VI
CONGRESSO NAZIONALE ANP
RELAZIONE DEL PRESIDENTE GIORGIO REMBADO
Montecatini Terme 6 dicembre 2002
Cari Amici e Colleghi, Autorità
e graditi Ospiti Benvenuti al VI Congresso
Nazionale dell'Anp, che si celebra a quindici anni
dalla nascita dell'Associazione.
Nel 1987 avevamo avuto
un'intuizione sul futuro: avevamo compreso
l'indissolubilità del legame tra la riforma di
struttura, che avrebbe poi attribuito alle scuole
l'autonomia, e la qualificazione dirigenziale per
i capi di istituto, allora inquadrati in un ruolo
subalterno di impiegati direttivi, di tramiti tra
l'Amministrazione periferica del Ministero e i
docenti, di esecutori di circolari, espressione
della cultura amministrativa, che trattava la
scuola come l'ufficio delle poste; avevamo
scommesso sull'accettazione della diversità e
sulla rottura del moloch dell'uniformità. Da quel
momento il binomio "autonomia e
dirigenza", utilizzato poi anche come testata
per il nostro organo di stampa, diventò al tempo
stesso il nostro vessillo e la stella polare della
nostra elaborazione ed azione politico-sindacale.
Fin da subito non scegliemmo la via più semplice,
quella dell'equiparazione alla dirigenza statale,
come avvenne per gli ispettori tecnici alla fine
degli anni Ottanta, ma quella di coniugare il
cambiamento della scuola con la valorizzazione del
nostro ruolo, facendo discendere la seconda dal
primo. Iniziammo così una strada tutta in salita,
i cui primi tornanti percorremmo in assoluta
solitudine. Non starò naturalmente a ripercorrere
le tappe successive, che abbiamo voluto
ricostruire sulle pagine dell'annuario,
distribuito a tutti voi, e che spero troviate il
tempo di leggere, anche per un doveroso atto di
ringraziamento a quanti hanno fatto la storia
dell'Anp fin dall'inizio e ai tanti altri che si
sono uniti nell'impresa in corso d'opera.
Un fatto è certo: i due
obiettivi strategici dell'autonomia e della
dirigenza e il loro nesso inscindibile sono
passati dalle nostre intuizioni soggettive alla
realtà effettuale e si sono tradotti in norme
legislative e contrattuali. Oggi ci troviamo,
grazie a tale risultato, a gestire una transizione
sicuramente difficile e incompiuta, ma all'interno
di un quadro giuridico-istituzionale completamente
mutato.
Non siamo più all'anno
"zero". Col raggiungimento dei due
obiettivi strategici sopramenzionati si è
certamente chiusa una fase della vita dell'Anp,
che era stata caratterizzata dalla rivendicazione
del ruolo dirigenziale per i capi di istituto e
che aveva reso necessario un atteggiamento di
contrapposizione forte della categoria - e di
conseguenza dell'Associazione - rispetto al resto
del mondo: soli contro tutti, per marcare la
discontinuità con il passato e per rendere
riconoscibile la novità dirompente della proposta
politica associativa. Abbiamo dovuto affrontare
una conflittualità su due fronti: da un lato
esisteva l'esigenza oggettiva di staccarsi dal
contratto di comparto (e questo ha creato
contrasti non ancora del tutto sopiti con altre
Organizzazione sindacali), dall'altro persistevano
resistenze - non sempre dichiarate ma non per
questo meno virulente - all'allargamento del
numero e della famiglia dei dirigenti da parte
delle categorie dirigenziali già riconosciute.
Con il riconoscimento formale
dell'autonomia e della dirigenza si è aperta
invece una stagione diversa, caratterizzata dalla
necessità di valorizzare la funzione che
esercitiamo. E' questa, al contrario della
precedente, una fase comune a tutte le categorie
dirigenziali e a quelle delle alte professionalità.
