CURRICOLO DI SCIENZE GEOSTORICHE E SOCIALI

NELLA SCUOLA MEDIA

a cura di Paolo Alpino


CLASSE TERZA    UNITA' DI LAVORO N° 9

La globalizzazione

Filone        Educazione allo sviluppo


Introduzione

Mappa concettuale

Elenco attività

Documenti


Introduzione. E' l'unità conclusiva. Le dinamiche che approfondisce - quelle dello sviluppo - sono centrali per l'intero curricolo di geostoria, non solo di quello di terza media. Si parla del presente, anche dell'attualità più recente ma con parole, conoscenze, concetti, modelli di spiegazione che si sono formati nel corso dei tre anni descrivendo tematiche di altri contesti temporali e spaziali. Qui questi strumenti vengono in gran parte ripresi per conoscere la svolta che va sotto il nome di globalizzazione, di cui insegnanti e alunni hanno il vantaggio di esserne, più o meno consapevolmente, testimoni diretti.

Il percorso proposto riassume il lavoro già svolto anche metodologicamente. I primi tre capitoli hanno un taglio più induttivo: nel primo e nel terzo capitolo gli studenti a partire da esempi forniti dall'insegnante o ricavati dalla loro esperienza provano a generalizzare, e con l'aiuto dell'insegnante definiscono alcuni aspetti del fenomeno. Nel secondo capitolo si fa ricerca, le informazioni sono numeriche, appartengono al database della ricchezza che si può interrogare usando - se si vuole -  gli strumenti forniti da Excel. Nel quarto capitolo è più centrale la posizione dell'insegnante: sulla base delle informazioni che si ottengono dalla lettura dei testi egli propone modelli esplicativi, stimola confronti fra situazioni di diversa scala, produce in conclusione mappe via via più potenti per rendere ragione dei cambiamenti in corso.

E' anche tempo d'esame. La formazione a distanza si defila, lascia il posto alla didattica in presenza, fatta di parole dell'insegnante che spiega, degli alunni che fanno domande, che si cimentano soprattutto nell'esposizione di un percorso di lavoro complesso, in preparazione della prova orale dell'esame di terza media: il colloquio interdisciplinare.


Mappe concettuali

 

 

 


Elenco attività

Cap. I    Esempi e definizioni

Cap. II    La geografia della povertà e della ricchezza

Cap. III    Il secolo cinese (asiatico)?

Cap. IV    La III rivoluzione industriale


Documenti

Documento 1    Globalizzazione. Leggi i seguenti esempi del fenomeno, ricava alcuni significati generali del termine e riportali sul quaderno:

Si intende l’insieme di quei fenomeno per cui la vita di ogni abitante del pianeta dipende, almeno in parte, da decisioni prese oltre i confini del paese in cui vive, e sulle quali non ha la possibilità di esercitare alcuna forma di controllo (B. Guillochon). 

Se un cittadino statunitense compera per 10.000 dollari un’auto della General Motors, 3.000 dollari vanno in Corea del Sud per lavorazioni di routine e operazioni di assemblaggio, 1750 in Giappone per componenti ad alta tecnologia, 750 in Germania per il design e per per il progetto delle parti meccaniche, 4.000 a Taiwan, Singapore e Giappone per piccole componenti, 250 nel Regno Unito per la pubblicità e i servizi commerciali e altre 250 in Irlanda e nelle Barbados per l’esecuzione di calcoli al computer (J. Brecher – T. Costello). 

Per tornare in Europa nel ‘300, dall’oriente dove era endemica, la peste impiegò qualche secolo; venticinque anni esatti ci vollero perché il vaiolo trasmigrasse dall’Europa alle Americhe a fare stragi di indios; pochi anni all’Aids per diffondersi dall’Africa centrale al resto del mondo. Per la Sars poche settimane sono bastate per mettere in allarme il mondo intero: questa fulmineità nella trasmissione è frutto dei nostri tempi e dei ritmi veloci di circolazione di persone e di cose… (Massimo Livi Bacci, L’antidoto globale in La Repubblica del 30.4.2003) 

1.    Vai in qualsiasi posto del mondo e ci trovi la Coca-Cola. O le Nike. O le Marlboro.

2.    Possiamo comprare azioni in tutte le Borse del mondo, investendo in aziende di qualsiasi paese

3.    I monaci tibetani collegati a Internet

4.    Il fatto che la mia auto sia costruita a pezzi, un po’ in Sud America, un po’ in Asia, un po’ in Europa e magari un po’ negli stati Uniti

5.    Mi seggo al computer e posso comprare tutto quel che voglio on line

6.    Il fatto che dappertutto, nel mondo, hanno visto l’ultimo film di Spielberg, o si vestono come Madonna, o tirano a canestro come Michael Jordan

( Da A. Baricco, Next. Piccolo libro sulla globalizzazione e sul mondo che verrà, Milano 2002)

 Quando sorge il sole su un qualunque giorno di scuola, in tutto il mondo comincia la tipica giornata degli adolescenti della classe media. Il teenager statunitense si infila nei suoi jeans e la cilena rovista nei cassetti cercando la T-shirt giusta. La taiwanese si allaccia le scarpe da ginnastica, mentre l’ungherese si butta lo zaino sulle spalle e esce di casa. Le analogie, secondo una delle più ampie inchieste mai condotte sugli adolescenti di tutto il mondo, vanno al di là dell’amore per i Levi’s o per le Nike. Il Brain Waves Group, una società di New York che si occupa di ricerche di mercato, ha intervistato 25mila teenager dei cinque continenti: secondo i risultati del sondaggio, i giovani tra 15 e i 18 non solo hanno gli stessi gusti, ma condividono anche opinioni, valori e obiettivi … (da un’inchiesta del Washington Post)

“Happy Birthday, Globalisation”, celebra il Financial Times. La globalizzazione compie oggi venti anni ed il mondo che ha plasmato è irriconoscibile rispetto al 1983: allora non c’erano i cellulari né la Cnn né Internet, i nostri figli non vestivano Nike, non esisteva l’euro, non avrei scritto questo articolo su un computer, e metà del pianeta era governata da sistemi comunisti… (Federico Rampini, Globalizzazione i vent’anni che sconvolsero il mondo in La Repubblica dell’8 maggio 2003) 


Documento 2    Globalizzazione come interdipendenza di attività economiche


Documento 3    I prodotti globali. Attività: dopo aver letto il testo a) sottolinea nel testo le informazioni riguardanti i diversi momenti della lavorazione del jeans e gli spazi in cui in cui essi avvengono; b) Trova sulle carte i luoghi in cui avvengono le diverse fasi della produzione del jeans c) Riporta sulla carta sottostante tante didascalie quante sono le diverse fasi produttive del jeans e mediante frecce collegale ai diversi luoghi della produzione. Infine dai un titolo alla carta appena creata

In un centro commerciale di Ipswich, tutto di vetro e acciaio con le doppie porte e le scale mobili, c’è il Cromwell’s Madhouse: un negozio pieno di pile di jeans, felpe, pantaloni sportivi, e poi ancora jeans. Più o meno al centro, su una pedana, eccolì lì, il nostro jeans 3000 sotto un grosso cartello con la scritta “Grandi marche a 19,95 sterline”

…“Lavare a rovescio separatamente” dice l’etichetta all’interno. Cento per cento cotone. Non dice da dove vengono, ma in fondo meglio così …perché Cromwell’s Madhouse è l’ultima fermata di un percorso che, se lo si misurasse, sarebbe uguale a una volta e mezzo il giro del mondo. Secondo un calcolo molto approssimativo e cauto, un viaggio di circa 60 mila chilometri, durante il quale componenti e materiali grezzi si incrociano attraverso il pianeta in una frenetica e folle danza.

Questi jeans sono arrivati qui qualche giorno fa, in un furgone che ha risalito la A12 dal deposito della jeans 3000, proprio in fondo alla M1 di Londra nord. Lì gli hanno attaccato l’etichetta Cromwell, prima di inscatolarli e spedirli in tempo per lo shopping di fine settimana.

Prima erano passati attraverso la Manica su un camion proveniente da un deposito simile che si trova ad Amiens, in Francia, e prima ancora in nave e treno dalla Tunisia. Da Ras Jebel, per essere più precisi, un’ora abbondante di macchina a nord di Tunisi. …Qui cinquecento donne lavorano furiosamente, gli occhi bassi, i muscoli contratti. Ognuna ha la sua piccola parte da fare: cerniere lampo, tasche, cuciture laterali, orli. E ognuna lavora come un automa, prende un capo da un carrello al suo fianco, lo scaraventa nella macchina da cucire, e segue velocemente la cucitura e lo getta di nuovo sul carrello.

…Anche se il prezzo di fabbrica di questi jeans è di 5 sterline e il trasporto in Francia costa solo 10 pence l’operaia Famedi non è affatto sorpresa che il loro prezzo al Cromwell’s Madhouse sia di 29 e 95…

Questa fabbrica, questa piccola comunità di lavoratori, non è l’inizio del nostro paio di jeans. In un certo senso è la fine, la destinazione. Il posto in cui decine di diversi componenti, materiali, merci, prodotti chimici e rondelle si incontrano per subire una trasformazione. Prendiamo, per esempio, quel cotone spesso e blu scuro, il denim del Kansas, per chiamarlo con il suo nome. Viene portato qui per mare e per terra da un’azienda di Milano, a mille chilometri di distanza, dove viene filato, tessuto e tinto usando l’indaco sintetico prodotto cinquecento chilometri più a nord, a Francoforte, in Germania. A ras Jebel viene tagliato, cucito e poi trasformato in un tessuto morbido e inossidabile in grosse lavatrici industriali, con l’aiuto della pomice di un vulcano inattivo della Turchia.

E da dove viene il cotone che serve per fare il denim? L’azienda italiana lo compra in diversi posti ma soprattutto nel Benin, in Africa occidentale. Il cotone che viene dal Benin non è il solo cotone usato per fare i nostri jeans. Quello per l’interno delle tasche viene coltivato in Pakistan o in Corea, e lavorato in Pakistan.

C’è poi il rivestimento di cotone dei fili di poliestere, che ha una storia a parte. E’ un’azienda specifica a fabbricare questi fili: vengono prodotti a Lisnakea nell’Irlanda del Nord, come anche in  Ungheria ed in Turchia. Vengono tinti in Spagna e avvolti in rocchetti a Tunisi, prima di arrivare a Ras Jebel.

La fibra di poliestere che dà forza al filo viene acquistata dalla società in Giappone dove è fabbricata con derivati di petrolio. Come il nastro di poliestere della lampo, che viene prodotto in Francia da una società giapponese. Anche l’ottone con cui sono fatti i denti della lampo viene dal Giappone.

L’ottone naturalmente è una lega costituita principalmente di rame con un po’ di zinco. Ed è sempre l’ottone che serve a fare i bulloni di guarnizione e i bottoni. Questi vengono, da una ditta con sede in Germania che produce l’ottone, usando zinco e rame provenienti rispettivamente da Australia e Namibia nell’Africa del sud… (testo adattato da F. Abrams e J. Astill, The Guardian, 2001)


Documento 4    Definizione conclusiva di globalizzazione

La globalizzazione è il sistema di produrre le merci ed i servizi in un contesto di liberismo mondiale. Infatti ogni impresa è libera di operare in ogni paese del mondo, dove ha più convenienza, in concorrenza con le altre imprese. Questo sistema è reso possibile dalle telecomunicazioni moderne (telefono, fax, internet) e dai trasporti integrati (terra, mare, aria) che hanno fortemente ridotto le distanze di spazio e tempo.

