MAURO

 

  Autunno

Sciolti al vento, ancora tiepido,
i tuoi capelli ambrati
confondono il colore
delle foglie lievemente appese
e di brevi sussulti assolati
d’un nuovo autunno.
Ancora si distingue lo smeraldo
bagliore di mari assolati
nel fondo dei tuoi verdi occhi,
mentre il pensiero ne trattiene,
fra un sospiro e un palpito,
il sapido ricordo.
Scivola rapido il tuo passo
che non rifugge memorie e ansie.


Ti sento

E’ sulle mie mani l’odore del tuo corpo,
sulle mie labbra il sapore del tuo respiro,
nei miei occhi il fiore del tuo sorriso,
E mentre amo e patisco attimi d’assenza,
celata nella mia anima s’insinua
l’ansia del tuo rimpianto.

 

  Nuvole

Leggere nuvole scivolano sul tuo cammino
come carezze soffici che sfiorano
il tuo sorriso.
I tuoi occhi agri e curiosi indugiano,
aldilà di manti bigi a cercar lontane stelle.
E ogni piccolo pensiero è
un desiderio velato, messo
sul calesse del tuo domani.
Non temere cirri, nubi, nembi,
pur se forieri di tempesta
saranno monili del tuo scrigno.

Ciro

Lento, il cammino ti ha preso per mano,
condotto fra ansie, dolori, attese perdute,lungo il ripido sentiero
che porta all’oblio
d’antichi frammenti.
Strade difformi
hanno sfiorato il tuo incedere,
pervaso d’estasi ogni passo.
Affanni d’un estate maligna
hanno umiliato l’anima,
travolto e martoriato il corpo,
confuso il pensiero.
Ricordi d’un estate fiorente
t’accompagneranno, caro amico,
con il dolce tepore
di questo sereno autunno.
E ogni tuo sorriso
sarà il passeggiar dell’anima
al divenir d’un giorno nuovo.

 

Occhi

Occhi che scrutano l'infinito azzurro
anelando mondi lontani,
galassie sperdute e arcane,
mentre gira la ruota del tempo,
lenta e inesorabile, tutt'intorno.
Occhi felici e gaudenti di sposi novelli
che bramano lieti momenti e nuove vite,
piccole speranze accarezzate nel sogno
di tante notti insonni.
Occhi bagnati di lacrime inquiete e calde memori di ricordi ormai sbiaditi,
come l'ora del vespro in un tramonto d'inverno.
Occhi velati e stanchi d'un vecchio uomo, custodi del segreto messaggio,
d'un cammino lungo e periglioso,
ormai compiuto.
Occhi imploranti di un bimbo dilaniato e solo, figlio delle nostre assurde guerre che mai capirà e perdonerà.
Occhi, occhi, occhi..... milioni di occhi che guardano, osservano, ridono,
si disperano e sperano, sono tutti qui
nel vortice scomposto dei miei pensieri, e mi trafiggono, mi tormentano, mi indagano.
E i tuoi occhi infine, i tuoi limpidi e teneri occhi dove l'anima mia, inquieta e docile, si specchia e lentamente si riposa.

 

Di là dal vetro

Di là dal vetro piccoli raggi di sole
baciano tremule gocce di rugiada.
Nascosto, fra rinsecchiti rami,
un nido di merli abbandonato
ingrigisce e si sfalda.
La pioggia violenta è ora passata
e un tappeto di foglie, ingiallite e morte, giace sulla terra fradicia e rossastra.
Mentre il rintocco della campana risuona serena in questa domenica di Novembre, mi volto, sorrido
e ti bacio.

 

