AUDIZIONE
SUL DISEGNO DI LEGGE-DELEGA
RECANTE
NORME GENERALI SULL’ISTRUZIONE E LIVELLI
ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI
IN
MATERIA DI ISTRUZIONE E DI FORMAZIONE
PROFESSIONALE
Camera
dei Deputati – VII Commissione Cultura – 11
dicembre 2002
Fonte:
sito web Andis - 16 dicembre 2002
L’ANDIS ringrazia il Presidente della Commissione e tutti
gli onorevoli Deputati per l’audizione concessa
all’Associazione e, in premessa, dichiara di non
condividere la scelta operata dal Governo di
affidare una riforma che riguarda tutti i
cittadini, soprattutto quelli delle future
generazioni, ad uno strumento come quello della
legge-delega.
Strumento tanto più inadeguato e inattuale dopo la riforma
del Titolo V della Costituzione che qualifica le
scuole, dotate di autonomia, come enti
costituzionalmente protetti, e che – inoltre –
rafforza l’autonomia degli Enti locali, nei
quali la scuola trova i suoi principali
interlocutori sul territorio, per garantire il
diritto allo studio: per il semplice e
fondamentale motivo che sono essi che organizzano
i servizi che agevolano e rendono possibile e
praticabile il soddisfacimento, da parte della
scuola, di tale fondamentale diritto.
Il ricorso alla delega, secondo l’interpretazione dell’ANDIS,
quindi, sempre secondo il nuovo Titolo V della
nostra Costituzione (art. 117, comma 2, lett. n),
sembrerebbe non agibile, dal momento che "le
norme generali sull’istruzione" dovrebbero
essere dettate dal Parlamento e i "principi e
criteri direttivi" affidati, invece, al
Governo.
Peraltro, riteniamo che la legge-delega pone seri limiti al
confronto sia nel Parlamento che nel Paese e, in
particolare, nel mondo della scuola, il quale
ultimo non ha avuto nemmeno la possibilità di
confrontarsi nel merito.
Il disegno di legge stesso, inoltre, potrebbe risultare
incongruente rispetto all’altro, sulla devolution,
anch’esso in discussione alla Camera.
Su questo argomento l’ANDIS ha prodotto un documento che
qui si allega (L’Andis sulla
regionalizzazione del sistema scolastico),
unitamente ad un altro documento che puntualizza
la posizione dell’Associazione nella fase
attuale di politica scolastica.
Ci riesce difficile immaginare come una riforma di tale
importanza possa essere preceduta o accompagnata
dal decreto del 29 novembre, comunemente
denominato "tagliaspese", oppure dai
tagli previsti nella finanziaria sugli organici,
in specie quello relativo ai docenti di sostegno
Come ci risulta incomprensibile l’abolizione della legge
n. 9 del 20 gennaio 1999 che comporta la riduzione
della durata dell’obbligo scolastico,
riportandola a 8 anni, nonostante l’affermazione
di principio contenuta nell’art. 2 del disegno
di legge-delega di un ampliamento dell’obbligo
scolastico e praticamente annulla l’ampliamento
dell’obbligo formativo, già previsto, peraltro,
dalla vigente normativa.
L’Andis, con la presente nota, segnala la sua forte
preoccupazione per la carenza di investimento sia
ideale che economico, nei confronti della crescita
culturale delle giovani generazioni del Paese, che
il disegno di legge in questione rappresenta.
A parere dell’Andis, infatti tale disegno di legge appena
approvato dal Senato, lungi dall’affrontare la
complessità della cultura e della società
odierna, segnala una tendenza semplificatrice e
restauratrice.
L’Andis, pertanto,
· raccomanda
innanzitutto di non disperdere quel patrimonio di
crescita culturale e professionale del corpo
docente che, negli ultimi quarant’anni, ha speso
le sue migliori energie per trasformare una scuola
elitaria nella scuola di tutti e per fare di
quest’ultima una scuola di qualità
· segnala,
inoltre, la necessità – oggi - di far
riferimento ad una identità dei soggetti in
apprendimento, che abbia non solo dimensioni
nazionali o europee, ma che focalizzi un
"nuovo umanesimo" (E. Morin) che tenga
conto di "identità terrestri" in grado
di affrontare dialoghi interculturali e
interreligiosi.
Per
ottenere ciò le diversità individuali, sociali e
culturali non vanno solo rispettate, ma anche
valorizzate (art. 1, legge 148\90).
