Risalente all'epoca carolingia, forse fu innalzata sulle rovine di un preesistente castello appollaiato quasi alla colma della collinetta sovrastante l'abitato. Già diaconìa della pieve di Cividate, la chiesa compare nelle "recepta fructuum " del 1336 che prendono in considerazione i benefici devoluti alla Santa Sede per ragioni di vacanza o di decima: assegnate all'epoca due prebende sacerdotali, una prebenda chiericale e un chiericato, per un valore complessivo di 32 fiorini. Inoltre è compresa nell'elenco dei luoghi culto annesso all'ordinativo di pagamento della somma di 2500 fiorini d'oro emesso a carico delle chiese e del clero bresciano dal signore di Milano Bernabò Visconti nel 1366. Nel 1369 risulta tenuta al pagamento, a favore della mensa vescovile, di una libbra annuale di cera, entro la festa di San Martino, derivante dalle clausole annesse all'unione di benefici ecclesiastici accordata a questa chiesa il 9 novembre 1364: tale obbligo è menzionato ancora in vigore nel 1421. La chiesa, quattrocentesca e rimaneggiata dopo la metà del secolo XV (come attesterebbe l'epigrafe esistente sull'architrave della porta maggiore, sciolta da don Alessandro Sina e datata 1486), è stata allargata nel Seicento. In effetti nei verbali del sopraluogo condotto l'8 maggio 1459 da don Benvenuto Vanzio, delegato del vescovo di Brescia Bartolomeo Malipiero, la chiesa è ricordata "de novo constructa et reparata" lasciando prospettare l'avvenuta esecuzione di un sostanziale ampliamento nel corpo e di lavori di restauro nella parte formante il presbiterio. Inoltre compare dotata di alcuni legati: 5 lire scrivere un messale fasciate da un certo Romonti (grazie a testamento rogato dal notaio biennese Comino Leoni);10 lire per comperare un calice donate da Martino di Giovannino di Borno, già residente a Berzo; altre 10 lire per comporre due messali sulla base del testamento di Domenico Ognabeni, defunto da sette anni. Ne era parroco don Raimondo di Ossimo (n. 1424 c.), insexiato nel 1450 dopo aver permutato il beneficio di Corna con don Giovanni da Borno; sottoposto a rigoroso e puntiglioso interrogatorio in merito alla preparazione sacerdotale ed alla condotta morale, se la cavò abbastanza bene, costretto ad ammettere l'esercizio saltuario di un innocente passatempo: "aliquando vadit ad caziam leporis". Egli dichiarava di aver ricevuto quattro anni prima 8 fiorini d'oro da Petercino Coletti da essere impiegati ad utilità della chiesa; riscuoteva inoltre 28 lire dai debitori di un Tognolo Rubaga di Bienno, abitante nel Trentino, in virtù di un lascito disposto al tempo del predecessore don Zenone Federici. Il visitatore, rilevando che l'altare era consacrato ed era munito di tovaglie solitamente lavate tre volte all'anno, annotava che davanti al tabernacolo non era sempre mantenuta accesa la lampada ad olio, anzi spesso non veniva nemmeno conservato il Corpo di Cristo. Il beneficio valeva circa 200 lire in moneta della Valle e aveva un buon patrimonio di poderi e case: in particolare 14 o 15 some di biade, 7 o 8 some di castagne secche, 20 some di vino (al momento ridotte a 4/5 per il fatto che le vigne erano state ripiantate di nuovo e da poco tempo davano frutto); inoltre gli affitti somministravano 100 lire e un peso di olio. Da un vecchio "dessignamentum" risultavano poi diversi beni che il rettore non possedeva e per il cui ottenimento aveva agitato, senza esito, lite contro gli uomini della vicinia. Nella chiesa vi era un beneficato chiericale del valore di 18 lire goduto dal quasi centenario ex arciprete di Cividate Bertolino Spiotti. Il parroco era tenuto ad accedere alla pieve di Cividate il sabato santo per ricevere gli oli sacri e per aiutare a preparare il battistero, mentre il comune di Berzo concorreva, insieme agli altri facenti parte del pievato, a mantenere in ordine il fonte battesimale. Già nel secolo XV compaiono presenze di una attiva confraternita di disciplini segnalata anche da una scritta che rimanda ad un associato, tale "magister Deleidus filius Zenoti quondam Mezi de Ossimo 14(6?)". Nel 1573 la scuola, definita di antica tradizione, regolarmente approvata, con 41 confratelli, governata dal massaro Pietro Girardini, aveva un reddito di una soma di grano ricavata da un appezzamento di terra. Cinque anni dopo figurava con 22 iscritti ed un reddito di 6 quarte di frumento; i suoi ministri, che finanziavano la celebrazione di messe in suffragio dei confratelli defunti, ogni tanto davano conto del loro operato al rettore. Vicino alla chiesa funzionava anche un oratorio per questa scuola, intitolato a San Francesco, dove i disciplini si ritrovavano "per recitar i loro offitii e far altre loro fontioni", mantenuto con le entrate in frumento, segale, miglio, vino e livelli enfiteutici. A cagione di una pestilenza, la vicinia costruì una cappella deidicata ai Santi Rocco, Fabiano e Sebastiano, completata nel 1504 sotto la sorveglianza del parroco Giovanni Greci di Cemmo, già in sede nel 1476, e dei consoli Girolamo Federici di Esine e Antoniolo Zanchetti "gramatice professore", entrambi notai. In seguito il beneficio si accrebbe con nuove dotazioni: nel 1518, con testamento rogato dal notaio Pompeo Zanchetti, Bartolomeo Colli lasciò un terreno onde consentire l'officiatura di 12 messe all'anno; il notaio Tommaso Coletti Lazzaroni, mediante ultime volontà dettate il 24 novembre 1568 al collega Martino Bona, dispose un cospicuo legato per la celebrazione di una messa perpetua ogni mercoledì e per la manutenzione dell'edificio; Mafiola Piasina Coletti, nel suo testamento redatto il 28 marzo 1600 dal notaio Simone Gerolamo Beccagutti di Esine, lasciò un castagneto alla chiesa per celebrarvi un venerdì al mese, oltre a 800 lire alla comunità per l'acquisto di biade da consegnare al Monte di Pietà.