiddetta devolution è rimasto giacente in Commissione Affari Costituzionali. Questo lasso di tempo non è bastato alla maggioranza di ieri, che solitariamente aveva approvato il titolo V, per riconoscere i limiti e le necessarie correzioni della propria riforma. Non è stato, però, neppure sfruttato dalla maggioranza di oggi per fare avanzare le proposte di correzione, che pure aveva annunciato.
E tutto ciò, nonostante i reiterati e pressanti appelli del Presidente del Senato. In tale contesto, la considerazione di ben due ministri che cambiamenti sostanziali vi saranno solo alla Camera, dopo l’approvazione da parte del Senato del testo attuale, suona come una messa in mora ancor più che come un oltraggio al Senato. C’è d’augurarsi solo che gli interventi delle massime cariche dello Stato abbiano svegliato partiti e schieramenti dal sonno della ragione e sconfitto il riflesso condizionato verso la rissa. Prima che la riforma venga approvata vi potranno essere ancora almeno due letture da parte della Camera ma anche dello stesso Senato. Non vorremmo proprio che questo tempo fosse ulteriormente sprecato, per dare corpo e voce ad uno scontro senza costrutto e senza effettivi contenuti. I parlamentari - in questo caso senza distinzione di schieramento - devono tornare ad interpretare l’alta funzione d’indirizzo che spetta loro. Glielo impone il bene del Paese; glielo chiedono i loro elettori.

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