Nell’economia globalizzata agiscono soggetti dotati di “forza” molto diversa:

La globalizzazione non significa uguaglianza economica ma competizione e concorrenza. Spesso le imprese, i paesi più deboli, le forze sociali con poco potere contrattuale, devono soccombere di fronte a forze economiche immensamente più grandi di loro

(testo adattato da G. Paci, Geografia per immagini, vol. 3°, pag. 166, Bologna 2003)


Documento 5    Il secolo cinese di Federico Rampini . Leggi il testo e rispondi alle domande:

Nel febbraio 2005 gli schermi radar dell'economia mondiale hanno avvistato un sorpasso denso di significato. La Cina è diventata il maggiore consumatore mondiale di prodotti indu­striali e agricoli sottraendo questo primato agli Stati Uniti, che lo detenevano da quasi cent'anni.

Un mese prima, il 6 gennaio, la signora Lan Hui, impiegata trentunenne della Shell a Pechino, aveva partorito un maschìet­to di 3,66 chili. Il bambino finì sulle prime pagine dei giornali perché, con la sua nascita, la popolazione cinese raggiungeva ufficialmente un miliardo e 300 milioni. È la dimensione demografica dell'Europa sommata a quella degli Stati Uniti e mol­tiplicata per due.

Nel corso dello stesso 2005 il numero di cinesi che hanno ac­cesso a Internet (134 milioni) raggiunge e supera quello degli americani. La forza del paese è una combinazione di tutti questi elementi: le grandi dimensioni, l'inesauribile manodopera a buon mercato, le punte avanzate di modernità. Il boom cinese, ormai, detta i ritmi e le regole del sistema in cui noi tutti vivia­mo. Nessun settore, neanche quello tecnologicamente più avan­zato, è al riparo dalla concorrenza del gigante asiatico: la Cina incarna il più grande popolo di consumatori, il più vasto bacino di forza lavoro e una nazione che riesce a eccellere nella ricerca scientifica, nella conquista dello spazio, nelle biotecnologie. Mi­naccia o opportunità, non ci si può permettere di ignorarla.

 

Secondo la banca americana Goldman Sachs, nel giro di tren­t'anni l'economia cinese sarà tre volte maggiore di quella degli Stati Uniti. «The Economist» ha stimato che nel prossimo mezzo secolo lo sviluppo della Cina aggiungerà all'economia del piane­ta una ricchezza pari alla scoperta di altre quattro Americhe.

Siamo entrati, in tutti i sensi, nel «secolo cinese».

Agli inizi del Novecento, nessuno poteva immaginare quan­to sarebbe cambiata la vita durante quello che poi sarebbe di­ventato il «secolo americano». Oggi è altrettanto difficile preve­dere in che modo e fino a che punto la Cina ci condizionerà negli anni a venire. In ogni caso, dobbiamo prepararci: oggi il nostro pianeta è molto più «stretto» e interdipendente di quanto non fosse cent'anni fa.

 

Ci siamo dovuti abituare ai miracoli asiatici: il Giappone, la Corea del Sud, Hong Kong e Singapore sono paesi che hanno dimostrato di saper bruciare le tappe dello sviluppo. Ma la Cina è un caso a sé e di dimensioni tali che il suo decollo genera shock senza precedenti. Assistiamo a uno di quegli spostamenti sismici che cambiano il corso della storia umana. Mentre tra­sforma se stessa a una velocità inaudita, la Cina trasforma ine­vitabilmente l'intero pianeta. Mai, nel mondo contemporaneo, un paese emergente ha avuto lo stesso potere di scuotere i rap­porti di forza economici e gli equilibri diplomatici e militari. Mai si era visto nascere dal nulla, in soli vent'anni, un nuovo ce­to medio urbano di 200 milioni di persone dotate di un potere d'acquisto «occidentale». La Cina è l'unica potenza che sfida l'influenza degli Stati Uniti, e questo non solo in Asia, ma anche in America Latina e in Africa. È il paese che, avendo accumulato oltre 600 miliardi di dollari di riserve valutarie, esercita un pote­re cruciale sulle finanze di Washington. Gli americani sono i pri­mi ad averlo capito. Secondo il «Wall Street Journal», in un son­daggio condotto fra i presidenti delle maggiori multinazionali americane, alla domanda «qual è il singolo fattore che ha il po­tere di cambiare il mondo in cui viviamo», la risposta è unani­me: la Cina. Il National Intelligence Council, una divisione della Cia, in un rapporto sugli scenari del futuro sostiene che la Cina possiede gli stessi requisiti che cent'anni fa permisero agli Stati Uniti di effettuare il sorpasso dell'Inghilterra: dimensioni geo­grafiche (è il terzo paese del pianeta), peso demografico, un mercato interno grande e in espansione, un buon livello di istruzione, accesso a capitali e tecnologie e, infine, una moneta sottovalutata. Lo studio della Cia conferma che l'emergere della superpotenza cinese avrà sulla situazione mondiale un impatto paragonabile all'ascesa degli Stati Uniti nel secolo scorso. Un ri­conoscimento emblematico: il suo maggiore rivale strategico è il primo ad ammettere che questo secolo apparterrà alla Cina.

 

… La Cina suscita anche diverse paure. La più immediata, quel­la che riempie le prime pagine dei nostri giornali, è la paura economica. Ed è anche la meno giustificata. Se in Cina i tessuti filati costano un decimo di quello che costano da noi, anche in Italia c'è chi riesce a guadagnare disegnando vestiti che si pos­sono produrre più a buon mercato. Se i computer «made in Chi­na» costano un terzo, ogni agenzia turistica italiana risparmia su un apparecchio indispensabile per offrire i propri servizi ai clienti del mondo intero. I benefici della produttività cinese cir­colano invisiblli in mezzo a noi, nelle nostre case e nei nostri uf­fici. ll «prezzo cinese» - cioè il fatto che questo paese è ormai in grado di produrre pressoché tutto, e con il 50-70 per cento di sconto - è una realtà economica che non si può rifiutare. Cerca­re di sottrarsi alla concorrenza cinese è impossibile, perché ser­ve anche a noi. Abbiamo smesso da tempo di fabbricare compu­ter o telefonini. Chiudere alla Cina vorrebbe dire amputarci di una parte del nostro tenore di vita. Quello sconto cinese che per alcuni di noi è una minaccia, per altri rappresenta un guadagno (consumatori, imprese che delocalizzano). Il 59 per cento delle esportazioni «made in China» in realtà sono «nostre», cioè fab­bricate da multinazionali dei paesi ricchi. Certo, i molti benefit che otteniamo senza neppure saperlo coesistono con i danni im­mediati e dolorosi per industrie e lavoratori spazzati via da una competizione massacrante …

Oltre all'ossessione del «made in China», si individuano altre paure ben più legittime. A questo ritmo di sviluppo, tra vent'an­ni la Cina avrà 200 milioni di automobili. Già oggi lo smog cinese contamina l'atmosfera di tutta la Terra: polveri tossiche di Shan­ghai vengono rintracciate nell'aria che si respira in Europa e in America. Per soddisfare il bisogno di legname dell'economia ci­nese, ogni anno in Indonesia vengono distrutte foreste pari al­le dimensioni della Svizzera. L'impatto sulle risorse naturali del pianeta è una delle incognite più gravi del nostro futuro.

Il regime politico di Pechino rappresenta un'altra seria ragio­ne di preoccupazione. Se nei prossimi anni non avverranno cam­biamenti profondi, siamo destinati ad avviarci verso una situa­zione inedita nella storia contemporanea: per la prima volta la più grande economia del pianeta non sarà governata da un siste­ma democratico. Chi oggi mal sopporta l'egemonia americana rischia di fare i conti, in un futuro molto vicino, con un'altra su­perpotenza in cui le decisioni vengono prese senza trasparenza, senza contropoteri interni, senza gli anticorpi di un'opposizione, di una stampa libera, di una magistratura indipendente…

 


Documento 6    Giappone: il drago di Vittorio Zucconi (da Stranieri come noi, Einaudi scuola). Leggi il testo e rispondi alle seguenti domande:

La stanza è immersa nel buio e solo una lampada snodabile da tavolo proietta una chiazza di luce sopra la scrivania. Nel piccolo ovale illuminato, la mano di un bambino giapponese traccia geroglifici con il pen­nellino da calligrafia, silenziosamente.

- La prego, non lo distragga, - mi scongiura a bassa voce la madre, con una nota di durezza più forte della sua cortesia di ospite.

La manina continua a disegnare i segni dei gerogli­fici, che sono le lettere dell' alfabeto giapponese, e la madre chiude morbidamente la porta alle nostre spal­le, per tenere lontani i rumori e le voci degli ospiti nel soggIorno.

- Mi scusi, ma che sta facendo suo figlio?

- Ma come «che sta facendo », - mi risponde stupita - i compiti per domani, no?

- I compiti? - Guardo l'orologio: è l'una passa­ta. L'una di notte. - E quando dorme? - mi permet­to di chiedere. - Dorme quando può, - taglia corto la signora, gentilmente, ma fermamente, spingen­domi fuori dalla camera del bambino. Benvenuti in Giappone.

Ormai sappiamo tutti, anche senza volerlo, che il Giappone è diventato una «grande potenza indu­striale», una nazione che produce enormi quantità di cose bellissime e moderne vendute in tutto il mondo.

Anche chi non si è mai mosso di un chilometro dalla propria città e dalla propria casa, è stato in qualche modo «toccato» dalle lunghe mani della potenza giapponese.

L'orologio digitale che portiamo al polso, il televi­sore che guardiamo a casa, la radiolina portatile, il re­gistratore, lo stereo, il motorino elettrico che fa fun­zionare l'aspirapolvere, il cervellino elettronico na­scosto che regola il motore dell'auto, sono con ogni probabilità prodotti giapponesi, anche quando 1'eti­chetta o la marca sembrano diversi.

Nomi come Sony, Honda, Panasonic, Toshiba, Hi­tachi, Seiko, Citizen, Sanyo, Toyota, Nintendo, solo per citarne qualcuno, sono entrati nel vocabolario e nelle case di tutto il mondo, dall'Italia alle Filippine, dalla Cina alla Russia.

Come trent' anni or sono si diceva dell'Italia, così oggi si parla di un «miracolo giapponese». Una na­zione che nella seconda guerra mondiale aveva perdu­to due milioni di soldati e un milione di civili, che ave­va visto la sua capitale Tokyo andare interamente in fiamme in una sola notte di bombardamenti incendia­ri (morirono 180.000 persone) e altre due, Hiroshima e Nagasaki, polverizzate in pochi secondi dalla bom­ba atomica, è divenuta in quarant'anni appunto una «grande potenza» industriale.