Un discorso a parte meriterebbero gli argomenti della
formazione, iniziale e in itinere, dei docenti, la
valutazione degli alunni, la valutazione del
sistema di istruzione, che in questa sede, per la
estrema ristrettezza dei tempi, non è possibile
fare.
Ma entrando nel merito delle questioni, si puntualizzano
alcune elementi relativi ai cicli d’istruzione.
LA SCUOLA DELL’INFANZIA, LA SCUOLA ELEMENTARE E LA SCUOLA
MEDIA
Il modello della scuola dell’infanzia italiana ha
raggiunto un livello di alta qualità,
riconosciuto a livello internazionale. Lo stesso
dicasi della scuola elementare che non è
certamente l’ultima in una ideale graduatoria.
A proposito della scuola dell’infanzia, l’ANDIS invita
a far tesoro dell’enorme ricchezza derivante
dall’esperienza che in questi anni, anche
attraverso progetti nazionali, quali ASCANIO e
ALICE, questo ordine di scuola ha accumulato. Il
rischio si chiama "precocismo" che
attraverso l’anticipo farebbe ripiombare la
scuola dell’infanzia in una visione
assistenzialistico-sociale della quale
faticosamente si era liberata.
Anche la scuola elementare è considerevolmente cresciuta
negli ultimi dieci anni attraverso la pluralità
docenti che ha spazzato via la figura
dell’insegnante "tuttologo" al quale
ora si vuol regredire, buttando all’aria una
preziosa cultura della collegialità ormai
insostituibile.
Insieme ai moduli, con questo disegno di legge, si rischia
di gettare colpevolmente anche conquiste
psicopedagogiche importantissime come quella della
"valutazione formativa" (ex L. 517\77)
consistente nell’autoregolazione del proprio
insegnamento da parte dei docenti, sostituita ora
con la vecchia "valutazione sommativa"
per cui la responsabilità del non-apprendimento o
del comportamento è solo dell’allievo.
Non conosciamo ancora le modalità di attuazione del
progetto "Moratti", ma desta
un’ulteriore perplessità il ripristino della
scuola media (di cui ancora nulla si sa) che
vanifica un’esperienza pluriennale con valenza
pedagogica, formativa, didattica e organizzativa
ispirata al principio della continuità
pedagogica, psicologica, formativa e didattica, su
cui le scuole hanno molto investito e lavorato,
tanto da ispirare gli assetti degli istituti
comprensivi, anch’essi da registrare come
un’esperienza molto significativa.
Nel disegno di legge, infatti, scuola elementare e scuola
media sono nettamente separate, anche se
denominate insieme come ciclo primario:
denominazione residuata, forse, dall’originario
progetto della commissione Bertagna in cui si
prevedeva un biennio comune quinta
elementare-prima media come possibile e naturale
raccordo tra i due segmenti del ciclo primario.
L’ANDIS sottolinea, inoltre, che dal punto di vista
valoriale dal testo traspare solo un semplicistico
riferimento allo sviluppo morale (religioso?)
delle bambine e dei bambini (art. 2) e ad una
laconica "convivenza civile", dove il
termine democratica, che connotava la convivenza
nel testo della Premessa ai Nuovi Programmi del
1985, risulta chiaramente cassato.
E per finire, fa notare che non appare nessun riferimento
alla necessità di educare le giovani generazioni
alla cittadinanza democratica, intesa come etica
pubblica, vale a dire capacità di co-costruire il
bene comune: lacuna veramente grave a fronte del
deficit di etica pubblica che attraversa il Paese,
come tutti, nessuno escluso, oggi denunciano.
LA SCUOLA SECONDARIA
La scuola secondaria, infine, è il segmento caratterizzato
da una canalizzazione precoce.
Si sceglie a 14 anni, o molto prima in casi di anticipo, il
percorso liceale di natura statale o il percorso
della formazione regionale.
Per quanto riguarda la ristrutturazione degli studi
secondari, mentre accogliamo con favore talune
misure – quali l’inserimento della seconda
Lingua Straniera nei curricola del primo grado, il
mantenimento della durata quinquennale dei licei e
la conferma dell’Esame di Stato quale
conclusione degli studi – ci sembra doveroso
puntualizzare alcune incongruenze e taluni aspetti
sui quali dissentiamo.