I limiti, che giustamente tutti noi lamentiamo
nell'attribuzione di poteri - che risultano essere
del tutto inadeguati rispetto al livello delle
nostre responsabilità - sono gli stessi con cui
devono di necessità fare i conti i dirigenti di
qualsiasi settore pubblico, a qualsiasi ufficio
siano preposti. Gli attacchi alla dirigenza
provengono sia dal basso (dalla parte di chi cerca
di difendere il posto di lavoro pubblico garantito
e resiste pertanto all'introduzione di qualsiasi
strumento di controllo e di valorizzazione del
personale), sia dall'alto, dal livello politico,
che stenta a rinunciare alla gestione delle
risorse umane e strumentali, che dovrebbe essere
appannaggio esclusivo della dirigenza. Di
quest'ultimo fenomeno abbiamo avuto prova recente,
con la blindatura da parte della maggioranza del
disegno di legge di iniziativa governativa
sull'azzeramento degli incarichi ai dirigenti di
prima fascia. L'approvazione di quel disegno di
legge ha portato alla sostituzione dei dirigenti
sulla base della tessera, anziché a seguito di
verifica delle loro capacità dirigenziali: fatto
questo gravissimo, anche se previsto nella norma
legislativa una tantum. Quel che è peggio, però,
è che la loro precarizzazione è diventata la
regola, spinta, proprio all'interno del MIUR, fino
all'assurdo di incarichi attribuiti per la durata
di soli cinque mesi. Inutile aggiungere che tali
incarichi non consentiranno alcuna seria
valutazione dell'attività svolta e dei risultati
raggiunti e che per di più esporranno i dirigenti
al totale arbitrio dei politici della maggioranza
in vista della conferma dell'incarico a breve.
In questa seconda fase, dunque,
i dirigenti delle scuole - e, in primo luogo, l'Anp,
che non vuole certamente rinunciare ad esercitare
il ruolo guida della categoria che si è
guadagnato sul campo - dovranno acquisire sempre
più chiara consapevolezza del fatto che la difesa
del proprio ruolo dirigenziale non può che
passare attraverso la salvaguardia ed il
potenziamento delle prerogative, dei poteri e
dell'autonomia della dirigenza tout court. La
nostra battaglia è la battaglia di tutte le
dirigenze, accomunate dall'unicità del ruolo,
indipendentemente dal settore di attività nel
quale i singoli operano.
Quanto sopra porta alla necessità
di ricercare nuove alleanze, politiche e
professionali, omogenee quanto ai fini e ai
progetti, in una logica di allargamento che sta
alla base dell'attuale strategia associativa.
Alleanze che possono essere praticate solo su una
base di chiarezza, che parta dalla riaffermazione
dell'identità e del modo di essere della nostra
Associazione, che è professionale e sindacale
assieme, ma che è soprattutto, oggi come per il
passato, indipendente da qualsiasi schieramento e
pertanto libera di esprimere valutazioni e
proposte, che incontrano come unico limite i
confini che noi stessi tracciamo con le regole
statutarie e con i deliberati congressuali, senza
condizionamenti esterni di tipo partitico o
ideologico. Non è certamente questa una scelta di
comodo, non lo è mai stata e oggi, se possibile,
lo è ancora meno, dato il passaggio al
maggioritario. Non ci dà vantaggi o posizioni di
privilegio, ci espone anzi alle diffidenze delle
maggioranze di governo, che tendenzialmente
ricercano consensi immediati e pregiudiziali,
salvo poi rivalutare il senso delle nostre
battaglie nel momento in cui passano
all'opposizione. Ma è purtuttavia una scelta
irrinunciabile, di vera militanza non subordinata
a logiche di bottega; ed in quanto tale, ci
permette di fare dell'Associazione il luogo di
incontro di diversità culturali, e si pone
l'obiettivo di influenzare il decisore politico
attraverso l'autonoma capacità elaborativa. E' il
modo per svolgere un ruolo di impegno politico e
sociale al di fuori dei partiti e delle ideologie.
E' una scelta, infine, che abbiamo dovuto
difendere da attacchi pretestuosi di esponenti
politici e sindacali, che talvolta alimentano
facili polemiche, attribuendoci contiguità o
collusioni con i loro avversari. Basterebbe
rammentare alcuni dei momenti più aspri della
ancora recente e difficile battaglia negoziale per
il nostro primo contratto, quando alcune prese di
posizione dell'Anp (il rifiuto della firma alla
vigilia delle elezioni politiche) vennero
gabellate per un'azione ostile alla maggioranza
uscente e per un regalo a quella entrante, anziché
per una scelta di autonomia sindacale. Né
bastarono gli oggettivi miglioramenti retributivi
conseguiti con la prosecuzione della
contrattazione nei mesi successivi (per memoria,
ammontanti a 101.840.000.000 di vecchie lire e
pertanto corrispondenti ad un incremento di quasi
il 50 % delle risorse messe a disposizione per la
chiusura del contratto a maggio 2001), per far
venir meno la disinformazione strumentale a certa
propaganda. Quel risultato non ci ha mai impedito,
peraltro, di sottolineare che restavamo in credito
per gli importi corrispondenti ad una piena
equiparazione retributiva alla restante dirigenza
pubblica sul versante del trattamento di posizione
e di risultato, rivendicazione che resta alla base
della attuale piattaforma per il futuro contratto.
