L’auto è leggera e il volante morbido sotto la leggera pressione delle mie mani.
Guido piano nell’alba chiara di questo giorno nuovo, guido piano e lascio che i
pensieri volino via liberi. Pensieri che volano e si soffermano, fuggono e
ritornano, un aquilone colorato che si fa lusingare dal vento sottile e
invisibile della mia mente. Sono felice e se la felicità non è altro che un
frammento impazzito di vita che si dissolve in fretta, allora io sono quel
frammento, ora, qui. Sono sereno. Penso alle piccole gioie che riesco a
catturare, alle mie piccole ansie e eterne illusioni, all’irrequietezza del
vivere. Scopro, senza sorprendermi, che sono davvero pochi e piccoli i piaceri
che mi invadono e mi catturano, senza che nemmeno mi renda conto della loro
assoluta, magica importanza. Penso a me come a un amico cui rivolgo domande
assillanti. Perché, gli chiedo, siamo sempre indaffarati e solleciti nel
rincorrere chissà quale utopia, non cogliamo l’inatteso regalo di un abbraccio o
un sorriso qualsiasi, ce lo lasciamo sfuggire come sabbia fra le dita della mano
clessidra? Le rare volte in cui riusciamo a goderne, tutto si trasforma in un
momento d’estasi che raggiunge il suo apice non con l’esultanza, il fragore,
un’esplosione di gioia, ma con la tranquillità dell’essere sereni,
improvvisamente sereni. Ed allora perché correre? Non ci rendiamo conto che la
vita è proprio una lunga canzone, anche se la musica finisce troppo presto,
quando ancora molte cose sono da fare, sogni da realizzare, voli da
intraprendere. L’amico tace e lascia di nuovo liberi i pensieri. Alla guida
dell’auto, all’alba, su strade di campagna deserte e brumose, osservo il piccolo
mondo che mi circonda. Lo sguardo si perde là e diviene estasi, osservando le
goccioline di rugiada che scivolano lievi dai rami, sminuzzandosi i miriadi di
frammenti invisibili e, come lacrime del mattino, si infrangono sulle foglie
umide che le accolgono - conchiglie verdi smeraldo – come monete nel porcellino
dei risparmi di un bimbo. Lo sguardo si perde là, dove passeri svolazzanti e
gioiosi di luce si rincorrono e frugano fra le zolle il primo cibo, accanto a un
immobile e imponente airone cinerino che sembra dipinto su un indefinito
orizzonte. Lo sguardo spazia e poi si sofferma, come perso nell’oblio del tutto,
e rimane assorto nel rumore appena percettibile, monotono e pigro del motore. Un
clangore soffuso che accompagna i pensieri mentre si intrecciano le immagini,
che fanno salti di qua e di là nella memoria come piccole rane nello stagno,
ricordi di quel ieri appena svanito e perduto e nell’adesso palpitante delle
nuove cose che attendono i miei prossimi passi. E penso al mio cuore innamorato.
Già, l’amore. Lo immagino come un mare cheto o burrascoso, ma sempre avvolto da
maree che si ripetono e baciano sponde ogni volta nuove. La mia sponda ora è
fatta da sabbia finissima e dorata, dune morbide e accoglienti, piccoli scogli
rocciosi da levigare con cura, una capanna da impagliare insieme. Innamorarsi
ogni giorno dello stesso amore è come farsi accarezzare dalle piccole onde che
s’infrangono sulla rena, e poi camminare lentamente verso il mare aperto fino a
sommergere e lasciarsi andare, galleggiando a pancia in sù, con gli occhi che
strizzano l’iride indispettito verso il nuovo sole. E poi ancora nuotare, lenti
bracciate che catturino la forza dell’acqua e la facciano mia per affrontare gli
impetuosi cavalloni che mi aggrediranno, lo so, ad ogni nuova tempesta. Libera è
la mente, solo il cuore ora dirige i miei pensieri da navigante, la rotta è la
sua, sinuosa e irrazionale che pare seguire i ritmi palpitanti di questo mare.
E’ inutile cercare nella ragione il palpitare del cuore. Smetto di nuotare. Le
onde svaniscono nel colore grigiastro dell’asfalto che si srotola come carta
argentata sotto di me. E intanto guido piano, sempre più piano, mai vorrei che
finisse questo incanto. Al volante dell’auto, quando le ombre si animano ai
primi sprazzi di alba, tutto è dolce, quieto, armonioso, una musica muta che le
mie orecchie catturano nota dopo nota, creando la melodia della mia rinnovata e
ritrovata serenità. La melodia dell’alba ha note che nessun musicista potrebbe
mai suonare, che nessun pittore dipingere, suoni che solo un cuore perso nel
sogno infinito dell’amore può udire e fare propri. E allora guido
piano…piano…piano.
La Locanda Grigia
Ancora fuggo, nelle interminabili notti insonni e di solitudine, da quella tetra
dimora, dalla grigia locanda dei miei pensieri e tormenti.
Il viaggio, lungo e faticoso, non era ancora giunto al suo epilogo. Avevo
bisogno di rallentare quella folle corsa, raccogliere i miei confusi pensieri e
rigenerare, per qualche ora, le stanche membra. Quei luoghi m’erano sconosciuti,
decisi quindi di fermarmi alla prima osteria che avrei trovato sulla strada
maestra. Trovai riparo per il mio cavallo sotto una vecchia quercia che dominava
l’ampio cortile di una sperduta e solitaria locanda, primo tangibile segno di
vita dopo tanto peregrinare. Tutt’intorno era silenzio, solo il frusciare dei
rami tra le foglie disturbava la quiete della sera e lugubri ombre indistinte
s’allungavano sul molle terriccio ghiaioso, come tremolanti fantasmi incatenati.