Diritto all’istruzione ed obbligo scolastico
In primo luogo, la lettera c) del 1° comma
dell’art. 2 del Disegno di Legge ci sembra in
contraddizione con le lettere a) e b)
che lo precedono. Recita infatti il testo che "è
assicurato il diritto all’istruzione per almeno
dodici anni o, comunque, sino al conseguimento di
una qualifica entro il diciottesimo anno".
Osserviamo dunque che la secondaria superiore è
del tutto esclusa dal sistema dell’obbligo
scolastico che viene così di fatto ridotto ad
otto anni: la cosa ci sembra in stridente
contrasto con l’assetto europeo degli studi e
contraddice i passi precedenti del comma che
richiamavano la necessità di una formazione
garantita per tutti e conforme ai principi della
Costituzione. Prevedere infatti il diritto
è cosa ben diversa dall’individuare il dovere
(se dà fastidio chiamarlo obbligo
)all’istruzione: e si osservi che questo dovere
l’individuo non lo ha tanto verso se stesso ma
verso la società, cui egli deve contribuire con
il massimo delle sue potenzialità.
La fuoriuscita della secondaria superiore dal sistema
dell’obbligo è foriera, a nostro avviso, di
gravi conseguenze che – se nel breve e medio
periodo possono sembrare di sollievo per il
contenimento della spesa pubblica e sembrano
corrispondere ai desideri immediati ed epidermici
delle fasce più deboli della popolazione – nel
lungo periodo portano ad un impoverimento
culturale complessivo della società che imporrà
un netto arretramento del sistema-Italia
sia nel campo della qualità della vita che della
stessa competitività economica.
Nel lungo periodo, infatti, una specializzazione precoce
delle competenze professionali, ottenute a
discapito della formazione complessiva
dell’armatura culturale della persona, non può
che portare a mano d’opera poco duttile e
flessibile, in balia delle periodiche e sempre più
veloci ristrutturazioni del mercato e debole sul
piano del rendimento. E questa, ci sembra, sia
un’analisi condivisa da larghi settori della
stessa Confindustria.
Formazione e Istruzione
La stessa logica della precocizzazione delle scelte (a 12
anni e mezzo si dovrà decidere se continuare gli
studi o imparare un mestiere) ci sembra fortemente
discriminatoria: infatti è prevedibile che ad
orientarsi verso il sistema della formazione
regionale saranno proprio quelle fasce sociali che
– per debolezza economica e culturale del
contesto di riferimento – non avranno in seguito
altra occasione di emancipazione culturale. La
forbice tra chi già sa (perché grazie
alla famiglia ha un curricolo implicito ricco ed
articolato) e chi già fa (perché deve
aiutare la famiglia a sbarcare il lunario) si
allargherà in maniera forse irrecuperabile
contribuendo a cristallizzare la società italiana
in modelli di rigidità che sembravano ormai
appartenere al passato della nostra storia. Non
possiamo dimenticare che la scuola di massa è
stata il volano che ha permesso ed accompagnato in
Italia il processo di sviluppo e che questa scuola
ha contribuito a che il nostro Paese potesse
divenire la settima potenza mondiale pur con una
popolazione molto più limitata dei propri
partner. E questo nonostante i limiti evidenti che
la scuola italiana ha sin qui mostrato e che
nessuno difende: ma probabilmente, sarebbe
possibile lavorare alla promozione delle
eccellenze ed all’innalzamento dei livelli di
qualità investendo di più nell’istruzione,
invece che espellere una consistentissima parte
della popolazione verso un percorso povero quale
si profila essere quello della formazione
regionale. Per coltivare le eccellenze, non è
giusto deprimere ancor di più le sofferenze.
A questa riflessione – che apparirà forse pessimista –
concorre la constatazione che il sistema di
formazione regionale non nasce bene e, anzi, in
molte regioni è ben lontano dal nascere. Mancano
– e non solo nel Mezzogiorno – le mappature
delle risorse della formazione, manca un tessuto
imprenditoriale in grado di sostenere sul piano
del partenariato l’Ente locale, mancano le
competenze formative all’interno delle strutture
stesse degli Enti, non esistono sinergie di
sistema tali da far prevedere che anche stavolta
la formazione regionale non si trasformerà in una
vuota area di parcheggio destinata solo a pompare
ed assorbire improduttivamente risorse collettive.
