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Aggiustiamo la scuola
Intervista
a Francesco Antinucci
di Agnese Bertello e Marco Rolando
www.casadellacultura.it
Il metodo di apprendimento sui
libri, radicato da secoli nei sistemi scolastici della
nostra società, oggi è messo in crisi dallo sviluppo
dei nuovi mezzi di comunicazione e delle tecnologie
informatiche. Secondo Francesco Antinucci, esperto dei
processi di apprendimento e di comunicazione, la scuola,
così com'è, rischia seriamente di scomparire. A meno
che…
Nel suo ultimo libro "La scuola si è
rotta" lei sottolinea come l'istituto scolastico si
basi su metodologie radicalmente opposte ai processi
naturali di apprendimento che seguono il cervello e il
corpo. La scuola si basa sul metodo
simbolico-ricostruttivo ed è diventata
"un'organizzazione di supporto all'autoapprendimento",
cervello e corpo generano conoscenza elaborando le
esperienze dirette. Ma se questa è la natura dell'uomo,
allora perché finora ha retto questo modello e come mai
oggi è entrato in crisi?
Quando non si può fare esperienza, ad esempio, quando
gli oggetti del nostro studio non sono a portata di
mano, oppure non è possibile manipolarli a causa delle
loro dimensioni, vi è un modo valido di apprendimento:
il metodo simbolico-ricostruttivo, cioè lo studio sui
libri. Nei moltissimi casi in cui è difficile fare
esperienza, questa modalità è insostituibile.
Tuttavia, nel corso dei secoli l'apprendimento sui libri
è stato generalizzato a tutto, perdendo di vista
l'importanza dell'esperienza. Questo è accaduto
sostanzialmente in virtù della diffusione di una
particolare tecnologia: la stampa.
Il modello va in crisi quando entrano in gioco una serie
di mezzi - comunicativi, manipolativi e di conoscenza -
non più di tipo testuale. È una crisi lunga, che ha
inizio con l'avvento di tecnologie che permettono la
riproduzione e la manipolazione della realtà.
Per
una persona della mia generazione, la sua unica finestra
sul mondo è sempre stata ciò che leggeva o ciò che
veniva detto verbalmente. Da alcuni decenni è ben
diverso, perché la televisione permette di fare
un'esperienza visiva. Oggi abbiamo varcato un confine -
che non coincide con la nascita della televisione, ma
con la sua diffusione - per cui ogni bambino di tre anni
ha già visto la televisione e ha un modo di apprendere
già molto diverso rispetto alle generazioni precedenti.
Le esigenze della società, insomma, cambiano e con esse
i modi di apprendimento. Quello simbolico produce
conoscenze di tipo rigido, difficilmente adattabili e
modificabili. Per stare al passo con questi cambiamenti
sarebbe necessaria una colossale riforma della scuola,
estremamente difficile da realizzare. La prima difficoltà
risiede nella separazione, presente nel nostro sistema
formativo, tra sapere pratico e teorico. Questo
"divorzio" fa sì che l'applicazione pratica
di ciò che si conosce diventi un processo lungo e
difficoltoso. Non è un caso che in Italia gran parte
delle professioni abbiano un praticantato. L'ideale a
cui ispirarsi dovrebbe essere il lavoro in bottega, dove
praticantato e apprendimento sono lo stesso percorso.
Ci troviamo in una situazione in cui il computer
potrebbe entrare nelle scuole su larga scala. Ammesso
che ci sia questa possibilità, perché non viene
concretizzata?
Sostanzialmente per due motivi. Un cambiamento del
genere è molto radicale, perché la scuola si è
costruita intorno alla tecnologia della stampa, cioè
dell'apprendere simbolico. Cambiare questa
organizzazione significherebbe rivoluzionare tutto il
sistema scolastico. Chi lo farebbe? In quanto tempo e
come?
Inoltre, non essendoci aperture verso questo
cambiamento, non sono pronti materiali didattici in
grado di sostenerlo. Da questo punto di vista, però,
questo problema sarebbe facilmente risolvibile. Quando
nacque la scuola non c'erano i libri di testo e oggi,
alla vigilia di un'ipotetica riorganizzazione, potrebbe
accadere lo stesso. Si sa già in che direzione andare,
perché esistono simulazioni e ci sono decine e decine
di ricerche su forme comunicative appropriate,
abbastanza facili da adoperare strumentalmente. In due
anni di tempo sarebbe possibile dotarsi di strumenti
formativi validi, spendendo la metà di quanto richiede
l'attuale "riciclaggio" periodico dei libri di
testo. Sì, perché oggi più che produrre libri nuovi
per le scuole, si riciclano i vecchi, aggiungendo ogni
volta appendici, con il risultato di avere volumi sempre
più pesanti. Con una frazione di questi soldi sarebbe
possibile produrre i programmi per computer
specificamente adattati all'apprendimento.
Come è vista questa sua tesi nel mondo
universitario?
Incontra molte resistenze. Molti, come me, sostengono
l'idea della "scuola dell'esperienza", ma
molti altri la rifiutano, soprattutto dal punto di vista
ideologico. Ci si sente degli esperti in materia, per il
semplice fatto di essere andati a scuola. Questi
"esperti" ogni volta che si è in vista di una
riforma, tirano fuori la solita diatriba sul latino nei
licei, senza tenere conto, però, che sette ragazzi su
dieci non frequentano il liceo.
