UN CAPODANNO ORTONESE Sono qui da poco tempo e non vorrei più andare via.
Cominciamo col dire che io non ci volevo proprio venire. Ma proprio per niente. Neppure per un giorno. Ed ora invece non voglio più andarmene da qui, non voglio lasciare questa casa dove il tempo scorre lento eppur veloce, dove la grande cucina odora di legna bruciata e caffè, con il Grande Camino che non smette mai di bruciare e sotto la cenere cuociono le patate avvolte nella carta d’argento, mentre sui vetri scivola la pioggia ed è l’unico, incantevole rumore che spezza il silenzio. Voglio restare in questa casa dove le camere sono al piano di sopra, i letti sono alti e i materassi tostissimi, si può fare il bagno, e non solo quello, nella vasca del terzo piano, alla luce delle candele, dove si può rimanere sdraiati sul divano morbidoso a leggere “L’eleganza del riccio”, con Glenn Miller in sottofondo che suona Moonlight Serenade e addormentarsi come se il resto del mondo non fosse mai esistito. Fino a ieri l’altro la casa era piena di amici, e per loro, ma anche un po’ per noi, abbiamo fatto la pasta fatta in casa, prima i ravioli ripieni di zucca che Dylan ha chiuso con precisione scientifica, ma che il giorno dopo non riuscivamo a staccare dai piatti, poi le fettuccine che Vince ha lavorato a mano, che Flo ha ridotto in piccole matassine e che sono finite affogate in una salsa ai funghi deliziosa. Di questo Capodanno indimenticabile ci restano ancora due prosecchi, un Corvo di Salaparuta e un Primitivo di Manduria, un arrosto di tacchino di tre chili ripieno di salsiccia e un tronchetto al cioccolato. La grappa, quella è finita oggi, e non ce ne sarà mai più una uguale. Le innumerevoli bruschette e la zuppa di lenticchie per un reggimento, le salsicce e le lasagne e i torroni e i salamini, i botti e i fuochi d’artificio, tutto finito, se ne può trovare traccia sui miei fianchi, ma conto di smaltire anche quella. Questa casa che ci è arrivata per vie contorte e che non avrei mai sospettato di amare così tanto, è all’interno del Parco Nazionale d’Abruzzo, in un paese che conta duecento anime, dove c’è un bar-ristorante, un alimentari che vende pure calzini, una birreria, un macellaio, una farmacia e un ufficio postale, questo paese che sembra Frittole, dove la gente per strada si saluta e inizia a parlare, dove il restauro dell’organo a canne ha inaugurato una stagione di concerti nella chiesa romanica, per l’occasione piena di tutti i paesani e gli oriundi ritornati per il week end, dove chi dice messa si chiama Don Liù ed ha gli occhi a mandorla (Uccelli di Lovo…) e dove l’unica parrucchiera è arrivata da Verona tempo fa perché, intrepida Giulietta, ha trovato qui il suo Romeo, un giovanotto barbutissimo che crea dalla pietra cornici per camini, capitelli e portali di chiese, mentre lei, Giulietta, fa i capelli alle rare spose e alle signore quasi centenarie prima che arrivino i figli, la festa del Santo Patrono e l’appuntamento con l’aldilà, questo paese, dicevo, è quanto di più ospitale si possa immaginare. Qualche minuto di chiacchiera con la presidente della Pro Loco e lei già mi vorrebbe nel direttivo e subito dopo, per suggellare l’amicizia, polenta al sugo e fagioli con un buon vinello rosso. Qui a Frittole, famosa per la torre diroccata, da cui si gode un paradiso di montagne innevate come enormi pandori bianchi di zucchero a velo, per le patate, i fagioli e le mele, deve essersi verificata una strana congiunzione astrale, anche a causa della pasta all’uovo di cui sopra e dell’elevato tasso alcolico raggiunto in pochissimi giorni e stabilizzatosi con l’ultimo vin brulé, per cui la dimensione spazio temporale si deve essere liquefatta come la cera delle candele, dando luogo al curioso fenomeno dell’oscuramento della memoria, ragion per cui la sottoscritta, vestita come una perfetta montanara con maglioni di lana grossa e un po’ rasposa e scarponcini con la para ai piedi, si inerpica per strade tortuose alla ricerca di coppi da dipingere e sassi bianchi da decorare, dimentica di avere una prole e un’identità cittadina, ormai in estasi per i fiocchi che continuano a scendere dal cielo e a depositarsi sui tetti, sui rami degli alberi e sulle orecchie dei suoi cani, entusiasta all’idea che forse domani potrà provare le ciaspole e come Pippo andare a zonzo per le valli circostanti, garrula come un cardellino dinanzi ad una pianta di agrifoglio con le bacche rosse, vero mica di plastica, consapevole di una Bellezza che le cancella in pochi attimi il passato recente, facendo affiorare solo quello remoto.
Manuela Minelli
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