PAOLINO un scito do belin!

 

Il mito di Gilberto Govi: la vita  1/3

In queste pagine voglio ricordare il più grande artista teatrale genovese: Amerigo Armando Gilberto Govi, nato il 22 ottobre 1885. govidisc2 Una delle dicerie che maggiormente lo indignivano era quella relativa al suo luogo di nascita. Un giorno G. lesse sul giornale una notizia secondo la quale l'attore non sarebbe nato a Genova e ne rimase molto seccato; tanto che, per reagire a quello che egli riteneva un affronto, qualche tempo dopo iniziava la sua autobiografia con queste precise parole: "Si, sono genovese, anche se vanno stampando che non lo sono. Sono nato a Genova in via S. Ugo n. 13, e se volete sincerarvene andate all'anagrafe". Queste voci erano forse dovute al fatto che il padre e la madre erano nativi rispettivamente di Modena e Bologna.
Il giovane G., dopo aver frequentato l'Accademia di Belle Arti, trovò impiego come disegnatore alle Officine Elettriche Genovesi: aveva la passione per il disegno e le caricature. Dopo alcune esibizioni in un teatro di Bolzaneto, G. s'iscrisse all'Accademia filodrammatica del teatro "Nazionale", un ambiente un po' tetro dove era costretto a recitare nel più impeccabile italiano, in eterna tenzone con le norme inflessibili della corretta dizione. Ma le sue qualità di attore dovevano già essere avvertibili, tanto che alcuni critici ne rimasero colpiti. Questo però non bastava a soddisfare G. che nel sangue aveva il dialetto. Nel 1914 mette su una compagnia chiamata proprio la "Dialettale" che, dopo i primi spettacoli, riportò notevoli successi a Sampierdarena, a Sestri P. e perfino a Chiavari e Savona. Ma qui nacquero i contrasti con l'Accademia che gli pose un ultimatum: o dire addio al dialetto, o all'Accademia. G., che da buon genovese aveva la testa dura, optò per il dialetto e l'Accademia lo espulse. Era il 1916. Teatro genovese anno zero. Le prime recite della compagnia autonoma di G. avvennero nel teatro Paganini. Fra il suo gruppo vi era una graziosa e tenera attrice, Caterina Franchi in arte Rina Gajoni (m. 3/8/'87), creatrice applaudita della popolare macchietta della "Luiginn-a", della quale s'innamorò.
Nel 1917 G. sposò Rina Gajoni che per 49 lunghi anni sarebbe stata la sua compagna fedele, sulla scena come nella vita; non hanno avuto figli. Nel privato era una persona normale, amava giocare a bocce e i cani, ma era un biricchino, tanto che la moglie gli metteva accanto una cameriera per controllarlo. Nel 1934 si è fermato col suo teatro (non per la crisi del teatro, come si dice) perché aveva una storia con una donna, e la moglie intervenne duramente. govi1ok
Dopo un lungo apprendistato, nel 1923 la compagnia di G. approda al teatro di Milano dove il successo de "I manezzi pe' majâ na figgia" fu strepitoso. Anche il "Corriere della Sera" ne scrisse bene. G. aveva sfondato, ma il successo non gli diede alla testa. Per due anni ancora mantenne il suo impiego alternando il palcoscenico al tavolo di lavoro.
Il 1926 vide il teatro genovese varcare i confini nazionali. Fece una tournée in Argentina riscuotendo applausi oceanici. Là trovò numerosi genovesi emigrati. "La parlata genovese più genuina l'ho trovata in America" scrisse. Nel 1928 recita a Roma, 1929 a S. Rossore ospite di Vittorio Emanuele III, 1930 a Parigi; in quegli anni Mussolini volle regalargli una foto con dedica in segno di sincero apprezzamento. Nel 1942 venne l'esperienza cinematografica di cui parlerò nella pagina successiva. Non mancarono importanti riconoscimenti pubblici: nel 1948 nel centenario del Risorgimento, negli anni '50 partecipò a una manifestazione benefica presso il Circo nazionale Togni a Genova, nel 1957 ricevette una medaglia d'oro dal sindaco, nel 1960 rimise in piedi la compagnia per l'ultima stagione della sua carriera, nel 1965 il sindaco gli consegnò un'altra medaglia d'oro che da un lato riportava la scritta "A Govi, artista illustre, massimo interprete del teatro dialettale genovese, la città con gratitudine, 22 ottobre 1965".
Il 28 aprile 1966 morì. Fino all'ultimo non perse la lucidità e, poche ore prima del decesso, con una delle sue caratteristiche battute, esclamò: "Quante ghe veu pe moî!" (Quanto ci vuole per morire!). I funerali si svolsero nella chiesa di Santa Zita gremita di pubblico. Poi la salma dell'artista fu tumulata nel cimitero di Staglieno, nella tomba che si era fatto costruire 3 anni prima dallo scultore Guido Galletti. G., come avrebbe detto lui, «aveva tirato i remi in barca».

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