Da questi presupposti fondativi,
dalla rivendicazione della nostra totale
indipendenza e dal rifiuto di qualsiasi posizione
pregiudiziale e ideologica, anche oggi ripartiamo
per fare il punto sullo stato di avanzamento del
processo riformatore, che - è sotto gli occhi di
tutti - ha subito negli ultimi tempi un forte
rallentamento, se non addirittura un arresto. E
questo è tanto più pericoloso in quanto produce
disorientamento e persino, in qualche caso,
nostalgie controriformistiche, sull'errato
presupposto di un fallimento della riforma, che
invece non è mai stata portata a termine. E'
pertanto necessario ed urgente rimettere in moto
il meccanismo bloccato del cambiamento,
recuperando l'impostazione iniziale di un percorso
riformatore che si evolva con continuità,
affidato al protagonismo delle istituzioni
scolastiche e dei professionisti del settore,
anziché alla reiterazione nella produzione di
testi legislativi, che peraltro non giungono alla
fase di attuazione e non producono quindi effetti
verificabili. Quello della scuola italiana
costituisce un caso, forse unico, di abrogazione
di norme prima ancora che siano entrate in vigore
e che si sia potuto giudicare della loro
efficacia.
E' pertanto auspicabile che il
disegno di legge delega per la definizione delle
norme generali sull'istruzione (AC 3387), votato
in prima lettura al Senato, possa ritrovare la via
di una rapida e definitiva approvazione, così da
conferire al sistema una completezza di quadro
normativo e consentire all'autonomia di sviluppare
tutti i suoi effetti. Sono del resto apprezzabili
nel suo impianto l'introduzione del concetto di
integrazione tra istruzione e formazione
professionale, nell'ambito dell'alternanza
scuola-lavoro, che colma un vuoto storicamente
presente nell'ordinamento scolastico e formativo
italiano e ci avvicina alle esperienze dei paesi
europei nostri naturali concorrenti. Del pari,
appare sostenibile l'eliminazione, attraverso
l'abrogazione della legge 9/1999, di un primo anno
della secondaria superiore, che restava sospeso in
attesa della scelta fra i due canali. Ci auguriamo
però che il legislatore provveda, nell'ulteriore
percorso parlamentare, ad eliminare qualche
inutile invasione di campo, frutto di una
ricorrente tendenza all'ipertrofia normativa (tale
appare, ad esempio quella relativa alla
"valorizzazione del personale docente"
incaricato dei rapporti con le imprese, di cui al
comma 2 dell'articolo 4 - materia che andrebbe
ricondotta all'ambito della gestione e dei
contratti di lavoro). Ma soprattutto ci attendiamo
che intervenga con coraggio e coerenza anche nella
ridefinizione della competenza dei soggetti
preposti alla costruzione dei piani di studio
personalizzati. Per i quali, accanto alla quota
nazionale obbligatoria, viene oggi prevista una
quota regionale, che sacrifica ed assorbe
totalmente quella che dovrebbe essere demandata
all'autonomia delle singole istituzioni
scolastiche. L'autonomia viene infatti richiamata
ritualmente nel testo dell'articolo 2 comma 1
lettera l), ma non rispettata nei fatti; quando
invece, da una corretta relazione tra autonomie -
locali e funzionali - dovrebbe scaturire la
sintesi per la necessaria integrazione dei
curricoli. Noi proponiamo su questo un
ripensamento, per non defraudare le scuole di una
delle loro principali responsabilità e per non
creare implicitamente i presupposti per una santa
alleanza tra vecchi e nuovi centralismi, destinata
fatalmente a scardinare l'innovazione che sta
compiendo i suoi primi passi con tanta fatica, in
primo luogo dei diretti operatori. Il ripensamento
federale dello Stato non consiste certo nel
sostituire venti centralismi regionali ad un solo
centralismo nazionale: venti piramidi burocratiche
locali non sono certo migliori di un'unica
piramide centrale e rappresentano solo la
moltiplicazione di un anacronismo concettuale e
storico, anziché il suo superamento.