n° 45, interno 6

Avevano tutti e due, Anna e Fabrizio, le stesse dannate intenzioni, gli stessi obiettivi e, celate fra effimere piaghe laceranti, le stesse inquietanti, cattive premonizioni. Solo la prospettiva, l’angolo virtuale degli eventi, era difforme; per Anna era come se una inconsueta miopia maligna e progressiva falsasse i contorni di quel mattino ancora acerbo, un mattino tanto anelato, che avrebbe potuto e dovuto essere l’inizio di tante speranze e invece un presagio, come il ricordo d’un sogno sfumato nel lento oblio del risveglio, le opprimeva l’animo.
Per lui invece tutto pareva percettibile e chiaro come, aldilà delle tendine a fiori, l’incanto di quell’orizzonte che confondeva l’azzurro d’un cielo geloso di nubi con i contorni nitidi delle Dolomiti innevate. S’alzò con calma, ancora assonnato e pigro; arrotolò con cura lenzuola e coperte ai piedi d’un letto troppo vuoto e assente e, senza nemmeno mettersi le pantofole - l’ultimo suo regalo -, percorse gli angusti spazi che lo separavano dalla cucina. Il caffè, riscaldato e forte, servì soltanto a scatenare la sua iracondia e la rabbia che la notte, faticosamente, aveva placato.
In bagno, dopo aver inutilmente tentato di mitigare il nuovo umore sotto la doccia, sputò reiteratamente sullo specchio e su quel volto astioso e assurdo che non riconosceva.
Cercò di nascondere le rughe di rabbia e tutto il resto sotto una soffice e rassicurante schiuma, ma l’incurante rasoio gli rimandò intatto il dispiacere del suo viso su cui rimanevano intatte le sue angosce.
In un vecchio e fatiscente palazzo ai margini del centro storico, in uno squallido e misero monolocale in subaffitto Anna, nel frattempo, metteva ordine ai suoi pensieri. Aveva già predisposto tutto meticolosamente la sera prima; le memorie delle miserie di quell’ultimo pezzo della sua vita erano lì, scritte, lette e rivissute affinché nulla fosse dimenticato, racchiuse in quei quattro fogli vergati con mano rabbiosa e tremante. Il suo vestito rosso - ma non glielo aveva regalato lui l’ultimo S. Valentino? - attendeva il suo corpo ancora snello , morbido e sensuale, accanto a quei fogli sul piccolo trumò antico i cui intarsi l’avevano così affascinata e invaghita; l’avevano acquistato insieme in quel bugigattolo impolverato, in fondo a via della Spiga.

S’appuntò appena sopra il petto, la spilla - un bocciolo di rosa d’oro - che lui le aveva portato dal suo ultimo viaggio in Bretagna, e ravvivò con un gesto consueto i corti capelli castani.
Una leggera e impalpabile nuvoletta di profumo - amava quel sapore intenso di viole - s’impadronì della sua pelle d’ambra e insinuò il ricordo del sorriso di lui, fra lei e l’incombenza d’avvenimenti che premevano proprio sotto l’ignara spilla......
Il Giudice di Pace, De Ronchi Augusto, attendeva, nel suo studio grigio e lucido come il suo cranio stempiato, di ricomporre un altro ennesimo rapporto.
Rilesse il fascicolo lentamente, pensando a tutt’altro - aveva il golf la mattina seguente - e distese le gambe in modo alquanto sconveniente sulla scrivania di mogano.
S’accese una Gitane senza filtro.
Mentalmente ripassò la sua collaudata ramanzina, rare volte efficace, con i pensieri che rimbalzavano fra quella maledetta dodicesima buca - non riusciva mai ad andare sotto il par - e le note stonate di parole che non avrebbero convinto nessuno. Socchiuse gli occhi e, mentre le lenti scivolavano fin sulla punta adunca del naso, s’assopì.
Fabrizio raccolse, con circospezione inconsueta, la piccola e luccicante Beretta in fondo al comodino e la infilò fra la cintura e il fegato.
“Se doveva finire quella dannatissima storia, sarebbe finita solo così”, pensò serrando, fino a dolersi, i denti; non intravedeva altra soluzione, altro che separazione,
c o n c i l i a z i o n e, divorzio.......una bella, dorata e penetrante pillola calibro 22 e bum... bye, bye amore mio, vai aff...
Il massiccio portone di legno e ferro battuto, al n° 45 di viale Botticelli, era socchiuso e ansimante in attesa di eventi consueti, ma ogni volta inaspettati e ignoti.
Anna attendeva già da venti minuti, erano le nove e un quarto, e l’appuntamento con l’avvocato De Ronchi era fissato per le nove.
Quel ritardo l’aveva avvolta, inconsapevole, in pensieri, ricordi e dolci memorie; lasciò che l’accarezzassero con un abbandono denso di emozioni. Il frastuono della sirena di un’ambulanza la fece riemergere da quel torpore; capì in un sol colpo che tutta quella vicenda non sarebbe finita ineluttabilmente, ne quel mattino ne mai più. Amava quel bastardo più di quanto l’avesse mai meritato e, al diavolo il De Ronchi e tutti gli avvocati di questo mondo, non appena l’avesse visto gli si sarebbe buttata al collo......
Fabrizio scese dal taxi dall’altra parte della via; inciampò maldestramente con la mano nella rassicurante Beretta, mentre affannosamente cercava il danaro per pagare la corsa.
Traversò la strada incurante del lento traffico e si diresse, la mano ben serrata sul caldo, rassicurante metallo, verso un inatteso e sconvolgente sorriso.
“Sarà l’ultimo, l’ultimo” pensò, schivando a stento un ciclomotore nero come un gatto nero e rumoroso come i suoi passi grevi, “l’ultimo tuo ghigno beffardo e ipocrita” e, proprio nell’istante in cui estraeva l’evento finale lei gli si appese e aggrovigliò al collo, ansimando convulsamente tra lacrime scomposte e rimmel liquefatto che gli imbrattava la camicia..........
Il sibilo sordo e incosciente del proiettile uscì dalla canna rovente; si perse, nel fragore della via, aldilà delle braccia di lei, finendo la sua breve e definitiva corsa al primo piano, interno 6, numero 45 di viale Botticelli........proprio nel bel mezzo della fronte, fra gli ormai inutili e inutilizzabili pensieri dell’avvocato De Ronchi Augusto.