E al centro di questo «miracolo» c'è quella piccola chiazza ovale di luce proiettata sulla scrivania di un bambino alla una di notte. Ci sono la fatica, l'impe­gno, la disciplina di un popolo che per uscire dalle macerie - e dalla vergogna - di una guerra, non ha chiesto aiuto alla fortuna o elemosine agli altri paesi, ma ha pescato nella sola risorsa che in Giappone abbonda: la capacità dei singoli di sacrificarsi per il bene di tutti.Un sacrificio che comincia dai bambini: in quella stanzetta semibuia dove vedevo la manina tracciare le parole alla una di notte.

Come ti chiami? - chiesi al bambino che faceva i compiti.

- Taro.

- Quanti anni hai?

- Undici. E mezzo, - si affrettò ad aggiungere.

- Che classe fai?

- La sesta, - l'ultima delle sei classi elementari, seguite poi da tre medie, obbligatorie, e tre di scuola su­periore .

Mi racconti come passi la tua giornata, Taro?-

 ­Si sveglia alle 6 e30 del mattino, e non c'è bisogno di un grande matematico per fare subito il conto: se alla una è ancora sveglio a fare i compiti, non dorme più di cinque ore per notte. Una pacchia. - Ma non hai sonno durante il giorno?

- Beh si, molto, - rise Taro scuotendo il testone fit­to di capelli dritti e neri, - ma il sonno mi passa quan­do penso a tanti dei miei compagni di scuola che si al­zano alle 5 del mattino per fare ancora un po' di com­piti e per ripassare le lezioni. La mia mamma mi lascia dormire di più. - Una santa, quella donna.

Taro frequentava una scuola privata, costosa, scel­ta con cura dalla madre e pagata con grande sacrificio dalla famiglia che non era certo ricca ma sa che non basta andare bene a scuola, per fare carriera domani. Bisogna frequentare le scuole migliori, fin dall' asilo, per essere ammessi alle università migliori e poi avere i buoni posti di lavoro.

- Per arrivare a scuola devo prendere due metrò, in tutto sono 50 minuti di corsa.

- Che seccatura.

- Ma no, ci divertiamo un sacco, corriamo sui marciapiedi, ci diamo spinte, qualche volta pestiamo i pie­di alle gente nei vagoni del metrò. - Talmente pieni, a quell'ora, che sul marciapiede ci sono incaricati spe­ciali che devono letteralmente spingere i passeggeri dentro le porte per farcene stare qualcuno in più, co­me si fa con le valigie nel portapacchi quando si parte per il mare.

La scuola comincia alle 8 e 50 e va avanti per quat­tro ore prima dell'intervallo. Ogni giorno, si fanno due ore di lingua giapponese, che è lo studio, durissi­mo, dei kanji, i caratteri complicatissimi dell'alfabeto cinese che anche i giapponesi usano. È uno studio che comincia in prima elementare e in pratica non finisce mai. Solo per leggere un giornale, è necessario cono­scere circa 1500 di questi «ideogrammi» e una perso­na colta, un avvocato, uno scrittore, un medico, deve impararne 20.000.

Pensate: per leggere un libro come questo in giap­ponese, dovreste conoscere 20.000 lettere. E voi vi lamentate.

Per fare un confronto, nel nostro alfabeto latino, il vecchio, caro «A, B, C», ci sono solo 21 lettere, 26 se vogliamo aggiungere le lettere entrate nell'uso anche da noi, come «j», «k», «X», «y» e «w».

Dopo le due ore immancabili di giapponese e dello studio - tutto a memoria - di migliaia e migliaia di ge­roglifici, arriva un'ora di matematica, tutti i giorni, se­verissima. Anche per questo gli scolari giapponesi ri­sultano sempre fra i migliori nel mondo quando si fanno confronti e concorsi internazionali di matema­tica. Poi c'è un'ora di «scienze sociali», materia un po' vaga sotto la quale si fanno storia, geografia, poli­tica, etnologia che è lo studio dei popoli.

A mezzogiorno e mezzo arriva l'obento, la colazio­ne che passa la scuola nel refettorio.

Riso con pesce, riso con carne, riso con verdure, ri­so con alghe, riso con questo e riso con quello, sempre riso, che è la base di tutta 1'alimentazione giapponese, come per noi è la pasta.

- E non ti scocci del riso, Taro?

- Si, mi piacciono più gli spaghetti e la pizza, - confessò, ma subito aggiunse: - Non lo dica alla mamma, per favore. - Giuro.

Digerito il riso, arrivano altre due ore di scuola al pomeriggio. Un'ora di - indovinate? - giapponese, un' ora di scienze. Poi a casa.

- A casa? - mi guardò stupito Taro. - No, no, pri­ma di uscire dalla scuola dobbiamo naturalmente pu­lire. Scopiamo i pavimenti delle aule, mettiamo in or­dine i gabinetti, spolveriamo i banchi ...

- Aspetta un momento. Come sarebbe a dire «pu­liamo i gabinetti»? Gli scolari stessi puliscono la pro­pria scuola?

- Certo, - mi rispose T aro tornandomi a guardare come se fossi matto, - è ovvio, perché? Gli scolari nel suo paese non puliscono la scuola prima di uscire? - E già molto se non la sporcano, ma andiamo avanti.

Tra giapponese, matematica, riso e pulizie si fanno le 4 del pomeriggio.

Gli scolari si rituffano nel metrò, cambiano treno, camminano (nessuno va a prendere i figli in auto, non nel traffico congestionato di Tokyo) e tornano alle­gramente a scuola. Anzi, al doposcuola.

Alle 5 del pomeriggio comincia lo juku, il corso di ripetizioni integrative, a pagamento, al quale tutti i ge­nitori che possono, o che vogliono, mandano i figli. L'« obbiettivo» è prepararli fin da piccoli, fino dalle elementari, alla prova cruciale che deciderà della loro vita di adulti: 1'esame di ammissione alle università.

Tutti gli ordini e i gradi di scuole private, dalle ele­mentari fino all'università hanno esami di ammissione per entrarci. Quelle pubbliche, di Stato, no, e ci si entra per forza. Nessuno viene mai bocciato, tutti sono promossi e, se la cosa vi sembra una cuccagna, aspettate.

Poiché tutti sono promossi (a meno di gravi infra­zioni disciplinari che possono causare l'espulsione) i voti e i diplomi non contano nulla. Quello che conta è «dove» questi voti e questi diplomi sono stati presi, in quale scuola. Se la scuola è buona, famosa, severa, i voti e i diplomi conteranno per andare avanti ed esse­re accettati in altre buone scuole. Se la scuola è medio­cre, facile, di cattiva fama, anche i suoi diplomi e voti saranno considerati scadenti e si potrà entrare solo in altre scuole scadenti.

Ma neppure un «buon» diploma basta. Occorre comunque passare attraverso la porticina strettissima e crudele degli «esami di ammissione». Da noi, in Ita­lia, gli esami si fanno soprattutto per «uscire», alla fi­ne. In Giappone, gli esami si fanno per «entrare». E sono esami terribili, senza spazio per improvvisazioni o colpi di fortuna. Soprattutto gli ultimi, gli esami di ammissione alle grandi università, costringono i can­didati a rispondere per iscritto a centinaia e centinaia di domande concrete, fatti, date, formule, nozioni e i voti vengono dati contando il numero delle risposte corrette e di quelle sbagliate. Punto e basta. Chi sa di più passa. Chi sa di meno torna indietro.

I doposcuola - gli juku - non fanno altro che im­bottire la testa degli allievi, fino da quando hanno cin­que o sei anni, con altre nozioni, trapanandogli il cer­vello con sempre più informazioni. Ai più bravi, gli gli in­segnanti mettono una fascia bianca attorno alla fron­te, come simbolo di sacrificio, dedizione, vittoria, cc­me la fascia che portavano i kamikaze, i piloti degli ae­rei-suicida che cercavano di colpire le navi nemiche americane, precipitandovi sopra e uccidendosi.

Al primo cenno di esitazione, alla prima caduta dei voti, gli tolgono la fascia. A Taro fu tolta proprio pochi giorni prima che gli parlassi io. - Che è successo?­ gli chiesi. - Avevo perso un giorno di lezione, una do­menica, - mi rispose abbassando gli occhi neri dentro una faccia arrossata dalla vergogna, - perché ero an­dato a sciare con mio padre. Chi va a sciare non è un eroe e non merita la fascia del kamikaze, mi aveva detto il maestro.

Meglio uno sciatore vivo che un kamzkaze morto, .. secondo me, ma io sono italiano e Taro era disperato sul serio.

Il doposcuola di preparazione agli esami funziona sette giorni alla settimana, 365 giorni l'anno, ogni an­no. E dura quanto uno vuole.

Le mamme tenere di cuore vanno a prendere i loro figli alle 9 di sera, dopo quattro ore di ripetizioni, e li portano a casa per la cena, come fa la mamma di T aro.

Altre, le «dure», quelle che i bambini chiamano con terrore le kyozku mama, le «mamme-drago», gli portano un cestino con qualcosa da mangiare e li la­sciano sui banchi fino alle 11 e 30 di sera, quando an­che gli insegnanti finalmente si stancano e chiudono.

- lo sono fortunato, - mi spiegò T aro, - perché ogni sera torno a casa e posso guardare la televisione fra le 9 e le 9 e mezza, prima di rimettermi a fare i compiti. Però quando guardo la televisione ho un po' di rimorso ... -

Una sciata ogni tanto alla domenica e una mezz' ora di televisione al giorno. Questo Taro è un gran lazza­rone, no? Ma almeno non diventa pazzo. Altri, i figli delle «mamme-drago» rischiano la salute mentale, qualche volta la vita.

Ogni anno, quando si avvicina il momento degli esami di ammissione, quello che i ragazzi chiamano «l'inferno», qualcuno non ce la fa più e si toglie la vi­ta. Purtroppo, i suicidi degli scolari che si arrendono, o che hanno capito di non essere abbastanza bravi sono frequenti. Per fortuna, in Italia non è cosl, o io sa­rei già morto da molti anni.

Oppure, la grande disciplina, la pressione per far bene a tutti i costi, ogni tanto esplode come una cal­daia. Capita che classi intere, improvvisamente, ina­spettatamente, diano fuori di matto e si mettano a sfa­sciare, senza ragione apparente, le classi e le scuole che hanno fino a un momento prima amorevolmente pulito. I pediatri e gli psicologi dicono che la pressio­ne mentale, lo «stress» come si dice adesso, su questi bambini e ragazzi è assurda: - Vengono da me ragazzi di dieci o undici anni che soffrono di esaurimento ner­voso, di insonnia, addirittura di ulcera gastrica o di emorroidi - (le malattie che di solito colpiscono gli adulti sedentari e con molte preoccupazioni) mi rac­contò un pediatra.

La scuola è tutto, l'inizio e la fine di ogni pensiero e di ogni giornata, per chi vuole andare avanti nella vita giapponese. Quando le società giapponesi di ricerca demoscopica, quelle che fanno i sondaggi di opinione e chiedono alla gente che cosa pensa, domandano agli scolari dell'età di Taro, nove, dieci, undici anni, quali siano le colpe più tremende di cui si possa macchiare un ragazzo, le risposte sono sempre queste: primo: marinare la scuola. Secondo: disobbedire a un ordine dell'insegnante. Terzo: dire una bugia all'insegnante. Quarto: non fare i compiti.