E' sicuramente vero - ma
purtroppo non accade - che quello delle riforme
della scuola, come pure di quelle istituzionali,
dovrebbe essere un terreno di confronto anziché
di scontro tra opposti schieramenti politici. E ciò
non solo per la ricaduta dei loro effetti sulla
totalità dei cittadini, ma anche (come è stato
acutamente sostenuto da Vittorio Campione e da
Luisa Ribolzi in una sorta di documento
programmatico pubblicato sul Corriere della Sera
il 22 ottobre di quest'anno), per la lunghezza dei
tempi necessari all'entrata definitiva a regime
delle riforme stesse, lasso temporale che supera
di gran lunga l'arco di una sola legislatura. Non
parliamo poi degli anni occorrenti per le
necessarie verifiche degli esiti delle riforme in
questione. Anche sulla base di queste
considerazioni, i due autori hanno costituito il
cosiddetto "gruppo del buonsenso",
gruppo al quale idealmente mi iscrivo, di cui
fanno parte esponenti politici ed esperti
appartenenti a diverse aree culturali, e che si
prefigge di studiare soluzioni e di presentare
proposte, che rappresentino il punto di incontro
tra orientamenti diversi.
Anche se può apparire
inverosimile, fa piacere riconoscere che qualcosa
di simile è accaduto la settimana scorsa al
Senato, quando, in sede di approvazione del
disegno di legge (AS 1187) recante modifiche
all'art. 117 della Costituzione, un accordo tra
opposizione e maggioranza (un caso su mille, di
cui è stata dagli stessi senatori sottolineata
l'eccezionalità), ha consentito di correggere una
delle storture del testo originario. Nell'elencare
le nuove materie affidate alla legislazione
esclusiva regionale - ed in particolare quella
relativa alla disciplina della
"organizzazione scolastica" - un
opportuno emendamento ha fatto salva l'autonomia
delle istituzioni scolastiche, riprendendo quanto
già previsto dall'attuale art. 117 a proposito
della legislazione concorrente stato-regioni.
Restano ora nel testo della proposta altri
interrogativi, che ci auguriamo vengano affrontati
e risolti nella prosecuzione del dibattito
parlamentare. Ne cito solo alcuni.
Il primo nasce dal fatto che la
cosiddetta devolution non si sostituisce -
abrogandole - alle competenze legislative
introdotte dalla revisione del Titolo V della
Costituzione con la legge 3 del 2001, ma
semplicemente le integra, con il pericolo di
conflitti interistituzionali tra stato e regioni.
Si verrebbero infatti a configurare ben quattro
tipologie legislative in materia di istruzione: le
tre già esistenti (legislazione esclusiva dello
Stato, legislazione concorrente, legislazione
regionale ordinaria) più una quarta introdotta
dalla proposta Bossi (la legislazione esclusiva
regionale). Il rischio concreto è che soggetti
istituzionali diversi rivendichino la competenza a
legiferare sulla stessa materia.
Ma c'è un altro aspetto che può
arrivare a comprimere il ruolo dei dirigenti delle
scuole ed è quello che introduce "la
gestione degli istituti scolastici e di
formazione" tra le materie su cui attivare la
competenza esclusiva regionale. La gestione è
attività tipica del manager e non può essere
affidata ad alcuna assemblea legislativa. Se poi
per "gestione" si dovesse intendere
l'amministrazione del personale, con il passaggio
di quest'ultimo dallo Stato alle Regioni, il
termine rimarrebbe ugualmente ambiguo, con la
possibilità di scorrette interpretazioni in fase
di attuazione.
Tralascio di parlare della
competenza assegnata alla Regione sulla
"definizione della parte dei programmi
scolastici e formativi di interesse specifico
della Regione" stessa, in cui per parte
nostra non si può che ripetere l'obiezione
critica già manifestata a proposito della quota
di curricolo (e non parte dei programmi)
attribuita alle regioni, anziché alle scuole, dal
disegno di legge Moratti; con l'aggravante che, in
questo caso, si tratterebbe di norma avente rango
costituzionale e pertanto maggiore peso nella
gerarchia delle fonti.
Fatte tutte queste riserve sul
disegno di legge costituzionale in corso di
discussione, è bene chiarire però che esse non
nascono da un'impostazione pregiudizialmente
antifederalistica, ma semmai traggono spunto dalla
preoccupazione per un recupero di cultura
centralistica a livello regionale, a danno
dell'autonomia delle scuole, come pure di quella
degli Enti Locali. E' il sistema delle autonomie
nel suo insieme che va salvaguardato rispetto a
tutti i livelli di governo.