 

Angeli

Gli angeli albergano i miei sogni
talvolta rimbalzano come folletti
carezzandomi il profilo...
attonito li cerco nei miei sonni
ed al risveglio
sono di loro il figlio prediletto
sono di loro il giuoco di bambino
sono di loro la speme ed il desio...
Gli angeli albergano i miei sogni
fuggono impauriti ad ogni mio ritorno
di loro solo la memoria io conservo
quando i passi si ripetono
nel mondo dei mortali
Presto di loro diverrò compagno
Presto con loro canterò
la Melodia...
Gli angeli albergano i miei sogni
la luce di ogni giorno li allontana;
non mi resta che sognare
un pò più forte!

 

Tre etti di fagioli

Nel carrello della spesa mancano solo frutta e verdura. Il martedì a quest’ora, sono le 13:45, il supermercato è semideserto ed è piacevole girare fra le corsie e curiosare, comparare prezzi, immaginare ricette nuove.

Eccomi qua nel reparto ortofrutta. Sembra davvero d’essere nell’orto con tutte queste verdure da scegliere, cogliere e insacchettare (si, l’ho messo il guanto trasparente). I borlotti! Che bell’aspetto hanno: bianchi e con quelle venature d’un rosso rosato che sembra finto, intatti nella loro buccia saranno i 4 o 5 baccelli che sgranerò appena giunto a casa.
La commessa posa il sacchetto sulla bilancia, preme il tasto di 0,6 g della tara che non verrà conteggiata, attende che si fermi l’elettronico occhio del peso/prezzo e con il suo delicatissimo indice, click, preme invio. Cattura l’etichetta e la incolla sul sacchetto. Fuori dalla cassa saranno miei.
Gusto già piacere pensando a quando sbuccerò i fagioli, fossero piselli, cozze da raschiare o qualcosa di simile è la stessa cosa.
E’ un lavoro monotono e stupido? Forse, ma a me piace.
Solo allora sarò libero di lasciare che i pensieri corrano e si inseguano senza metterli in fila, vadano dove vogliono, io li seguirò mentre, pezzo dopo pezzo, gli ovali e lucidi grani cadranno nella ciotola e la loro protettiva buccia, ormai inutile, finirà nel cestino dell’umido.
Sembrano così pochi tre etti, ma quanti sono! Verrà un bel piatto per noi due, se poi s’aggiunge un amico improvvisamente, tanto meglio, ce ne sarà anche per lui.
E fin qui la spesa, momento a cui dedico spazi giornalieri.
Ma è la cucina racchiude tutto il fascino finale. Si parte.
Cipolla, carota, sedano, una patata e uno spicchio d’aglio.
Un bel trito, la patata mondata e intera la aggiungo dopo.
Un filo d’olio extravergine (naturalmente) e dentro il trito che sfrigola rapidamente e appassisce sul fuoco leggero.
Ora i fagioli per farli insaporire qualche istante e infine acqua quanto basta. Ah, la patata ora.
Non è difficile vero? Smetto qui per non tediarvi (o per non svelarvi i miei segreti culinari?), ma questa non era una ricetta e nemmeno una normale spesa.
Questa è un pretesto, un’allegoria dello scrivere.
I borlotti; sono l’idea, colorata, bella, immediata, che nasconde dentro di sé segreti che ancora non sono usciti, solo immaginati, ma che so arriveranno mentre comincerò a scrivere.
La cassiera; lei è la prima correttrice di bozze, toglie subito quello che non deve essere scritto (la tara), controlla che l’idea sia fissata nei suoi occhi attenti e dà il via all’operazione.
Il costo; quando scrivo devo pagare qualcosa, sempre. Se non trovo piacere, emozione, desiderio e me ne libero per lasciarli a chi leggerà non posso scrivere nulla. E pagare il conto poi, quando m’accorgo che, forse, l’egoismo del piacere è tutto mio.
La preparazione; qui il correttore di bozze sono solo io.
Gli ingredienti sono tutti insieme lì, è necessario pulirli dalle scorie inutili, assemblarli con cura e armonia, condirli con gusto, cucinarli e osservarli affinché si sentano parte di me e mi amino almeno quanto amo loro.
Il piatto finito; è quello che leggerò e, se proverò piacere ne farlo, lo farò leggere a chi vorrà, sarà il culmine e l’apoteosi del mio lavoro: se avrò l’occasione di leggere negli occhi del mio consumatore un sorriso o una smorfia, saprò molto di più di quello che nemmeno immaginava il raccoglitore di fagioli.

