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IL
CALVARIO DEI SIMBOLI
Crocifisso
a scuola sì, Crocifisso a scuola no
di GASPARE BARBIELLINI AMIDEI
da
Il Corriere della Sera
Sabato, 21 Settembre 2002
Povera
scuola. Fra infantilismi ideologici, remore corporative
e strumentalizzazioni politiche antiriforma,
risparmiamole l’imprevisto coinvolgimento in una
guerra fra simboli. Crocifisso sì-Crocifisso no, non
fatene l’ennesimo slogan. Con la grande assemblea di
tutte le religioni del mondo in Assisi, poco dopo
l’attacco a Manhattan, Karol Wojtyla offrì una
lezione definitiva sui modi di vivere fede e identità
cristiana accanto ad altre fedi e ad altre identità.
Che sia opportuno avere il Crocifisso ospite dei luoghi
pubblici dove la gente studia e lavora è nella logica
di una società cristiana nelle radici e nelle abitudini
di parte cospicua della popolazione. Che questo recupero
di memoria debba essere sereno e rispettoso delle
convinzioni e delle abitudini altrui è nella coerenza
del nostro tempo, laico e multietnico. Fra qualche
giorno entrerà a Milano il nuovo arcivescovo della
Chiesa ambrosiana, Dionigi Tettamanzi, fino a ieri
cardinale di Genova. Prendo questa città come esempio.
Nelle sue scuole 16.857 genitori vengono da cento
diverse nazionalità e da molte fedi. Tanti sono i loro
simboli. La croce sul petto dei guerrieri che andavano
in Terrasanta faceva paura agli «infedeli». Oggi la
Chiesa cattolica non chiama nessuno «infedele». Il suo
Crocifisso non può far paura, perché è un simbolo «per»
e non «contro».
C’è un duplice fraintendimento culturale e politico
nelle reazioni alla richiesta di Giovanni Paolo II di
riportare in aula il Crocifisso e all’impegno preso
dal ministro della Pubblica istruzione. Non si coglie il
senso delle parole del Pontefice se ci si affida ai
riflessi condizionati dell’ultimo anticlericalismo. Si
distorce il discorso di Letizia Moratti se lo si colloca
in un contesto «revanscista».
Dove il Crocifisso torna in classe, si ripara soltanto
il gesto di ignoranza di chi lo tolse. Il Crocifisso non
è segno di una supremazia etnica. Fra i fedeli il
fondamentalismo non è oggi assillo cattolico, ma di
altre religioni. Ora c’è però chi vorrebbe censire
le aule dove il Crocifisso è stato tolto e sapere nome
e cognome di chi ha ordinato di farlo. A qualcuno
potrebbe anche venir voglia di compilare la lista dei
ragazzi che non frequentano l’ora di religione. Lungo
questa strada forse si possono avere muri gremiti di
immagini cristiane, ma le chiese diverrebbero via via
deserte. La scuola ha invece diritto di vedere
ricollocata la questione del crociano «non possiamo non
dirci cristiani» dentro la cornice culturale che le
spetta. A scuola si imparano le ragioni di storia, di
filosofia, di storia dell’arte e di storia della pietà
cristiana che rendono degna l’ospitalità di questo
simbolo. Trascinare il tema nella baruffa politica è
cattiva pedagogia.
I bambini non capiscono. Cristiani, ebrei o musulmani
che siano, non capiscono perché onorare il figlio di un
Dio che morì in croce per amore degli uomini di ogni
radice sia un’offesa per chi prega altri Dei. Non
capiscono neppure perché l’ostilità per lo straniero
dovrebbe nascondersi dietro questi simboli d’amore.
Non tutto poi si riduce a visibilità, anche negli anni
dell’impero (tele)visivo. Giovane filosofa ebrea
convertita al cristianesimo, Edith Stein morì in un
campo di sterminio nazista amorevolmente avendo al collo
una catenina con il Crocifisso e cucita sul petto la
stella di David. Si può regalare alla scuola italiana
una lezione su questa donna, magari anche un suo
ritratto. Il ritratto del giovane ebreo morto per
l’umanità sulla croce è patrimonio del mondo. Non è
questione di imporlo agli ignoranti che non lo sanno. La
scuola può aiutare a superare questa ignoranza.
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