Del difficile cammino per
l'affermazione dell'autonomia abbiamo del resto
quotidiana testimonianza e sofferenza. Ne è una
riprova il fallimento del regolamento di
contabilità, che poggiava su alcuni princìpi
cardine: una dotazione finanziaria certa,
assegnata senza vincoli di destinazione; una
gestione a budget, con libertà di riallocazione
delle economie; l'introduzione del controllo di
gestione, per assicurare efficienza nell'impiego
delle risorse all'interno del miglior rapporto
possibile tra costi e benefici. Ma di tutta questa
apprezzabile costruzione teorica cosa è stato
realizzato al secondo anno di attuazione? La
dotazione finanziaria non è mai stata resa nota
alle scuole, che hanno ricevuto, per due anni di
seguito e con grave ritardo, solo l'indicazione di
iscrivere fra le entrate l'80% dei finanziamenti
ricevuti l'anno precedente. Con il bel risultato
di una riduzione secca dei finanziamenti,
corrispondente al 36% in due anni (per il 2003,
l'80% del 2002, che era a sua volta l'80% del
2001). Ma questo sarebbe il meno, perché in
questi giorni - alla fine dell'esercizio
finanziario - le scuole del Lazio, come pure di
altre regioni, stanno ricevendo la comunicazione
del saldo finanziario per il 2002, che risulta
essere inferiore del 20-25% rispetto all'80%
promesso. Con buona pace per gli impegni assunti
sulla base delle promesse minimali non mantenute,
impegni che le scuole non possono essere oggi in
grado di onorare.
E' questo solo un caso
emblematico, che denuncia tutta una serie di
intoppi, dall'impossibilità di far convivere il
vecchio con il nuovo modello, alla difficoltà che
l'Amministrazione incontra ad assumere il nuovo
ruolo di indirizzo abbandonando la responsabilità
della gestione, alla capacità infine di
autoconservazione dell'apparato centrale, che
anziché smagrirsi si è irrobustito con la
creazione delle Direzioni regionali e con la
contemporanea riesumazione dei provveditorati
attraverso l'invenzione dei CSA. Con la
conseguenza che la vecchia catena burocratica, che
avrebbe dovuto essere eliminata attraverso lo
spostamento del centro dal Ministero alle scuole,
si è oggi, per ironia della sorte, allungata:
prima bastavano due passaggi (Provveditorato e
direzione generale), ora sono raddoppiati (CSA,
direzione regionale, direzione generale e
dipartimento). E questo per ora, in attesa dei
futuri apparati regionali; nel nostro Paese,
infatti, le riforme avvengono per addizione dei
livelli amministrativi, con buona pace dei
processi di semplificazione, da tutti osannati nei
convegni e da nessuno praticati nella realtà
delle cose.
Del resto, quella della realtà
è una lezione semplice, ma dura da assimilare
persino nelle disgrazie. Anche nella tragedia
recente di San Giuliano di Puglia si sono subito
levate tante voci a cercare il colpevole in
eventuali inadempienze amministrative (la mancata
redazione del documento sui rischi o le
esercitazioni antipanico non effettuate, per fare
solo un esempio), come se la sicurezza potesse
essere affidata ad una crescita esponenziale delle
procedure, delle carte e degli apparati. E nessuno
(o pochi?) ha insieme a noi rilevato che la nostra
normativa sulla sicurezza è carente non perché
non sia abbastanza prescrittiva, ma perché lo è
troppo ed in modo indifferenziato: e quindi non
efficace e non applicabile. Abbiamo sostenuto e
ripetiamo che è la stessa per i cantieri
dell'alta velocità, per le centrali nucleari, per
le scuole e per il pizzicagnolo sotto casa, mentre
sarebbe stato necessario che persino all'interno
delle scuole ci fossero graduazioni dei rischi tra
quelle che dispongono di officine e laboratori e i
licei classici. Un approccio pragmatico dovrebbe
indurre le forze politiche a definire norme
adeguate al differente livello dei rischi,
commisurate alle attività che vengono gestite
dentro agli edifici scolastici. Se di questo non
si prenderà consapevolezza con urgenza, andremo
di corsa verso un'ulteriore proroga rispetto alla
scadenza prevista per la fine del 2004, in attesa
che un nuovo miracolo economico ci regali le
risorse per prevenire le calamità future.
Dalla nostra storia associativa
- lo rievocavo con orgoglio all'inizio - un punto
si ricava con assoluta chiarezza: la coscienza
dell'interdipendenza tra la valorizzazione della
nostra funzione nell'assunzione della piena
responsabilità di governo delle scuole autonome e
la crescita di autonomia delle istituzioni stesse.