 

 

In via Belfiore

Oggi, per caso, sono passato dalle parti di via Belfiore; avevo un po’ di tempo e mi è venuta voglia di rivedere quella via. Allora ho posteggiato l’auto e mi sono incamminato lentamente per quella vecchia strada, con una piccola, piacevole sensazione che mi increspava la pelle.
Quasi alla fine della via, tra due vetrine che un tempo non c’erano, esiste ancora quel piccolo negozio - amore te lo ricordi? - “La confetteria”, dove comperammo le nostre bomboniere. L’insegna rosa è impolverata e sbiadita e la commessa ha messo della cenere su quelli ch’erano biondi riccioli; nel suo volto, che a stento ho riconosciuto, celate da leggera cipria quasi venticinque anni di rughe mi hanno sorriso ancora una volta.

CAREZZE

Carezze
Le tue mani.
Carezze lievi
delicate, che increspano
la mia pelle in un brivido.
La tua voce.
Una carezza dolce,
morbida, suadente,
che si posa sull’anima
annoiata e spenta
e ne fa sorrisi.
La tua bocca.
Una carezza calda
di labbra che si sfiorano,
che desta e fa vibrare
corde impolverate e sopite.
Il tuo corpo, infine.
Una carezza ardente,
fuoco nel fuoco,
che quando se ne va
lascia solo cenere.

 

Quattro rose

Quattro rose per te, amore mio.
La prima.
Rosa, fragile e socchiusa
come l’alba di quel primo giorno.
La seconda.
Gialla con arroganti sfumature arancio,
sfacciata come la notte e la fantasia,
nella passione dei nostri corpi.
La terza.
Bianca, abbagliante di luce
e candida, vellutata,
come le tue carezze e il tuo seno.
La quarta.
Rossa di fuoco, ardente e improvvisa,
come nel fragore del silenzio nascono
le faville sprigionate da ogni tuo bacio.
Quattro rose.
Tutte di verdi foglie abbigliate
e petali fragili
e colori morbidi
e profumi intensi
e lunghi steli
e spine
e baci
e spine e baci
e baci e spine
e baci…
in questo incredibile tuo amarmi
in questo struggente mio amarti
in questo meraviglioso nostro vivere.

 

ADORO L'ARTE

O cara arte, o dolce arte
discutere fai tanti
re, regine e paggi in parte,
ma noi che siamo fanti
privi di senso eletto,
scevri d’alta cultura
tutto questo diletto
ci mette un po’ paura.
Perchè mio caro artista
allora non mi dici,
quel che davvero pensi
nei cerchioni di una bici?
O meglio non m’avvisi,
tu che hai mente aguzza,
che merda esposta ai visi
non tiene punto puzza.
Tanto tu al volgo ignaro
vendesti ogni indecenza
che poi pagarla è caro
ma tu c’hai la licenza.
Nel nome tuo è concesso
dissacrar potenti e tutto
basta mostrare un cesso,
la fantasia di un rutto
sgorbi buttati in tela
aggeggi in bella vista
il verme in una mela
tanto tu sei l’artista
il sommo, il solo, il grande
che mette in bellavista
le sporche sue mutande.
E dissertar non penso
semmai l’ho fatto adesso
dell’arte il cui gran senso

mi sfugge, ma son fesso.
All’osteria vado e tra amici
berrò un bicchier di vino
vedrò volti felici
vedrò chi ha il capo chino
vedrò l’arte del giorno
vedrò l’arte sincera
e mai nessuno intorno
che giura che sia vera.
Forse l’errore è mio
ma non ci fate caso
vivo in perenne oblio
di prendermi pel naso
Se un orator di schiatta
con quel saper mai stinto,
mi mostra una ciabatta
allor sarò convinto.
Avrò dall’arte munto
mentre l’osservo serio
e alfine avrò raggiunto
dell’arte il desiderio.