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Malanni
cronici e lo scaricabarile
Corriere
della Sera - 7 novembre 2002
Quanto
è accaduto in Molise non è solo terribile. E’
imbarazzante e preoccupante. Imbarazzante per lo
scaricabarile cui stiamo assistendo: nel Paese dove
comandano tutti, quando c’è da prendersi una
responsabilità non comanda più nessuno. Preoccupante
perché rivela una delle molte carenze italiane: oggi
sono le scuole, domani chissà. Carenze che nascondiamo
sotto le continue congratulazioni a noi stessi,
un’attività in cui siamo diventati bravissimi. Il
quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine scrive: «Il
mondo imita l’ Italian way of life »? Noi
scodinzoliamo come cuccioli davanti alla scodella. Certo
che il modo di vivere italiano è magnifico: nessuno
veste, mangia e beve come noi. Ma se la scuola casca
sulla testa dei nostri figli, un bel vestito diventa
irrilevante. O no? Attenzione: questo non è
disfattismo. E’ buonsenso. Le cose buone che facciamo
e le cose belle tra cui viviamo non ce le tocca nessuno.
Preoccupiamoci del resto, invece. Preoccupiamoci di un
sistema Paese che invecchia rapidamente. Dico: ma li
avete guardati i treni iracheni che viaggiano sulle
nostre ferrovie, di fianco ai moderni Eurostar? Avete
visto come sono conciate le stazioni? Avete seguito la
farsa del passante di Mestre? Sapete che, mentre l’
Italian way of life è tanto di moda nel mondo, Alitalia
chiude un collegamento dopo l’altro (San Francisco,
Los Angeles, Pechino)?
Un tempo questi problemi non si volevano risolvere. Ora
temo che alcuni non si possano risolvere, ed è perfino
peggio. I soldi necessari - tanti - non ci sono. Se ne
sono andati in pensioni, illusioni e sprechi: fatevi un
giro a sud di Roma, e guardate le centinaia di edifici
pubblici non finiti e abbandonati. Credete che ci siano
anche in Francia o in Germania? No che non ci sono. E,
se ci fossero, i responsabili sarebbero in galera.
L’impressione - deprimente, com’è deprimente
scrivere queste cose - è che la cicala Italia abbia
quasi finito le provviste: e sta venendo l’inverno.
Non crolleremo, questo no: non siamo l’Argentina
(anche se con l’Argentina condividiamo il gusto
barocco della retorica: facciamo cose che non diciamo e
diciamo cose che non facciamo). Rischiamo però un lento
declino, addolcito dalla cose buone che mangiamo, dalle
cose belle che vediamo, dalla gente piacevole tra cui
viviamo.
Qualcuno
si chiederà: ma come sono riusciti, i nostri
concorrenti occidentali, a pagarsi il futuro
(infrastrutture, scuole, ospedali, industrie)? Semplice:
hanno accettato di soffrire e cambiare. Nei difficili
anni Settanta, gli Stati Uniti hanno lanciato gli
investimenti sulla tecnologia. Negli anni Ottanta la
Gran Bretagna ha sacrificato un sistema industriale
obsoleto e la Spagna s’è inventata città moderne,
sfruttando l’euforia della ritrovata democrazia. Negli
anni Novanta la Germania ha abbattuto un Muro e ha
ricostruito casa.
Noi, no: noi abbiamo riposato, riflettuto, rimandato.
Qualche volta, purtroppo, rubacchiato. A Barcellona da
costruire noi opponevamo Milano da bere: ma ora in
Spagna hanno una città moderna, e il nostro bicchiere
è semivuoto. Nessun leader in Italia ha voluto
assumersi il compito ingrato di arare il campo, in
attesa di qualcuno che lo seminasse (l’ha fatto la
Thatcher, poi è venuto Blair). Tutti i primi ministri
italiani degli ultimi quindici anni hanno voluto fare le
due cose insieme. E non è possibile. Chiedete a
qualunque contadino.
Il guaio è che queste cose non si dicono e non si
scrivono quasi più. Gli esami di coscienza stancano, e
noi ci stiamo ancora riprendendo da quello che avevamo
cominciato dieci anni fa (sissignori: Tangentopoli). Per
cambiare, dovremmo avere il coraggio di trarre l’unica
conclusione possibile, da una tragedia come quella del
Molise: l’Italia va svecchiata, e in fretta. Ma non lo
faremo. Anzi, non ammetteremo neppure il problema.
Diceva Francesco Saverio Nitti, molti anni fa, parlando
del futuro italiano: «La strada non è semplice.
L’aria è offuscata da centocinquant’anni di bugie».
Ora gli anni sono diventati molti di più. Ma l’aria
è sempre quella.
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