Se l'autonomia delle scuole diventerà gracile e
parziale, gracile e parziale risulterà anche il
ruolo di chi le dirige. Anche per questo noi
sentiamo forte il dovere di promuovere e
assicurare la piena realizzazione della riforma. E
per questo cerchiamo di consolidarne la
prospettiva attraverso due direzioni di marcia, al
tempo stesso distinte ed interconnesse.
La prima è quella
dell'associazionismo tra scuole, strumento
principe per far loro acquisire peso istituzionale
e forza negoziale, insieme alla consapevolezza del
proprio ruolo di soggetti attivi alla pari di
altri, come gli enti locali, cui è affidato il
governo del - ed il servizio al - territorio nel
nuovo disegno di Stato decentrato. Da una felice
intuizione del nostro precedente Congresso ha
tratto impulso la costituzione delle prime
quindici Associazioni regionali, tra di loro
federate, che ha per ora coinvolto poco più di un
migliaio di scuole. E' questo un progetto che dovrà
essere nei prossimi mesi rafforzato e allargato,
per poter passare dalla percezione dell'esigenza
all'esperienza utile per le scuole. E per far
questo bisogna sapersi affrancare dalla
suggestione dell'isolamento, che non è sinonimo
dell'autonomia, e che anzi è proprio tutto il suo
contrario: a questa lusinga potrebbero cedere sia
le scuole autonome che si chiudessero rispetto
alla prospettiva del collegamento associativo, sia
gli enti locali che pensassero di gestire il
proprio rapporto con le scuole al di fuori di un
coordinamento complessivo. Né questo
coordinamento può essere affidato ai CSA,
dissimulazione dei vecchi provveditorati, o ad una
qualsiasi loro articolazione o invenzione
sostitutiva, pena il tradimento dell'autonomia e,
quel che è peggio, l'abbandono di qualsiasi
disegno riformatore.
La seconda direzione è quella
del rinnovamento del rapporto con gli Enti Locali,
che nel caso della singola scuola sono
naturalmente, a seconda della fascia di
appartenenza, il Comune o la Provincia. Tale
rapporto deve crescere e diventare adulto, fra
soggetti dotati di pari dignità, superando per
parte nostra qualsiasi strascico di atteggiamento
subalterno o sterilmente deprecatorio rispetto a
vere o supposte "invasioni di campo". Va
respinta da parte degli Enti Locali qualsiasi
velleità di fagocitare, magari contando sul
fattore dimensionale, le ancora deboli autonomie
scolastiche. Sarebbe un esercizio di miopia, che
si tradurrebbe prima o poi a loro danno, dal
momento che le autonomie locali si rafforzeranno
agli occhi dei cittadini nella misura in cui
sapranno costruire le condizioni per un
miglioramento dei pubblici servizi, e tra questi
in primo luogo quello dell'istruzione. In questa
relazione, da rinnovare profondamente, col
determinante contributo di entrambe le categorie
di soggetti, deve diventare operativa e
propositiva anche l'associazione delle scuole. Per
parte nostra ne sentiamo profondamente l'esigenza
e daremo il nostro contributo, promuovendo
contatti sempre più intensi ed efficaci con l'ANCI
e con l'UPI, sia al fine di un comune impegno a
favore del rafforzamento del sistema delle
autonomie, sia per la predisposizione di strumenti
da mettere a disposizione dei dirigenti e delle
scuole.
L'esperienza recente,
dall'entrata a regime dell'autonomia ad oggi, ci
conferma nella nostra consapevolezza di sempre:
per la attuazione della riforma ci vuole la stessa
determinazione che abbiamo a suo tempo dimostrato
nel perseguire l'affrancamento delle scuole
dall'apparato centrale attraverso le norme
legislative. Di conseguenza il messaggio non può
che essere questo e questo solo: non bisogna
abbassare la guardia.
E' lo stesso metodo che abbiamo
seguito nella vicenda del reclutamento dei futuri
dirigenti, che ci ha spinto fino alla denuncia del
Governo alla Corte europea di Strasburgo. Oggi noi
siamo impegnati a restare vigili fino
all'emanazione del bando per il concorso riservato
ai presidi incaricati, domani dovremo avviare
ulteriori azioni per garantire il diritto di tutti
coloro che sono in possesso dei requisiti
richiesti a partecipare al concorso per il
restante 50 % dei posti. E noi diciamo fin d'ora
che non demorderemo neppure dalla richiesta di
integrale copertura delle vacanze negli uffici
dirigenziali delle scuole, che fin qui il Tesoro
non dà mostra di voler prendere in
considerazione.