Per chi non è giapponese è difficile capire il senso di responsabilità, la dedizione al dovere che impregna questa gente ammirevole e i suoi figli. Quando studia­no e quando si divertono.

La domenica, per esempio, in un bellissimo parco nel centro di Tokyo chiamato Harajuku, gruppi di ra­gazzi e di ragazze si ritrovano per suonare all'aperto, per ballare, per esibirsi. E una fiera della follia, con diecine e diecine di complessini «rock» che suonano tutti insieme e contemporaneamente all'aperto, arma­ti di chitarre, altoparlanti e generatori elettrici per ali­mentare i loro amplificatori spaccaorecchie. Fianco a fianco ci sono «punk» dai capelli tosati a punte come la Statua della Libertà e «metallari» coperti di catene e di borchie. Gruppetti con i capelli gialli, «skin­heads» con le teste rapate e ragazzine con minigonne e magliette coperte da scritte offensive, parolacce, im­magini oscene. Se non fosse perché sono tutti, incon­fondibilmente, giapponesi, questi apparenti «duri del rock» potrebbero essere inglesi, americani, tedeschi, italiani.

Ma ogni somiglianza, e ogni sospetto che quell'a­spetto truce nasconda cattive intenzioni, si dissolvono come nebbia al sole quando scende la sera e i ragazze e le ragazze di Harajuku tornano a casa.

Come a un segnale militare, i complessi comincia­no a smontare le loro fragorose attrezzature. Ripon­gono le chitarre e gli amplificatori nelle casse. Si tol­gono le parrucche gialle, arancioni, viola. Si puliscono la faccia con cura e con la stessa cura fanno pulizia nella zona di parco che avevano occupato, cartaccia dopo cartaccia, sacchetto dopo sacchetto. Quando se ne vanno, il parco di Harajuku, che è pubblico, dun­que appartiene a tutti ed è responsabilità di tutti, tor­na pulito come se un esercito di giardinieri e di nettur­bini lo avesse passato al pettine.

Le ragazze corrono nella più vicina stazione della metropolitana, si chiudono nei gabinetti ed estraggo­no dalle loro borse i vestiti. In pochi minuti sparisco­no le truccature «scandalose», scompaiono le mini­gonne vertiginose, le magliette e le felpe «offensive », le collane, le catene e la chincaglieria che portavano al collo e alle braccia. In una metamorfosi fulminea e im­pressionante, le spregiudicate, aggressive ragazze di Harajuku escono dai gabinetti sotterranei trasformate in educande, ragazze timide e tutte uguali, nelle gon­ne a piegoline, nelle camicette bianche coi colli alla marinaretta, nelle scarpe basse di vernice coi cal­zettoni bianchi. Vestite per tornare a casa.

A noi questa metamorfosi può sembrare ipocrisia, menzogna. Per loro, è un segno di rispetto per gli an­ziani, per i genitori, per la collettività che si sentirebbe offesa da quell'abbigliamento “punk”.

- Se mio padre e mia madre soffrono perché mi ve­sto da metallara, perché dovrei farli star male? - mi spiegò un giorno con grande semplicità Yukiko, una delle ragazze di Harajuku. - Che cosa ci guadagno, io, a farli soffrire per una maglietta? O a lasciare il parco pubblico sporco di cartacce?

Forse non sono poi cosi matti, questi giapponesi.


Documento 7    Gli anni della terza rivoluzione industriale. Leggi il testo e rispondi alle domande:  

L'industrializzazione: la più grande rivoluzione del nostro tempo. Poco più di 10000 anni fa una parte della popolazione del mondo imparò a coltivare la terra e a produrre cibo: fu la rivoluzione neolitica. Da allora l'agri­coltura rimase per millenni l'attività principale - se non l'unica - degli esseri umani.

La situazione cominciò a cambiare solo a partire da due secoli fa, quando ebbe inizio la rivoluzione industriale, la più grande rivoluzione del no­stro tempo. Alla debole energia degli uomini e degli animali, a quella del­l'acqua e del vento si sostituirono l'energia del carbone, del vapore, e poi del petrolio, dell'elettricità, dell'atomo. Fu un cambiamento radicale e irre­versibile. Nei paesi industrializzati uomini e donne ebbero a disposizione comodità impensabili in precedenza (illuminazione, riscaldamento, abita­zioni confortevoli, abiti a buon mercato, trasporti e comunicazioni rapidis­sime...); fame e fatica fisica furono molto ridotte; si diffuse l'istruzione; invenzioni e scoperte resero più lunga la vita umana.

La terza rivoluzione industriale: calano gli operai . In età industriale anche l'agricoltura si modernizzò. Nei campi grandi macchine agricole (mietitrici, trebbiatrici, trattori...) sostituirono il lavoro umano, nuove tecniche resero la terra più produttiva. Se in età preindustriale un contadino poteva produrre cibo per 2, al massimo per 3 persone, un suo discendente in età industriale poteva sfamarne fino a 60. Poiché le macchine riduce­vano il bisogno di manodopera, molti agricoltori abbandonarono i campi. Così, quanto più l'agricoltura progrediva, tanto più calava il numero di contadini.

Negli ultimi decenni del Novecento ciò che in passato era accaduto al­l'agricoltura si è ripetuto anche per l'industria. Come già sappiamo, con l'automazione e l'informatica l'economia è entrata in una nuova fase, la terza, della rivoluzione industriale. E quanto più una società si industria­lizza, tanto meno ha bisogno di manodopera, perché grazie all'automazione e all'uso di robot industriali le aziende riescono a produrre di più an­che riducendo il numero degli operai. Così il numero degli addetti all'in­dustria cominciò a diminuire.

La svolta degli anni Settanta. A questo calo però contribuirono anche al­tri fenomeni - negativi - che colpirono in quel tempo l'economia dei paesi industrializzati. La svolta ebbe inizio negli anni Settanta del Novecento, dopo un trentennio - i Trenta Gloriosi - di incessante ripresa economica.

Come già sappiamo i decenni 1970 e 1980 furono caratterizzati da due forti aumenti del prezzo del petrolio, imposti nel 1973 e nel 1980 dai paesi produttori. Per la grande importanza del petrolio nel funziona­mento di industrie e trasporti, il rincaro di questo prodotto spinse al rialzo anche quello di tutte le altre merci. Si produsse così un'ondata di inflazione che rese tutti un po' più poveri. I consumi diminuirono e con essi an­che la produzione industriale rallentò.

Le industrie reagiscono alla crisi.   Al periodo di crisi che seguì le indu­strie reagirono in modi diversi. Alcune furono costrette a fallire. Altre trasferirono parte delle lavorazioni industriali in paesi stranieri dove il costo del lavoro (cioè il salario degli operai) era più basso. Altre ancora introdussero nuove tecnologie, come l'utilizzo di robot comandati da computer. Un robot costa molto, ma lavora 2 o 3 volte di più di un dipendente in carne e ossa, non si stanca, non si ammala, non va in ferie, non fa scioperi: anche l'ope­raio meno pagato costa di più della macchina che lo sostituisce.

Tutto ciò determinò una rapida diminuzione dei posti di lavoro e molte industrie si svuotarono di operai, soprattutto nei settori di più antica indu­strializzazione, come il tessile o il siderurgico. Contemporaneamente si in­debolivano i potenti sindacati operai, la cui forza si basava proprio sulle forti concentrazioni di lavoratori nelle fabbriche.

Una disoccupazione elevata e di lungo periodo.  Di solito la disoccupazione tende a crescere in condizioni di crisi e a calare con la ripresa. Ma la disoccupazione che fece la sua comparsa negli anni Settanta non seguì questa regola e continuò a mantenersi elevata anche nelle fasi di crescita economica.

Anzi, negli ultimi decenni del Nove­cento la disoccupazione restò costante­mente più alta di quanto fosse prima del 1973 e molti dei posti di lavoro perduti non furono ricuperati mai più. Da cosa può derivare questo preoccupante fenomeno? Secondo gran parte degli economisti la disoccupazione dei paesi industriali avanzati è prodotta dalla trasformazione profonda che attraversa l'intero sistema economico in questo momento di passaggio dalla seconda alla terza rivoluzione industriale.

In termici economici questo tipo di disoccupazione che non scompare neppure in caso di ripresa si chiama disoccupazione strutturale. Le stati­stiche dicono che essa colpisce più duramente giovani, donne e operai poco qualificati.  

Cambia il mercato del lavoro.  Si chiama mercato del lavoro il rapporto fra la domanda (da parte del datore di lavoro) e l'offerta di lavoro (da parte del lavoratore). Se la domanda è alta, tutti (o quasi) troveranno lavoro. Ma se l'offerta supera di molto la domanda o non corrisponde alla domanda (se, ad esempio, c'è domanda di informatici e si offrono tranvieri) alcuni resteranno disoccupati. Oppure dovranno accontentarsi di lavori più scomodi o meno pagati, meno sicuri, di breve durata.

A partire dagli anni Settanta, mentre la disoccupazione si alza e il potere dei sindacati diminuisce, molti lavoratori si trovano appunto in quest'ulti­ma situazione.

Si comincia a sentir parlare di «mobilità» e di «flessibilità» del lavoro. «Mobilità» significa che un lavoratore può essere spostato da un settore di lavorazione a un altro o anche da un'azienda a un'altra distante territorialmente.

«Flessibilità» che il lavoratore deve essere disposto ad adattare il suo orario di lavoro alle esigenze dell'azienda. Non più, ad esempio, 40 ore settimanali dì lavoro per lutto l'anno, ma una media di 40 ore per settimana, con aumento o diminuzione del carico orario settimanale secondo le necessità aziendali.

Per gli imprenditori infatti è vantaggioso lasciar libera la manodopera se il lavoro scarseggia e poterne disporre quando ce n'è bisogno. Per i lavora­tori invece può esserlo molto meno, specialmente per quelli che nei periodi di forzato riposo non ricevono salario.

Dal lavoro garantito alle occupazioni precarie e a termine.  Cambiano le caratteristiche del posto di lavoro. Il «posto fisso» a tempo pieno, che ga­rantiva ai dipendenti la sicurezza del lavoro, la pensione, la previdenza, tende a diventare sempre più raro e limitato alle aziende pubbliche.

Si diffondono invece lavori a tempo parziale (part time), lavori occasionali, temporanei, lavori con contratto di formazione. In questi casi la sicurezza del posto di lavoro è scarsa e mancano a volte le coperture pensionistiche e previdenziali. Si assiste anche alla rapida crescita del lavoro sommerso o «lavoro nero», che sfugge ad ogni controllo e sfrutta - non solo nel Terzo mondo - manodopera femminile e minorile o manodopera immigrata, sottopagata e priva di tutti i diritti. Soprattutto nelle situazioni di lavoro sommerso vengono spesso trascurate le fondamentali precauzioni per la sicurezza sul lavoro (uso di caschi, di maschere, di imbragature...): anche da questo deriva l'inquietante aumento di infortuni sul lavoro.  

