Intervista
al sociologo François Dubet-Ma oggi la scuola
produce ineguaglianza
Il
Messaggero - 1
febbraio 2003
di
PIETRO M. TRIVELLI
LA
PEDAGOGIA? Non è una scienza. La scuola? Uno
strumento di disuguaglianza. Gli studenti? Non
credono più al “santuario"
dell’istruzione. Parola di François Dubet —
profeta della scuola in declino — tra i più
autorevoli sociologi dell’educazione. Al quale
sfugge anche un’espressione che sembrava sepolta
con la buon’anima di Ivan Illich: descolarizzare
la società.
«Ma io non lo dico nel senso di Illich. Bensì
osservo — ci spiega Dubet — che non è più
tempo di cominciare una carriera a partire dal
diploma, in una società dove pure la scuola non
può che essere “globale"». Cattedra a
Bordeaux, direttore dell’Ecole des Hautes Etudes
en Sciences Sociales, autore di testi come
L’ipocrisia scolastica (su commissione del
ministero dell’Istruzione francese), Dubet è
intervenuto ieri al convegno “Antinomie
dell’educazione nel XXI secolo", promosso
dall’università Roma Tre, Dipartimento di
Scienze dell’Educazione e Facoltà di Scienze
della Formazione (fra i relatori stranieri anche
Roland Roberston e Bertrand Schwartz, fra gli
italiani Luiano Gallino, Gianni Vattimo, Benedetto
Vertecchi).
Gli piacciono i paragoni sportivi. Ravvisando
nelle “ineguaglianze giuste" una delle
principali contraddizioni del sistema scolastico,
Dubet ci dice che è come prima di una partita di
calcio: i ventidue giocatori delle due squadre
sembrano tutti uguali, ma alla fine si dividono
tra vincenti e perdenti (e pure il pareggio
comporta discriminazioni). Aggiunge: «Vorremmo
che gli studenti fossero tutti uguali, ma
chiediamo che si realizzino al meglio. Come dire:
gioca pure a tennis, purché diventi un Agassi».
Buon lettore di Buzzati, paragona la scuola al
Deserto dei tartari. Si è fatto però un’idea
meno sconfortante di ciò che i giovani si
aspettino e di che cosa la scuola può dare, in
concorrenza con la formazione “globale" (multimedialità,
Internet e via cliccando). «Credo che si debba
concedere ai giovani — spiega Dubet — di
formarsi e riformarsi in continuazione. Proprio
come nello sport, dove dopo le sconfitte ci sono
le rivincite. Mentre adesso la sconfitta dei
perdenti è definitiva. Perciò gli allievi, anche
quelli bravi, si chiedono che cosa ci vadano a
fare a scuola. Quanti ne resterebbero, se si
togliesse l’obbligo scolastico?».
Dopo aver constatato che da una trentina d’anni
la maggior parte dei paesi europei non riesce a
fare della scuola un “investimento"
produttivo, lui ha qualche soluzione da proporre?
«Si tratta di ridefinire — risponde Dubet —
la natura stessa dell’istruzione, stabilito che
non può più essere un’istituzione quasi
sacrale, un “santuario" appunto». Non
significherebbe, piuttosto, snaturare la scuola
inseguendo modelli di trasmissione del sapere
diffusi dalla rivoluzione mediatica che (perfino
senza libri) insegna di tutto e di più, a tutte
le età? «Certo che, anche qui, bisogna fare i
conti con quella che chiamiamo globalizzazione.
Cinquant’anni fa un apprendista operaio di
Torino o un giovane contadino abruzzese non
immaginavano nemmeno di muoversi oltre
l’orizzonte della scuola e della chiesa, andando
ogni tanto al cinema. Oggi quegli stessi ragazzi
conoscono e apprendono in tempo reale la totalità
del mondo. Ecco perché parliamo di “scuola
globale"».
L’apparente omologazione della “scuola per
sempre", dall’infanzia alla vecchiaia, non
accrescerebbe le disuguagianze? «Si è
completamente trasformata — risponde ancora
Dubet — pure l’immagine “incantata" di
una scuola organizzata per impedire le
disuguaglianze. Forse non cambiano le statistiche
di emarginazione scolastica, ma ciò che cambia è
l’esperienza individuale di ciascun alunno.
Mentre una volta si andava a scuola per
migliorarsi, adesso ci si va per paura, ancora
convinti che l’istruzione (diploma eccetera)
valga a scongiurare un fallimento. Un’inchiesta
dell’Ocse ha dimostrato che più a lungo si
assicura un’istruzione comune, non selettiva, più
cresce il livello medio degli alunni e
diminuiscono le disuguaglianze formative.
Viceversa, una selezione precoce, a lungo andare,
abbassa il livello di preparazione e produce
maggiori discriminazioni».
Sarebbe forse auspicabile che la scuola tornasse
ad essere un “santuario" (magari
efficiente)? «No, non può più essere la stessa
scuola che, per esempio, separava le culture allo
stesso modo in cui divideva maschi e femmine.
Bisogna piuttosto scoprire come la scuola possa
ridarsi un ruolo specifico nella società, per un
apprendimento gratuito; tenuto conto che il
dibattito pedagogico investe soprattutto la scuola
obbligatoria. Per esempio, sono favorevole alla
soluzione adottata dai paesi scandinavi: cultura
comune e nessuna selezione fino a sedici anni; e
poi un accesso alla formazione che prepari al
lavoro, alle professioni. Ma quando si tratta di
organizzare l’insegnamento, l’aspetto
pedagogico è secondario rispetto a quello
politico: altrimenti basterebbe dare la chiave
della scuola agli insegnanti».
I pedagogisti al governo si comporterebbero come i
filosofi della Repubblica di Platone? «Peggio,
molto peggio», conclude François Dubet, senza
vagheggiare la «bonne école».
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