Il problema di fondo è che noi tendiamo a considerare
la scuola non solo dal punto di vista
dell'apprendimento, del saper fare e dell'imparare ad
apprendere, ma come un fatto di educazione. Pensiamo che
la scuola debba trasferire agli allievi certi valori,
come fa la famiglia. Questa è una forma di
indottrinamento che andrebbe distinta dall'apprendimento
vero e proprio.
Dal punto di vista della formazione, invece, sarebbero
da privilegiare le conoscenze fondamentali, quelle
attraverso cui impariamo ad apprendere e su cui
costruiamo altre conoscenze, un po' come le quattro
operazioni in matematica sono la base per qualunque
ricerca e avanzamento nel campo scientifico.
Di queste conoscenze ce ne sono poche e non è facile
mettersi d'accordo su quali dovrebbero essere assolute e
indispensabili. Non è un caso che tutte le riforme
scolastiche siano un ripensamento su come selezionare i
contenuti da insegnare.
In un sistema scolastico che riducesse al minimo le
conoscenze di base, ciascun studente potrebbe avere un
suo percorso. Non è rischioso?
Rischi
ce ne sono, però dobbiamo porci una domanda: quanto è
importante che tutti abbiano le stesse conoscenze, nello
stesso momento e alla stessa età? Credo che ciò non
sia affatto importante. Avremo tutti le stesse
conoscenze nella misura in cui queste sono conoscenze di
base. Le altre devono essere costruite individualmente.
Tra le funzioni della scuola però c'è anche
l'inserimento dell'individuo nella società, il suo
coinvolgimento in una comunità. Questa funzione verrà
meno in futuro?
Personalmente sostengo una vecchia idea illuministica,
secondo cui è possibile fornire un percorso di
conoscenze senza indottrinamento. Molti paesi non ne
sono capaci. Ad esempio, negli Stati Uniti le scuole
sono confessionali e qualsiasi comunità pensi di avere
qualcosa da insegnare ai propri figli crea una scuola. E
così decine di istituti insegnano la teoria della
bibbia, sostenendo, tra l'altro, che non esiste
l'evoluzione umana.
È importante che un ragazzo sia messo nelle condizioni
di assumersi le proprie responsabilità. La scuola di
oggi va nella direzione opposta, con l'insegnante che
dice: "studia da pagina a pagina, perché poi c'è
la verifica". In questo modo si crea un sistema
passivo di apprendimento. Diverso è se un ragazzo si
trova a dover scegliere il proprio percorso, perché
allora è costretto a pensarci bene e a impegnarsi una
volta scelto. L'ideale sarebbe che gli insegnanti
ruotassero sugli allievi e non viceversa.
Esistono situazioni paradossali: nelle scuole si arriva
a insegnare fino a quindici discipline, ma poi di fronte
a certe semplici domande degli studenti ci si rende
conto di non possedere le competenze utili. Se, ad
esempio, si chiede a un insegnante che cos'è
l'inflazione, difficilmente sarà in grado di
rispondere, magari avviando un percorso di studio.
Oppure può accadere che in un liceo classico, se uno
studente vuole approfondire qualcosa di biologia, non
trovi nessuno in grado di soddisfarlo. Abbiamo decine di
materie e mancano le competenze elementari. Questo è il
problema. Di conseguenza gli insegnanti vanno in crisi,
non sono più convinti di ciò che fanno. Sono
letteralmente travolti dal mondo. A questo punto non
resta che giocare in difesa e arroccarsi sui propri
diritti o privilegi che sono la difesa del posto di
lavoro, l'orario e così via.
Realisticamente
che futuro vede per la nostra scuola?
Senza un cambiamento radicale, la scuola potrebbe
scomparire. Non c'era prima, potrebbe non esserci dopo.
Potrebbe scomparire come istituzione di conoscenza e
rimanere come giardino d'infanzia prolungato. Oggi
abbiamo una scuola dottrinaria e piena di valori (in
teoria) però mancano valori fondanti. Non si può
trattare l'allievo come una specie di bicchiere da
riempire per poi verificare se è abbastanza pieno. La
libertà va di pari passo con la responsabilità La
scuola, insomma, con l'avanzare delle tecnologie è a
forte rischio di marginalizzazione.
E il futuro degli insegnanti?
Anche gli insegnanti eccezionali (che pure ci sono) si
trovano inseriti in un sistema che ne limita fortemente
le possibilità. C'è la follia del consiglio di classe,
gli orari impossibili... È inconcepibile che un
professore con sedici ore ruoti su quattro classi: come
fa a conoscere o a seguire ottanta ragazzi in così poco
tempo? È impossibile: egli entra in classe, dice la sua
e il giorno dopo ritorna e li interroga. Ciò è ben
diverso dal seguire un individuo nel suo percorso.
Bisogna cambiare questa struttura, intanto dedicando
tutte le sedici ore di un professore alla stessa classe.
In un progetto sperimentale in una scuola di Bolzano, ci
stiamo provando, con risultati incoraggianti. Gli
insegnanti di fronte alle novità all'inizio
recalcitrano, perché si sentono un po' spaventati (e
poi diciamolo, oggettivamente il lavoro in questo modo
aumenta), però in seguito ricevono più soddisfazioni e
sono maggiormente motivati. Vengono fuori cose nuove e
spontanee e gli insegnanti stessi sono costretti a
rimettersi in gioco, imparando metodi nuovi. In questo
ambiente collaborativo avremmo tutti da guadagnare.
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