Si espandono i servizi, cioè il settore terziario. La contrazione di posti di lavoro nell'industria è accompagnata dall'espansione dei servizi. Il settore dei servizi, detto anche terziario (dopo quello agricolo e industriale che so­no chiamati rispettivamente primario e secondario) contiene al suo interno attività numerose e diversissime per retribuzione, prestigio sociale, livello di preparazione richiesta, in pratica tutte quelle che non fanno parte dell'agricoltura e dell'industria. Lavorano nel terziario, ad esempio, commercianti e camionisti, medici e postini, benzinai e insegnanti, assicuratori, bancari, scienziati, cantanti, calciatori, addetti al centralino, animatori in villaggi turistici, personale dei grandi magazzini... il gruppo emergente è costituito da coloro che creano e gestisco­no la conoscenza - in America li chiamano knowledge workers ,gli uomi­ni e le donne le cui idee alimentano la società informatica.

Tuttavia proprio la rivoluzione dell'informatica minaccia di far scom­parire posti di lavoro anche nel settore dei servizi (ad esempio, nelle banche, nelle assicurazioni, nelle telecomunicazioni. ..) e dagli anni No­vanta molti lavoratori del terziario non sono più così sicuri del loro lavo­ro e del loro futuro.

Fordismo e Toyotismo. Il fordismo fu introdotto nel 1914 da H. Ford nella sua industria au­tomobilistica di Detroit.

Ford ebbe l'idea di portare automaticamente davanti agli operai i pezzi di automobile da montare, allo scopo di risparmiare movimenti su­perflui e di guadagnare tempo prezioso: era la prima catena di montaggio.

Dalla catena di montaggio le automobili uscivano in milioni di esemplari perfettamente identici fra loro (produzione in serie) avevano prezzi accessibili ed erano destinate al mercato di massa. Alla catena di montaggio gli operai, isolati uno dall'altro, eseguivano un lavoro monotono e ripetitivo, ma ricevevano un buon salario. I sindacati erano potenti e difendevano gli interessi dei lavoratori.

Negli anni Settanta e Ottanta l'arresto della crescita e la rivoluzione informatica spinsero le industrie a rinnovarsi, introducendo nuovi metodi di lavoro. Uno di questi fu il toyotismo sperimentato per la prima vol­ta negli anni Cinquanta da una azien­da automobilistica giapponese, la Toyota (da cui il nome).

I dipendenti della fabbrica giapponese sono tutti forniti di un alto livello di istruzione. Essi non si limitano ad eseguire monotonamente azioni meccaniche, ma vengono sollecitati a prender parte alla progettazione e a fare proposte per migliorare la lavorazione.

La manodopera non è isolata, ma lavora a piccole squadre, dette gruppi di qualità, che sono responsabili di tutto il ciclo di lavorazione, dalla regolazione delle macchine al controllo della qualità. All'interno dei gruppi ciascuno collabora con gli altri in base alle proprie conoscenze e alla propria esperienza. Le scorte di magazzino sono ri­dotte al minimo per non tener bloccati dei capitali.

La produzione avviene su ordinazione e all'ultimo momento (just in time).  Macchine modernissime permettono di adeguarla ai bisogni e ai capricci del mercato.  

 

indicatori

Fordismo

Toyotismo

Azienda in cui fu applicato per la prima rivolta

 

 

È simbolo di quale rivoluzione industriale?

 

 

Tipo di produzione e caratteristiche dei prodotti finiti

 

 

 

 

Organizzazione del lavoro

 

 

 

 

Tipo di forza lavoro e di abilità richieste

 

 

 

 

 

New economy. La nuova economia è l'aspetto più appariscente della terza rivoluzione industriale basata sul computer. Essa produce di preferenza beni «immateriali», privi di peso e di fisicità, come i software informatici o vari tipi di servizi per il pubblico. Via Inter­net, ad esempio, si possono trovare informazioni di ogni tipo, consultare archivi e biblioteche, prenotare alberghi e biglietti d'aereo, cercare un po­sto di lavoro, acquistare libri, dischi, videocassette, eseguire operazioni bancarie, pagare tasse...: il tutto a prezzi più convenienti che per altre vie.

Nella new economy la componente più importante è il contributo di intelligenza e di sapere umano speso in progettazione e ricerca; è, come di­cono gli Americani, l'energia della mente (in inglese, brainpower).

Per questo i paesi che puntano sulla nuova economia devono anzitutto investire sul sistema scolastico, sull'istruzione dei giovani: senza una buona scuola non si può costruire la società del sapere informatico.  


Documento 8    Confronto tra le tre rivoluzioni industriali

Indicatori

Prima rivoluzione

Seconda rivoluzione

Terza rivoluzione

Decollo temporale

 

 

 

Stato guida

 

 

 

Fonti energetiche e materie prime

 

 

 

 

Materiali

 

 

 

 

 

 

Settori trainanti

 

 

 

 

 

 

macchine

 

 

 

 

trasporti

 

 

 

 

Attivita prevalente

 

 

 

 

Tipologia prevalente beni prodotti

 

 

 

 

Organizzazione del lavoro

 

 

 

 

 


Documento 9   Il lavoratore del 2000. Leggi il testo e completa la mappa concettuale prelevando le informazioni adeguate

Quali caratteristiche saranno quindi ri­chieste al lavoratore negli anni a venire? Alcune di esse sono già oggi indispensabili: professionalità (cioè buona preparazione culturale di base, conoscenze e capacità specifiche), intraprendenza, senso di responsabilità, creatività. Viene anche richiesto di saper lavorare in gruppo, collaborando con soggetti diversi (centri studi, università, altre aziende o semplicemente con i colleghi che perseguono gli stessi fini produttivi), prendendo decisioni con gli altri e assumendosi responsabilità individuali e collettive. A questo tipo di requisiti se ne aggiungono altri determinati dai cambia­menti nei metodi di lavoro, dal continuo mutare delle conoscenze e dei prodotti, dalle dinamiche aziendali, dalla internazionalizzazione della produzione e dei mercati. Iniziamo da quest'ultimo aspetto.

Il processo di unificazione dell'Europa è ormai in fase avanzata: sono state abolite le dogane e le merci circolano liberamente, i cittadini possono circolare senza restrizioni tra gli Stati membri, presto avremo una moneta unica, l'Euro. Le imprese italiane sono sempre più impegnate a collaborare con quelle del resto d'Europa, ma anche a far loro una spietata concorrenza. A sua volta il sistema produttivo europeo compete e collabora con quello americano e quello asiatico. Prodotti italiani possono essere costruiti con macchinari americani, contenere parti fabbricate in Asia ed essere venduti in Europa o in altri continenti. Analogamente prodotti di imprese americane possono essere fabbricati in Asia e consumati in Italia (pensa alle tue scarpe da ginnastica!). Tutto ciò produce la necessità di instaurare continui rapporti fra metodi di lavoro differenti lingue e culture diverse.

Ecco allora che, a coloro che desiderano inserirsi in questo sistema produttivo “mon­dializzato”, viene richiesta la conoscenza di almeno una lingua straniera, la capacita di comprendere e adattarsi a modalità  produttive diverse dal/a propria, la disponibilità a capire e confrontarsi con culture diverse, soprattutto se il tipo di lavoro richiede di soggiornare o addirittura di risiedere all'estero.

In quest'ultimo caso viene richiesto al lavoratore anche un altro tipo di caratteristica, quella di essere disponibile a spostarsi dal luogo in cui vive o del quale è originario per lavorare altrove; gli si chiede di accetta­re una certa mobilità. Ciò accade non solo per i motivi già accennati, ma anche a causa di ristrutturazioni aziendali dovute a in­novazione tecnologica o in seguito all'apertura di uffici e filiali in nuove aree.

Sempre a proposito di mobilità, occorre ri­cordare che recentemente sono stati stipulati accordi tra governo, organizzazioni sindacali e imprenditoriali, che prevedono una nuova forma di occupazione, il lavoro interinale: i lavoratori non sono più assunti dalle aziende. ma da agenzie per il lavoro, le quali “affittano" le prestazioni del lavoratore a questa o quell'azienda in un luogo o in un altro, per il tempo necessario a svolgere un determinato lavoro.

Spesso, nel caso di innovazione tecnologica, al lavoratore viene richiesto di riqualificarsi, cioè di imparare a svolgere mansioni diverse da quelle esercitate fino a quel momento. Questo accade anche quando un'azienda modifica il tipo di prodotti per adattarsi alle richieste del mercato o per partecipare a nuove produzioni. oppure quando cessa l’attività e viene assorbita da una concorrente o all'interno di un gruppo produttivo. Al lavoratore si chiede di saper cambiare, di aggiornarsi, di adattarsi alla nuova realtà, si richiede flessibilità.

Preparazione culturale. professionalità, affidabilità. capacità di lavorare in gruppo, visione internazionale del lavoro. mobilità, flessibilità sono le caratteristiche richieste al lavoratore del 2000. Sarà sufficiente rispondere a questi requisiti per trovare lavoro? Certamente. chi possiederà, tutte o in buona parte queste qualità sarà avvantaggiato rispetto agli altri. Purtroppo, però, non tutti troveranno in fretta un lavoro, molti non troveranno l’impiego preferito, e qualcuno potrebbe dover aspettare a lungo un'occupazione.  


Documento 10    Lavoro minorile oggi: facciamo il punto! Svolgi la traccia proposta scrivendo un testo espositivo (presentazione del problema, descrizione dei suoi aspetti, storia di alcuni esempi, ipotesi sulle cause, la normativa in proposito, che cosa si può fare, ecc. ecc.). Per scrivere il testo saccheggia liberamente - ma in modo intelligente e logico - le informazioni dei documenti sottostanti, e le altre che hai appreso dalla lezione dell’insegnante.

 

Palloni da calcio. I palloni da calcio dei mondiali di Francia alla fine degli anni ’90 scandalizzarono gli sportivi di tutto il mondo perché erano cuciti a mano da migliaia di bambini.  

Diritti dei bambini. Dall’Art. 32 della Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Bambino. “… il diritto del bambino a essere protetto dallo sfruttamento economico e dallo svolgimento di qualsiasi lavoro rischioso, che interferisca con la sua educazione, che sia dannoso per la sua salute e per il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale o sociale”.  

La multinazionale delle scarpe. Secondo la rete televisiva americana CBS una nota ditta di scarpe recluta in Vietnam ragazzi giovanissimi pagandoli 20 centesimi di dollaro all’ora, e ha offerto ad un famoso giocatore di basket 20 milioni di dollari per fare pubblicità: una somma superiore al totale dei salari pagati in un anno a tutte le giovanissime operaie indocinesi, spesso bambine, che lavorano per il corrispondente di 3 euro la settimana.  

Le cifre dello sfruttamento. Dalle stime dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro). 180 milioni i bambini che lavorano in condizioni estremamente pericolose e dannose per la salute … 8,4 milioni i bambini vittime della schiavitù, della prostituzione, della pornografia e di altre attività illecite.  

Child labour e child work. Secondo l’OIL il primo dovrebbe indicare tutte le attività lavorative svolte da bambini all’esterno della propria famiglia in qualità di dipendenti e con tempi e ritmi tali da impedire la frequenza scolastica, quindi a tempo pieno con gravi rischi per la salute mentale e fisica. Spesso in condizioni di sistematica violazione dei diritti umani fino a vere e proprie forme di schiavitù.