E' lo stesso atteggiamento di
fermezza e di coerenza che guiderà la nostra
azione nella prossima difficile stagione
contrattuale, che, come ho già sostenuto, non
potrà che fondarsi sul perfezionamento dei
risultati ottenuti con il primo contratto della
dirigenza, spostando l'obiettivo dalla
perequazione retributiva già conseguita sul
trattamento fondamentale a quella relativa alla
retribuzione di posizione e di risultato. Su
questa strada ci confortano le dichiarazioni delle
altre organizzazioni sindacali rappresentative,
che hanno fatto propria la nostra stessa
rivendicazione, anche se non comprendiamo - e
tanto meno possiamo giustificare - che alla loro
dichiarata volontà circa l'obiettivo non seguano
richieste conseguenti. Perché è fin troppo
chiaro - e dovrebbe persino essere superfluo
ribadirlo - che un siffatto traguardo si potrà
raggiungere solo a patto che vengano messe a
disposizione del tavolo le risorse occorrenti
(fino ad ora mancanti in quanto non previste dalla
finanziaria attualmente in discussione): e che
l'equiparazione, anche economica, alle altre
dirigenze si potrà più agevolmente ottenere
all'interno di un'aggregazione più ampia rispetto
all'attuale area V, uscendo dalla "riserva
indiana" in cui finora siamo stati collocati
ed in cui taluno ha creduto di poter trovare
tutela, anziché - come i fatti hanno dimostrato -
un ghetto. Da questo lato la nostra proposta è
quella di costituire un'area dei dirigenti
preposti ai settori della formazione e della
ricerca, che vada dalle scuole alle università e
agli enti di ricerca fino al Ministero
dell'istruzione, università e ricerca,
ricomprendendo anche gli ispettori a suo tempo
impropriamente equiparati ai dirigenti
amministrativi. Questa a noi pare una proposta
equilibrata, che difficilmente può essere
contrastata sul piano delle argomentazioni anche
dai cultori della specificità. Se ne emergeranno
altre, che possano egualmente garantire il
conseguimento del risultato, da qualsiasi parte
provengano, saremo disponibili a prenderle in
considerazione, valutandone preliminarmente la
congruità e l'efficacia.
Ma un fatto è certo: non
accetteremo prese di posizione elusive o
distorsive, mascherate da obiettivi apparentemente
comuni ai nostri, che compromettano nei fatti le
sorti della trattativa. Come è altrettanto certo
che le negoziazioni si affrontano a partire dai
presupposti e che le battaglie, anche quelle più
difficili, si possono vincere se non ci si affida
alla sorte sul campo, ma a patto che ci sia un
disegno strategico preciso e non si sbaglino le
mosse iniziali.
In un contesto istituzionale così
profondamente mutato sul piano giuridico e, al
tempo stesso, nei fatti tanto resistente al
cambiamento, dobbiamo interrogarci sulla
opportunità di un adeguamento organizzativo della
struttura della nostra Associazione. Ne avevamo già
discusso al precedente Congresso ed avevamo
inserito un livello regionale, quale struttura di
coordinamento delle sezioni provinciali. Nel
frattempo l'abbiamo potuto sperimentare alla prima
prova della contrattazione integrativa regionale e
nel rapporto con le nuove direzioni regionali del
MIUR. Ora dobbiamo attrezzarci per un
potenziamento della contrattazione di secondo
livello, oltreché per una capacità ancora più
incisiva di relazioni politico-istituzionali con
le Regioni, anche in vista dei possibili
cambiamenti costituzionali. Non è questo un
compito particolarmente arduo per una Associazione
come la nostra, che ha sempre dimostrato di saper
anticipare il cambiamento, in primo luogo in casa
propria.
E' essenziale, peraltro, che non
si cada in una tentazione diffusa, che
costituirebbe però un grave errore: quello di
creare nuove strutture lasciando inalterate le
precedenti e producendo sovrapposizioni di
competenze.