Il secondo ciclo
Riteniamo, dunque, che vada ripensato l’intero impianto
del secondo ciclo (lettera g art.2)
garantendo:
· Un
biennio superiore inserito nel sistema
dell’obbligo scolastico (portando così da 9 a
10 gli anni dell’istruzione per tutti e non
riducendoli ad 8);
· Lo
sviluppo, all’internodi questo e con il concorso
dell’Ente Regione, di percorsi di formazione
integrata che siano anche orientativi rispetto
alla successiva scelta di un triennio liceale o di
formazione regionale.
· Lo
sviluppo di percorsi di formazione regionale e di
istruzione statale tra loro alternativi solo
successivamente, quando l’individuo, non solo
avrà ricevuto una formazione culturale di base
congrua ai tempi che viviamo ed ai livelli di
civiltà che esprimiamo, ma avrà anche un’età
che gli permetta di partecipare con cognizione di
causa alla scelta del suo futuro.
Interazione tra i sistemi (lettere h ed i, art. 2)
Ci sembra poi debolissimo e francamente inaccettabile
l’impianto previsto dalla lettera h)
dell’art. 2 quando assicura a chi abbia
conseguito la qualifica quadriennale della
formazione regionale di poter svolgere l’Esame
di Stato utile all’accesso universitario. Qui i
casi sono due: o si riconosce che quattro anni di
liceo possono essere recuperati in un anno
integrativo (è un po’ la logica dei diplomifici)
oppure si ritengono sostanzialmente equivalenti
istruzione e formazione ai fini dell’accesso
universitario e quindi non ha senso imporre dei
paletti alla seconda. Ci sembra francamente poco
responsabile un atteggiamento così superficiale
nella considerazione dei requisiti per l’acceso
universitario.
Così anche la logica della successiva lettera i) ci
sembra assolutamente destituita da ogni realismo e
da fondamenti pedagogici: cosa significa "è
assicurata ed assistita la possibilità di
cambiare indirizzo all’interno del sistema dei
licei, nonché di passare dal sistema dei licei
alla formazione professionale, e viceversa,
mediante apposite iniziative didattiche,
finalizzate all’acquisizione di una preparazione
adeguata alla nuova scelta" ? La cosa
sarebbe comprensibile se avvenisse entro
l’inizio del secondo anno. Ma se la cosa
avvenisse, poniamo, al terzo anno, come sarebbe
possibile? Come sarebbe possibile per un giovane
recuperare 2\3 anni di liceo in poco tempo per
iscriversi al terzo anno e viceversa? E poi, come
considerare i crediti – ad es. di Greco – per
chi volesse passare alla formazione professionale
o quelli di intaglio del corallo a chi volesse
passare al liceo così da non fargli perdere
l’annualità ? Per non parlare poi del sistema
di alternanza scuola\lavoro i cui contorni sono
ancor più improbabili sul piano della fattibilità
e che prevedono, chiaramente e senza mezzi termini
(lettera a art.4) che "i periodi di
tirocinio non costituiscono rapporto individuale
di lavoro". Ma se non lavorano che fanno
questi non-lavoratori\non-studenti? E le
imprese perché dovrebbero prenderseli?
Ci scuserete se abbiamo fatto degli esempi particolari, ma
servono a focalizzare i nostri dubbi sulla
fattibilità di un progetto che ci sembra molto
aleatorio sul piano della concretezza ed ignaro di
qualsiasi, pur elementare, considerazione
pedagogica ed educativa.
Dov’è andata a finire l’autonomia scolastica ?
Ma al di là di questi, pur fondamentali dubbi, il problema
più grande sembra essere rappresentato dalla
lettera l) dell’art.2.
Cosa vuol dire che "i piani di studio
individualizzati, nel rispetto dell’autonomia
delle istituzioni scolastiche, contengono un
nucleo fondamentale, omogeneo su base
nazionale…e prevedono una quota, riservata alle
regioni, relativa agli aspetti i interesse
specifico delle stesse…" ? Dove è il "rispetto
dell’autonomia scolastica" ? Le scuole
saranno "libere" di sviluppare i
programmi delle regioni (anche se non dovesse
passare la devolution) ? Non vorremmo che, insieme
ai tagli alla scuola statale, questa fosse la
pietra tombale di ogni possibile e residua
salvaguardia dell’autonomia scolastica. Se non
si modifica questo passaggio dell’art. 2,
coerenza ed onestà imporrebbero al Governo di
dire chiaro e tondo che le scuole non sono più
autonome. |