Il child work dovrebbe indicare invece tutte le forme di lavoro che non violano i diritti dei bambini e delle bambine e non ostacolano la frequenza scolastica.  

Localizzazione del lavoro minorile. Asia 61%, Africa 32 %, America latina 7%.  

Globalizzazione e  lavoro minorile. Il lavoro minorile non è un fenomeno episodico e occasionale del sistema economico mondiale, bensì un dato strutturale se non addirittura un pilastro per alcuni settori produttivi… La povertà, l’aumento del debito internazionale, i salari bassi, l’aumento delle famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà assoluta, la disoccupazione degli adulti, le scelte dei datori di lavoro per aumentare i profitti,, le scelte spregiudicate delle multinazionali nella delocalizzazione delle produzioni sono tutti elementi che favoriscono lo sfruttamento dei bambini … Secondo una stima il 5% dei bambini al di sotto dei 15 anni lavora per le multinazionali.  

Alle origini dello sfruttamento. La prima e fondamentale causa del lavoro minorile, a tutte le latitudini, è la povertà. Spesso all’origine della storia di un bambino schiavo c’è la morte o la malattia di un genitore, la necessità di pagare i debiti e di provvedere ai nuovi fratellini. I pochi soldi guadagnati fanno la differenza tra la fame e la sopravvivenza.  

Adulti e bambini. Per ogni bambino sfruttato c’è sempre un adulto che sfrutta, approfitta e finge di non vedere. I bambini più “fortunati” lavorano a tempo parziale, dopo la scuola, insieme ai propri fratelli e vengono sottopagati “in nero” illegalmente.  

Commercio equo e solidale. E’ una forma originale di lotta alla povertà basata sul commercio …. L’obiettivo è di arrivare al riconoscimento di un marchio a garanzia del lavoro dignitoso alla base del prodotto venduto e di incentivare i consumi di quei prodotti “made in dignità”, per i quali in altre parole si può certificare che sono il risultato di un lavoro (anche infantile) che rispetta però i diritti.  

Messico: le scarpe (da Stranieri come noi, di Vittorio Zucconi)  

E da noi? Ragazzini sul mercato a un euro l’ora. Per trovarli non serve andare nelle miniere  di sale dell’Africa. Basta cercare nei cantieri edili del pianeta Italia dove lavorano per lo più stranieri, molti dei quali non in regola. (da Oggi sfruttati domani espulsi di Paolo Rumiz, giornalista del Corriere della Sera)  

Da un discorso di Kofi Annan, Segretario generale delle Nazioni Unite: “Se vogliamo migliorare la vita dei bambini, delle loro famiglie e della loro comunità, l’imperativo è categorico: dobbiamo mettere gli interessi dei bambini al centro di ogni decisione politica ed economica e al centro del nostro comportamento e delle nostre attività di ogni giorno”  

Esempi di lavoro infantile e schiavitù nel mondo. Bambini indiani e nepalesi, rapiti o comprati ai genitori, che lavorano alla tessitura dei tappeti, che a quattro anni respirano fumi tossici per fabbricare braccialetti in vetro … Bambine tailandesi o brasiliane, costrette a prostituirsi per i turisti occidentali … I bambini egiziani che lavorano alla raccolta di fiori di gelsomino sul delta del Nilo: si alzano all’una di notte, d’estate, per raccogliere i fiori quando l’umidità mantiene intatta la loro essenza … I bambini messicani che lavorano come clandestini in California, per aiutare i genitori braccianti agricoli nella raccolta di aglio, per conto dei proprietari americani.  

Schiavitù classica e schiavitù contemporanea. Il valore commerciale dello schiavo nero americano delle piantagioni di cotone o tabacco era alto; lo schiavo era un investimento costoso che andava protetto, se non altro per interesse. Lo schiavo attuale ha valore zero, vista l’abbondanza della merce e può quindi essere sfruttato e gettato via, come un qualsiasi oggetto, quando “si rompe” o non serve più.  

Barriere doganali? “Non si possono accettare barriere doganali che fermino i paesi in via di sviluppo, e allo stesso tempo non possiamo accettare che questi paesi producano merci che incorporano il valore dell’ingiustizia”. (Risoluzione approvata da un gruppo di parlamentari italiani appartenenti a schieramenti politici differenti.)  

Una storia ancora da raccontare. “… Vengo a sapere dai telegiornali d’una nave che vaga come un vascello fantasma lungo le coste del Golfo di Guinea. Pare sia una nave negriera, carica di bambini. Quando finalmente la nave approda, a bordo dei bambini non c’è nessuna traccia. Sarà stato un abbaglio, un’invenzione dei giornali.? A molti il dubbio che quei bambini fossero davvero su quella nave è rimasto, insieme a una domanda: in quale fossa dell’Oceano indiano si trovano adesso?” (Francesco D’Adamo, dalla Postfazione a Storia di Iqbal, Salani Narrativa)


Documento 11    Siamo tutti cacciatori? (Zygmunt Bauman, Modus vivendi, Inferno e utopia del mondo liquido, Laterza Bari 2007, pp. 112-114)

Si può dire che, se l'atteggiamento premoderno nei confronti del mondo era simile a quello di un guardacaccia, la metafora più adatta per esprimere la concezione e la pratica del mondo dell'era moderna è quella del giardiniere.

Il compito principale del guardacaccia è di difendere il ­territorio assegnato alla sua vigilanza contro ogni interferenza umana, allo scopo di difendere e preservare, per così dire il suo «equilibrio naturale», incarnazione dell'infinita saggezza di Dio o della Natura. Compito del guardacaccia è di scoprire prontamente e neutralizzare le trappole piazzate dai bracconieri e impedire l'accesso a cacciatori estranei, non autorizzati, in modo da non mettere a repentaglio la perpetuazione di quell' «equilibrio naturale». I servizi del guardacaccia si basano sulla convinzione che le cose stanno meglio se non ci si mettono le mani; in epoca premoderna la convinzione di fondo era che il mondo fosse una catena divina dell'essere, in cui ogni creatura aveva il suo giusto posto e la sua funzione, anche se le capacità mentali umane erano troppo limi­tate per comprendere la saggezza, 1'armonia e 1'ordine del di­segno di Dio.

Non la pensa così il giardiniere; egli presuppone che nel mondo (o almeno in quella piccola parte del mondo affidato al­le sue cure) non ci sarebbe alcun ordine se non fosse per la sua attenzione e i suoi sforzi costanti. Il giardiniere sa quali tipi di piante devono crescere e quali no nel terreno affidato alle sue cure. Dapprima elabora nella sua testa la disposizione miglio­re, e poi provvede a trasformare questa immagine in realtà. Im­pone al terreno il suo progetto precostituito, incoraggiando la crescita dei tipi di piante giusti (per lo più, piante da lui stesso seminate o piantate) ed estirpando e distruggendo tutte le al­tre, adesso ribattezzate «erbacce», la cui presenza non richiesta e non desiderata, non desiderata perché non richiesta, non si accorda con l'armonia generale del disegno.

Sono i giardinieri i più appassionati ed esperti (si sarebbe tentati di dire professionali) fabbricanti di utopie. È all'immagine dell'armonia ideale del giardiniere, concepita inizialmente come modello nella sua mente, che «approda di continuo» il giardino, un prototipo di come l'umanità, per richiamare il postulato di Oscar Wilde, tenderebbe ad approdare sempre nel paese chiamato «utopia».

Se oggi i dibattiti contemporanei sono infarciti di espressioni come «la morte dell'utopia», o «la fine dell'utopia», op­pure «1'esaurimento dell'immaginario utopistico», tanto da mettere radici nel senso comune ed essere considerate verità ovvie ed evidenti, è perché ormai 1'atteggiamento del giardiniere sta cedendo il passo all' approccio del cacciatore.

Diversamente dalle due figure simboliche che l'hanno preceduto, il cacciatore non è mimimamente interessato al­l' «equilibrio generale delle cose», sia esso «naturale» oppure progettato e meditato. L'unico compito che i cacciatori per­seguono è «uccidere» e continuare a farlo, finché i loro carnieri non sono colmi fino all'orlo. Sicuramente non ritengono loro dovere garantire che la disponibilità di selvaggina nel­a foresta possa ricostituirsi dopo (e malgrado) la loro caccia. Se i boschi sono rimasti senza selvaggina a seguito di una scorribanda particolarmente proficua, i cacciatori possono spostarsi in un'altra zona relativamente intatta, ancora pullu1ante di potenziali trofei di caccia. Può darsi che a un certo punto, in un futuro lontano e ancora indefinito, il pianeta rimanga a corto di boschi ancora ricchi di selvaggina; ma se così sarà, loro non lo vedono comunque come un problema immediato (e certamente non come un loro problema). Una prospettiva così remota, dopo tutto, non mette a repentaglio i risultati della caccia in corso, o della prossima, e perciò non obbliga in alcun modo me, singolo cacciatore fra tanti, o noi, singola associazione di cacciatori fra tante, a ragionar ci su e tanto meno a fare qualcosa in proposito.

Adesso siamo tutti cacciatori, o così ci dicono, e siamo chiamati o costretti ad agire da cacciatori, pena l'esclusione dalla caccia, o addirittura (Dio ne scampi!) la retrocessione a selvaggina. E ogni volta che ci guardiamo attorno, vedremo probabilmente altri cacciatori solitari come noi, oppure cacciatori che cacciano in gruppo, come ogni tanto anche noi cerchiamo di fare. E dovremo impegnarci molto prima di scorgere un giardiniere intento a vagheggiare, dietro la staccionata del suo giardino privato, una qualche armonia già progettata, e poi uscire per trasformarla in realtà (questa relativa penuria di giardinieri e la crescente abbondanza di cacciatori è quello di cui parlano gli studiosi di scienze sociali indicandolo col dotto termine di «individualizzazione»). Sicuramente non incontreremo molti guardacaccia, e neppure cacciatori con i rudimenti della concezione del mondo di un guardacaccia: e questa è la principale ragione per cui le persone con una «coscienza ecologica» sono allarmate e fanno del loro meglio per mettere in guardia il resto di noi (questa lenta ma costante estinzione della filosofia «del guardacaccia» insieme al declino della sua variante, la filosofia «del giardiniere», è ciò che gli uomini politici esaltano sotto il no­me di deregulation).

 


Documento 12    Il cacciatore a pancia vuota (da V. Zucconi, Messico: Zapatos in Stranieri come noi, Einaudi scuola)

-Zapatos! -Scarpe! -Zapatos ... zapatos ... zapatos, ­ripeteva la bambina messicana con il dito e gli occhi puntati sulle mie scarpe. Non erano niente di speciale, quelle mie scarpe, un paio di stivaletti bassi di pelle con la suola grossa di gomma, come si usano per camminare nella polvere e nel fango.

Anzi, ora che me le faceva guardare, mi accorgevo di quanto fossero sporche, impolverate e macchiate, quelle scarpe, e pensai che me le sarei dovute pulire e spazzolare per bene rientrando in albergo. Ma delle mie piccole vergogne, alla bambina messicana non importava nulla. A lei interessava soltanto il fatto che quelle fossero scarpe. Scarpe come non aveva mai vi­sto prima. Scarpe come non avrebbe forse visto mai piti nella sua vita tra la spazzatura.