Abbiamo la necessità di
rafforzare la nostra struttura regionale,
legittimandola nella persona dei suoi dirigenti
attraverso il voto degli iscritti, in modo da
poterle affidare il compito, di cui non si potrà
più fare a meno nell'immediato futuro, di
rappresentanza politico-contrattuale degli
Associati sul territorio. Per l'organizzazione
regionale potremmo assumere come modello, con i
necessari adattamenti, quello della struttura
nazionale, che è stato ormai validato da molto
tempo all'interno dell'Associazione ed ha risposto
con efficienza a tutte le sue esigenze. Tutto ciò
richiede in primo luogo l'introduzione di un
Congresso regionale e l'attribuzione a
quest'ultimo del potere di determinare
l'articolazione associativa subregionale. Le
strutture subregionali, provinciali o
subprovinciali, potrebbero essere deputate
all'erogazione dei servizi ai soci ed a svolgere
attività di informazione, formazione e supporto,
oltre a mantenere i rapporti con gli Enti Locali
di livello corrispondente. Per quanto riguarda le
strutture centrali, è ipotizzabile che, agli
organismi esistenti, si affianchi un'Assemblea
Nazionale - composta dal presidente nazionale, dai
presidenti regionali e da quelli subregionali -
con il compito di attualizzare gli orientamenti
espressi dal Congresso Nazionale nel periodo
intermedio del mandato.
C'è poi la questione
dell'organizzazione interna alla scuola, che
impone oggi ai dirigenti la necessità di adottare
un modello di direzione allargata, in grado di
valorizzare le figure di staff e di tener conto
delle differenze di professionalità e di impegno
lavorativo. L'archetipo del dirigente chiuso nella
sua solitudine decisionale e legittimato solo
dalla sua posizione formale è legato ad una
concezione di un secolo fa. Attualmente la logica
della reticolarità orizzontale e del management
diffuso nelle amministrazioni rappresenta la
naturale estensione del sistema di decentramento
dei poteri pubblici. E' la sostituzione di un
modello di responsabilità condivise e di
decisioni distribuite rispetto a quello
dell'accentramento decisionale e della linea di
comando gerarchica.
E' giunto pertanto il momento di
tenerne conto, sia nella direzione della scuola,
che nell'allargamento dell'Associazione alla
rappresentanza delle figure di collaborazione alla
dirigenza, accomunate ai dirigenti, tanto sul
posto di lavoro quanto nella cultura valoriale di
riferimento, da analoghe responsabilità ed
interessi.
E' questo un percorso che è
stato compiuto anche all'interno della nostra
Confederazione e che ci ha consentito di
accogliere l'adesione dei quadri delle pubbliche
amministrazioni all'interno di una organizzazione
sindacale, di cui fanno largamente parte i
direttori dei servizi generali ed amministrativi.
Ora tocca a noi. E' un passaggio
importante, che riveste un ruolo strategico e che
può essere compiuto solo da un'Associazione
matura che, consapevole della sua funzione nel
quadro del sindacalismo scolastico, non teme crisi
di identità. E punta in tal modo al potenziamento
dei propri compiti, ponendosi da un lato come
soggetto ancor più autorevole nel campo
dell'innovazione di sistema e dall'altro offrendo
uno spazio di rappresentanza degli interessi a
colleghi (vicari, collaboratori, figure di staff)
che fino ad ora sono stati ben poco rappresentati
dalle tradizionali organizzazioni sindacali del
comparto scuola.
Le mete che proponiamo
all'Associazione per il prossimo triennio non sono
da poco e certamente non di minore entità
rispetto a quelle del passato. E' pur vero che
abbiamo alle spalle la stipula del primo contratto
di area, che normativamente ha rappresentato
l'ultima tessera del mosaico per la costruzione
del nostro profilo dirigenziale; un contratto che,
anche se non ci ha lasciato del tutto soddisfatti
sul piano economico, ci ha purtuttavia avvicinato
all'aumento retributivo di 25 milioni annui lordi
pro capite, che rappresentò la mia personale
scommessa con i delegati del nostro V Congresso
tre anni or sono, a Chianciano. Molti che oggi
sono qui presenti c'erano anche allora: e lo
ricordano.
Abbiamo conosciuto, in questo
stesso periodo, una crescita della consistenza
associativa che supera complessivamente il 22%
degli iscritti; i presidi incaricati, in
particolare, sono triplicati. Abbiamo acquistato
una sede associativa che ci consentirà, quando i
lavori di riadattamento saranno terminati, di far
fronte in modo ancor più adeguato ai nostri
compiti. Abbiamo lanciato, come ho già ricordato,
le associazioni delle scuole autonome e costituito
una società di servizi a supporto delle
istituzioni scolastiche.
Del resto questo è il nostro
compito: definire strategie, progettare strumenti,
creare opportunità.
E, con l'aiuto di tutti gli
iscritti, l'Anp cercherà di essere sempre
all'altezza delle aspettative degli Associati,
lungo il cammino che ci deve condurre ad
un'autonomia compiuta ... ed oltre.
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