La bambina era spuntata all'improvviso da un mucchio di bottiglie rotte alto come una casa di due piani, dietro un piccolo somaro talmente spelacchiato ed esausto che la povera bestia non aveva nemmeno più la forza e la voglia di annusare. Stava a mala pena diritto, e immobile, come se volesse risparmiare quel­le poche energie che ancora gli rimanevano.

La bambina mi aveva sorpreso alle spalle, facendo­mi sobbalzare con la sua vocina acuta: «zapatos! ».

Non ho idea di quanti anni avesse. La miseria, la denutrizione, la fame stravolgono i ritmi normali di sviluppo di un essere umano, peso, statura, muscoli, ossa, e lei poteva avere cinque anni o dieci, sei o dodici. Era molto piccola, molto sporca, magra e fragile come una pianticella che sta morendo e due gambette scheletriche le uscivano dalla sottanina per finire nei piedi nudi e anneriti da anni di sporcizia. Piedi, appunto, senza zapatos, senza scarpe.

- Come ti chiami? - le domandai, non sapendo davvero che altro dire. - Ida, - mi rispose sorridendo orgogliosa. - Questo è il tuo somaro? - S1. - Dove abiti? - chiesi, pentendomi subito della domanda della quale già sapevo la risposta. - A qui, - disse infatti, qui, indicando con il braccino il mare di immondizia che si stendeva attorno a noi, a perdita d'occhio.

«Qui» era la più grande estensione di spazzatura che avessi mai veduto. Come altri bambini, come migliaia di adulti precipitati al fondo della società, Ida viveva - se quella si poteva chiamare vita - nella Ciudad de la Basura, la Città della Spazzatura alla periferia della capitale messicana, Città del Messico.

Tutti noi abbiamo visto qualche volta montagnole di spazzatura, discariche di rifiuti, cataste di immondizia abbandonata in attesa che un giorno qualcuno si decida a mandare un camion a portata via. Ma nessuno che non abbia visto la Città dell'Immondizia può immaginarne la grandezza e 1'orrore.

La Ciudad de la Basura non è, naturalmente, una vera città. La chiamano cosi i messicani, con disperato umorismo, perché essa è tanto grande e tanto popolata da sembrare ormai davvero un città. Si estende per chilometri, fra spazzatura di ogni genere, cibo andato a male, cocci, bidoni, cartacce, lattine, stracci, cartoni, carcasse di automobili e di animali, tazze del gabinetto e sanitari sbrecciati, in un panorama agghiacciante di tutto quello che una grande città produce, consuma e getta via.

Ogni giorno, 1500 camion arrivano a scaricare nuova immondizia fresca di giornata, che va ad aggiungersi alla vecchia e che nessuno porta via. Sotto il sole violento del Messico, la spazzatura marcisce lenta­mente e s'imputridisce, sprigionando un fetore di fogna, di morte, di carogna, che non si può neppure cominciare a descrivere. Se l'inferno avesse un odore, puzzerebbe come la Città della Spazzatura, ma forse questo è già l'inferno. Si resiste per pochi minuti, cercando di respirare il meno possibile coi denti stretti come per filtrare l'aria, di centellinare le boccate d'a­ria come se quel puzzo potesse mangiarti i polmoni, e presto o tardi lo stomaco si ribella. Il fotografo che mi accompagnava cominciò a vomitare subito. lo resi­stetti qualche minuto in più. Non molti.

 «Zapatos», insisteva la bambina additandomi le scarpe che non mi erano sembrate nulla dl speciale alla mattina, uscendo dall' albergo e che ora comincia­vano a sembrare, anche a me, bellissime. Perché quel­le scarpe e la loro robusta, spessa suola di gomma, era­no tutto quello che separava il mio corpo dalla superficie della putredine infetta sulla quale camminavo.

Erano come la zattera che tiene a galla il naufrago sul mare, come l'ala che tiene in volo un aereo. Erano, improvvisamente, il bene piti prezioso che un uomo potesse possedere in quell'inferno. Molto più prezioso dell' orologio di marca che portavo al polso, o della catenina d'oro che portavo al collo, o del costosissimo registratore tascabile che tenevo nella borsa.

Non importava nulla, in quel mondo di spazzatura, che l'orologio da polso costasse venti volte il prezzo delle scarpe. Il valore delle cose, che per noi fortunati e viziati figli del mondo sviluppato si misura in soldi, cambia jmmediatamente quando le circostanze cambiano. E più preziosa una borraccia d'acqua e una collana di diamanti, se si cammina nel deserto? E meglio avere un paio di scarpe ai piedi o un orologio d'oro massiccio al polso, se sotto i tacchi ribolle e fermenta l'immondizia di una città?

«Zaapatos», mormorava Ida, mentre il somaro muoveva lentamente la coda nel tentativo impossibile di allontanare dai suoi fianchi gonfi e malati milioni di mosche, fameliche quanto lui. Come altri bambini e adulti che vedevo attorno a noi, non soltanto Ida vive­va tra le montagne di rifiuti, accampata sotto baracche costruite con lamiere arrugginite e sacchetti di plastica legati insieme. In quella città della putrefazio­ne, Ida e gli altri «lavoravano ».

Tutto il giorno, sotto il sole di Città del Messico ve­lato dai fumi e dall' inquinamento che si sprigionano dalla città e restano intrappolati nel catino delle mon­tagne e dei vulcani che la circondano, questi dannati dell'immondizia frugano a mani e piedi nudi fra i ri­fiuti. Cercano qualcosa da mangiare, qualche rottame da recuperare e da vendere ai rigattieri che la sera arri­vano con i loro camioncini e carretti per comprare.

I più fortunati - e Ida era una di quelle fortunate-­ avevano un somarello per aiutarli a trasportare i pezzi più grossi, le carcasse di un elettrodomestico, i sanita­ri ancora utilizzabili, che qualche persona ricca aveva buttato via magari perché non gli piaceva più il colo­re o la forma, e qualche povero avrebbe volentieri ricomprato.

Un somaro permette di collezionare piti rifiuti e quindi di guadagnare un po' più di pesos, la moneta messicana. Anche se il somaro di Ida aveva Paria di una bestia che, a mettergli un foglio di carta sulla schiena, si sarebbe spezzato in due.

E tu quanto guadagni? - chiesi a Ida. Mi disse una cifra, una somma di danaro che non sarebbe bastata a comperare neppure i bei laccetti di cuoio che mi chiudevano gli zapatos ai piedi.

- In un giorno? - insistetti, temendo di sapere già la risposta. Ida rise, mettendosi le manine sudice sopra la bocca per coprire i pochi denti superstiti marroni e neri che le restavano appollaiati sulle gengive, in un gesto commovente di pudore, o di civetteria, verso un uomo straniero. - No, no, in molti giorni. -

- Quanti giorni? - Si strinse nelle spallucce: molti.

Una settimana, un mese, un anno. Il tempo non ha senso in una vita fatta di giorni tutti uguali, tutti consumati nella Città della Spazzatura.

Qualcuno di questi bambini va a scuola, uno o due anni, prima di tornare a frugare nelle immondizie. I loro genitori muoiono giovani, stroncati dalla fatica e dalla vita. I fratelli più grandi si curano dei più piccoli, quando possono, ma ciascuno è abbandonato a se stesso, spazzatura fra la spazzatura.

Il governo messicano manda assistenti sociali, cerca di strappare quante più creature può - grandi o piccole - all'inferno della basura, della spazzatura, ma ci sono sempre più poveri che soldi, sempre più bambini come Ida che case disposte a ospitarli. Nelle nazioni del Terzo Mondo, come si dice quasi che le nazioni potessero essere messe in classifica, prima, seconda e terza, ci sono sempre più bocche che soldi, sempre più piedi che scarpe. Per questo restano nazioni povere.

Per bonificare la città dei rifiuti occorrerebbe costruire enormi inceneritori, riciclare milioni di tonnellate di spazzatura, spendere milioni di miliardi che il governo non ha e non avrà mai. L'inferno riproduce se stesso, sempre più grande, sempre più profondo, sempre più popolato. E non vedo vecchi e vecchie a rovistare, perché nessuno diventa vecchio, qui. I più fortunati muoiono prima di arrivare a trent'anni.

Ammesso che siano fortunati, quelli che vivono più a lungo, qui.

- Zapatos, - insisteva Ida, asfissiante e per un atti­mo ebbi la tentazione di spingerla via, di allontarla da me come il somaro faceva con le mosche.

Mi venne addosso una rabbia inspiegabile, contro quella bambina che mi tormentava con la sua insistenza, con la sua ossessione per le mie scarpe, con la sua esistenza. La miseria, come la malattia, fa paura. Ida non mi arrivava all' altezza della vita, ma mi faceva paura.

«Torna nella tua immondizia, piccola scocciatrice», avrei voluto dirle. «Portati via quel somaro osceno e gonfio e moribondo. Vai da tua madre e da tuo padre, se ce li hai, e lascia in pace me e i miei maledetti zapatos», mi suggeriva una voce dentro. «Che colpa ho io, se tu sei nata fra la spazzatura e sei condannata a essere, tu stessa, per sempre spazzatura? Perché tormenti proprio me, che vivo lontano, che non ti ho mai vista prima di adesso, che non ti ho mai fatto male? ».

- Zapatos. «E dai.»

Lo sapevo, 1'avevo capito da un pezzo, che Ida face­va la corte alle mie scarpe. Non mi sarebbe costato molto dargliele. lo avevo tante scarpe nella mia valigia in albergo e nel mio armadio a casa (<< già, è vero », pensai, «io ho una casa»). Non era un problema di soldi o di valore delle scarpe. Il problema che mi angustiava era sapere che, se me le fossi sfilate, poi avrei dovuto attraversare a piedi nudi, soltanto con le mie calzette di cotone a proteggermi, tutta la distesa infetta della spazzatura. E se dopo mi fossi ammalato? E se mi fossi tagliato i piedi, fra quei cocci di vetro, fra quelle lattine appuntite, e mi fosse venuta un'infezione?

Un paio di scarpe in più o in meno - cercai di con­vincermi - non facevano comunque nessuna differenza per Ida, che sarebbe rimasta una disgraziata con o senza le mie scarpe.

E poi erano troppo grandi per lei. Nella mia taglia 42 i suoi piedini rattrappiti ci avrebbero nuotato.

E poi qualcuno gliele avrebbe rubate subito, ne ero Sicuro.

E poi lei stessa sarebbe andata a venderle immediatamente, da un rigattiere avaro che l'avrebbe imbrogliata, dandole due soldi per le mie belle scarpe con la suola di gomma e i laccetti di pelle, e cosi io avrei fatto del bene a un rigattiere anziché alla piccola Ida ... E poi, e poi.

- Zapatos. - Oh, come sono noiosi i poveri, come sono insistenti e invadenti e maleducati. - Zapatos, zapatos, zapatos..., - «e va bene, maledizione a te, prenditi queste scarpe».

Mi sfilai gli zapatos. Glieli passai, Ida non mi disse neanche grazie. Se li tenne stretti per un momento come se fossero una bambola e poi corse via verso un altro gruppo di bambini e di adulti curvi sopra le montagnole di spazzatura gridando ancora «zapatos... zapatos ... zapatos». Persino il somaro si scosse dalla sua immobilità cadaverica e mosse la sua spelacchiata carcassa per seguire Ida.

Lei era già lontana, che correva reggendo le mie scarpe. La vidi inciampare, cadere a faccia in avanti nella spazzatura e rialzarsi ridendo, come un bambino che gioca sulla spiaggia. Mi sentii molto buono, molto generoso. E non avevo fatto nulla, non avevo cambiato nulla. Nulla. Ida sarebbe rimasta Ida, io sarei tornato nella mia bella casa lontana, piena di belle scarpe.

Camminai con i piedi rattrappiti dallo schifo, sopra i rifiuti disgustosi, cercando di evitare i cocci di vetro e di posarli laddove anni di sole e di vento avevano indurito la spazzatura.

Era quasi sera, e una bava di venticello che scende­va dalla montagne attorno a Città del Messico alzava refoli di polvere e di puzza. Il fotografo tentava ancora di vomitare, ma ormai aveva lo stomaco vuoto. lo ero troppo preoccupato dei miei piedi nudi per avvertire i conati.

Quando tornammo finalmente in albergo, un bel­l'albergo di lusso con la piscina e un muro altissimo tutto intorno perché gli ospiti non fossero disturbati dalla vista di altri miserabili come Ida mentre faceva­no il bagno, il portiere e i camerieri ci guardarono con il naso storto e tutti nell' atrio mi sembrava fissassero i miei piedi senza scarpe. Una nube di puzza ci circondava ancora.

Corsi in camera, mi spogliai tutto furiosamente, mi misi a mollo nella vasca da bagno e poi feci una doccia e poi ancora un bagno, per lavare via l'odore e il ricor­do della Città della Spazzatura.

Con la punta delle dita, come si prende la carogna di un sorcio, raccolsi i vestiti, li infilai in un sacchetto di plastica per la lavanderia e scesi nell'atrio del­l'hotel, non per farli lavare, ma per gettarli nel bidone della spazzatura. Nella notte, sarebbe passato il ca­mion della nettezza urbana per portarli via. Per scari­carli nella Città della Spazzatura.

Erano vestiti ancora buoni, che si sarebbero potuti rivendere bene a un rigattiere.

Spero almeno che li abbia trovati Ida.


Documento 13    Acqua. Se il pianeta finisce a secco di Fred Pearce (da Repubblica del 6 marzo 2007). Leggi il testo e rispondi alle domande sottostanti

In tutto il mondo alcuni dei fiumi più grandi - quel­li che noi tutti ricordiamo di aver studiato a scuola -sono sempre più in secca. Per buona parte dell'anno il fiume Giallo in Cina, l'Indo in Pakistan, il Murray in Australia, il Colorado negli Stati Uniti e il Nilo in Egitto praticamente non convogliano più acqua nel mare. Negli ultimi due anni in alcuni punti si è abbassato di livello perfino il possente Rio delle Amazzoni, che da solo trasporta un quinto di tutta l'acqua di tutti i fiumi della Terra. E il Po in Italia nelle ultime estati ha fatto registrare li­velli al minimo storico.

Gli atlanti non dicono più il vero. In Asia centrale l’antico fiume Oxus non raggiunge più le sponde del lago d’Aral: la sua acqua è prelevata  per le coltivazioni di cotone. Il lago d'Aral un tempo era il quarto più grande "mare" interno del mondo. Oggi è soltanto un deposito di sale in pie­no deserto. Se ci si ferma in piedi in corrispondenza della vecchia linea costiera del Mynak in Uzbekistan, davanti a sé si scorge lo spoglio let­to del mare - un nuovo deserto - che si distende per oltre cento chilo­metri.

Il problema è in parte una conseguenza del cambiamento del clima. Alle sorgenti di tutti questi fiumi le precipitazioni sono diventate scarse. Buona parte dell'area mediterranea, Italia inclusa, sta diventando sempre più secca e i modelli climatici prevedono che in fu­turo le aree aride del pianeta diventeranno ancora più aride. In realtà, i nostri fiumi si stanno prosciugando essenzialmente a causa del nostro eccessivo consumo di acqua, destinata soprattutto all'irrigazione. L'agricoltura è responsabile dei due terzi di tutta l'acqua che gli esseri umani prelevano dalla natura nel mondo. In Italia questa percentuale sale intorno al 50 per cento, e nelle regioni molto aride tale quantità aumenta ancor più, raggiungendo il 90.

L'anno scorso ingegneri, politici e finanzieri convenuti a Città del Messico in occasione del World Water Forum che si tiene ogni tre anni hanno suggerito di creare molte più dighe e di definire nuovi parametri di prelievo dell'acqua per far fronte alla crescente do­manda in tutto il mondo di acqua pulita. Ma a che scopo erigere altre dighe, se i fiumi si stanno già prosciugando.

In molti Paesi stiamo esaurendo anche le riserve idriche sotterranee, sia legalmente sia illegalmente. Si calcola che l'Italia abbia più di  un milione di pozzi illegali. In India, dove i fiumi sono già secchi per buona parte dell'anno, negli ultimi dieci anni i coltivatori hanno scavato oltre venti milioni di condutture sotterranee sotto i loro campi, al fine di prelevare l'acqua presente in profondità. Poiché le loro pompe funzionano 24 ore al giorno, le falde freatiche si stanno rapidamente abbassando. Di recente i ricercatori hanno calcolato che ogni anno i coltivatori prelevano la sbalorditiva quantità di cento chilometri cubici d'acqua in più di quello che le precipitazioni riescono a sostituire. Attualmente l'India è autosufficiente da questo punto di vista, ma come numerosi altri Paesi asiatici sta per esaurire il tempo e l'acqua a sua disposizione.

I presupposti di questa emergente crisi idrica globale risalgono alla "rivoluzione verde", la crociata scientifica combattuta negli an­ni Settanta e Ottanta per produrre nuove varietà di colture ad alto rendimento con le quali dar da man­giare alla popolazione terrestre che stava crescendo a ritmi incalzanti.

Allora si temeva che miliardi di persone avrebbero potuto morire di fame di questi nostri tempi. Così non è stato. La "rivoluzione verde" ha fatto il suo dovere, producendo maggiori quantità di cibo. Ma ciò ha avuto un suo costo. Se da un la­to le nuove colture hanno assicurato rendimenti eccezionali, al con­tempo dall'altro utilizzano l'acqua in modo meno efficiente rispetto alle colture di un tempo. Di conseguenza, oggi nel mondo si coltiva circa il doppio delle colture degli anni Settanta, si è al passo con la crescita della popolazione, ma dai fiumi e dalle riserve idriche sotterranee si preleva almeno tre volte l’acqua di allora.

La quantità di acqua che occorre per riempire la nostra borsa della spesa è impressionante. Occorro­no cinquemila litri di acqua per ot­tenere un chilo di riso, 11 mila per far crescere il foraggio sufficiente ad alimentare una mucca affinché questa ci dia un hamburger, tremi­la per un sacchetto da un chilo di zucchero e 20 mila per ottenere un barattolo da un chilo di caffè. Con simili presupposti, non stupisce che nel mondo l'acqua scarseggi, o che le organizzazioni delle Nazioni Unite che si occupano di cibo e agricoltura affermino che in alme­no un terzo dei campi coltivati esistenti al mondo "l'acqua, e non la terra, è il vero vincolo" per la produzione.

Non stupisce neppure che le tensioni internazionali per il controllo sulle risorse idriche stiano moltiplicandosi. Allorché un paese a monte riesce a dare fondo alle acque di un fiume prima che questo attraversi il confine, la popolazione confinante a valle comprensibilmente è molto preoccupata. Le dighe erette in Turchia possono prosciugare completamente l’Eufrate prima che questo arrivi a scorrere in Siria e in Iraq. Gli Stati Uniti svuotano pressoché del tutto il Rio Grande e il Colorado prima che questi corsi d'acqua riescano ad at­traversare il confine messicano. Israele preleva tutta l'acqua del fiu­me Giordano prima ancora che esso arrivi a scorrere nel Paese dal quale prende il nome. Le guerre per l'acqua sono imminenti.

L'acqua in natura si ricicla naturalmente: evapora dagli oceani e ri­cade sulla Terra sotto forma d pioggia. Ciò nonostante abbiamo soltanto una data quantità di acqua a disposizione. La buona noti­zia è che possiamo utilizzarla più efficientemente. In India migliaia di villaggi hanno iniziato a raccogliere l’acqua delle precipitazioni monsoniche che cadono ogni estate e a immagazzinarla in bacini e pozzi. “ Raccogliere l’acqua piovana” non è certo una novità, ovviamente. Un tempo raccogliere l’acqua dal tetto delle abitazioni e immagazzinarla in seguito in agricoltura era prassi usuale dalla Toscana a Katmandu. Più avanti però si è iniziato a fare affidamento soltanto sulle riserve idriche pubbliche. Ora che i fiumi si stanno prosciugando, in ogni caso, raccogliere l’acqua piovana è un sistema che sta sicuramente riprendendo piede.

Dobbiamo anche riciclare l'acqua e adoperarci per ridurre le sempre più esorbitanti perdite che si verificano in buona parte dei sistemi idrici. L'evaporazione che ha luogo dalle riserve idriche, per esempio, è esorbitante. Il lago Nasser, situato dietro l'Alta Diga di Assuan in Egitto, nel deserto nubiano, per l'evaporazione perde più acqua ogni anno di quanta l'Italia intera ne consumi nello stesso arco di tempo. Le piccole riserve idriche situate in varie zone d'Italia ogni anno arrivano a perdere il 40 per cento del loro contenuto.

Milioni di contadini in tutto il pianeta ancor oggi irrigano i loro campi allagandoli: la maggior par­te dell' acqua così utilizzata evapora ed è ben poca quella che penetra effettivamente nel terreno raggiungendo le piante. Sistemi d’irrigazione a goccia a goccia, economici quanto moderni, in grado di far sì che ogni singola goccia di acqua cada accanto alla radice della pianta coltivata, possono tagliare il fabbisogno odierno di acqua del 70  o dell'80 per cento.

Gli ingegneri parlano e discuto­no molto di come reperire maggio­ri quantità di acqua per poter far fronte alla domanda in netto au­mento, ma la vera soluzione consiste invece nell'iniziare a contenere la domanda. Occorre considerare definitivamente finiti i giorni in cui l'acqua era ritenuta una risorsa gratuita e disponibile per diritto naturale. Un mezzo molto valido per riuscirci è quello di imporre al­l'acqua un prezzo realistico. I coltivatori in Italia e nella maggior par­te degli altri Paesi ancor oggi paga­no l'acqua a un prezzo nettamente inferiore a quello reale. E questo incoraggia gli sprechi.

Adesso, dopo decenni di sprechi, è giunta l'ora di lanciare una "rivoluzione blu", e dare quindi inizio a una gestione migliore della nostra acqua Se questa rivoluzione non partirà, allora i conflitti e le guerre per questa risorsa umana, la più importante, l'unica della quale non possiamo fare a meno e sopravvivere neppure un giorno, sa­ranno inevitabili.


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a cura di Paolo Alpino