Avevo fame ed ero stremato, quale delle due cose avesse il sopravvento era arduo
intuire; mi addentrai dunque lentamente in quella che avrebbe potuto essere
l’accogliente dimora per quella notte. Molte, vaghe, ed inutili a spiegarsi,
erano le ragioni che m’avevano spinto fino a quel luogo sperduto, ma ormai lì
ero giunto e la mia decisione di sostarvi era dettata più dalle necessità, che
da una volontà di scelta. Vista dal di fuori ed alla fioca luce di una logora
lanterna polverosa, la casa aveva un’opprimente senso di decadenza, lo stesso
nome scritto a vernice su un tavolaccio, legato proprio sopra l’ingresso con due
catenelle arrugginite, - “Locanda Grigia” - non era proprio accattivante eppure,
sperando in cuor mio che le apparenze a volte avverse fossero smentite, entrai
risoluto. Spinsi con una certa forza la possente porta sgangherata, che
cigolando in modo sinistro, s’aprì faticosamente. Tanta fu la resistenza di
quell’accesso, ch’ebbi la subitanea impressione d’aver forzato l’immediato
destino, come se la notte che premeva contro le ultime ombre di quella giornata,
fosse foriera d’arcani presagi. Un leggero brivido attraversò, come una folgore
nel cielo d’un temporale estivo, le mie spalle e la mia schiena affaticata e
dolente. La solitudine delle pareti, prive d’ogni ornamento - eccezion fatta per
un grande quadro con uno stupendo ritratto di fanciulla i cui lineamenti erano
di un’assoluta bellezza - e d’un indefinito colore grigiastro, sembrava voler
proteggere la vecchia locanda da intrusioni del tempo e da qualsiasi realtà
esterna. Fui colpito dall’atmosfera surreale di quel luogo e rimasi estatico ed
incantato ad osservare nei più minuti particolari quel singolare dipinto.
Rappresentava certamente una fanciulla d’alto lignaggio le cui fattezze
rasentavano la perfezione; gli occhi celesti e vivi si specchiavano in un
sorriso radioso le cui labbra, appena socchiuse, nascondevano i denti che
immaginavo candidi. Il volto roseo armonizzava coi sgargianti fiori sullo sfondo
ed il vestito azzurro, di fine seta damascata, addolciva il contrasto dei
colori, esaltando tutto lo splendore dei lunghi e rossi capelli. Distolsi a
stento lo sguardo da quell’opera così intensa e feci lentamente pochi passi
all’interno della locanda. Lunghe travi, pregne di un’umidità stantia che
trasudava dalle piccole crepe del legno, s’incrociavano sul soffitto; il passare
degli anni non le aveva logorate e parevano dare all’ambiente un senso di
solidità e calore. Negli anfratti più inaccessibili dell’alto locale si celavano
i grigi arabeschi delle ragnatele che stridevano alquanto con il sobrio
arredamento e la pulizia del luogo. Un bancone di marmo grigio s’allungava per
tutta una parete e su di esso erano ben disposti alcuni bicchieri di vetro
trasparente, coperti da un lindo panno di velluto. Dietro quel bancone
troneggiavano bottiglie colme d’ogni liquore e accuratamente distanziate l’una
dall’altra; lo specchio del mobile che le ospitava rifletteva la tenue e opaca
luce d’un grande candeliere che pendeva, come un inerte impiccato, dal centro
del soffitto. Tre tavoli sparsi a caso nell’ampia sala ed alcune sedie, tutte in
nodoso e massiccio legno di rovere, completavano il modesto l’arredamento. Un
silenzio tombale, un tipico odore di vecchiume ammuffito e l’assoluta mancanza
di persone, insinuò nella mia mente un vago sentimento d’ansia che penetrò nella
mia anima come un’affilata lama nel cuore d’un frutto maturo. I miei passi si
fermarono nel centro della sala. Le mie membra e tutti i sensi s’irrigidirono;
m’accasciai inconsapevole su di una sedia cercando con lo sguardo qualcuno,
un’altra anima, che condividesse quella mia angoscia. I richiami ripetuti che
feci - m’ero ormai deciso - risuonarono in quelle fattezze così paurosamente
magiche e si persero in un’eco lieve e lugubre, tanto che riconobbi a stento la
mia voce. Alfine, stanco d’ascoltarmi, pulii istintivamente con il mantello il
tavolo, vi appoggiai esausto le braccia incrociandole in un ampio raggio e ci
feci cadere pesantemente la testa. Mi sembrava impossibile, ma avevo la strana
sensazione che aspettassi qualcuno, da un momento all’altro. Ne sentivo
l’incombente presenza, come se occhi nascosti osservassero le mie mosse.Un
attimo dopo le mie speranze, o forse è meglio dire i miei timori, furono
esauditi. Da una porticina, un grigio pertugio che non avevo scorto dietro il
bancone, uscì, leggera e soffice come un lenzuolo steso al sole, una figura
femminile, ma il terrore per quel che lessi in quegli spenti occhi mi fece
rimpiangere la mia appena perduta solitudine. Un viso scarno e rugoso,
aggrappato ad un corpo cenciosamente abbigliato e un’apparente immobilità
emotiva, che lasciava trasparire una piattezza assoluta nella quale pareva da
tempo trascinarsi, m’avvolsero come un sudario. Quella immagine che, tremante e
diafana, mi si avvicinava con esasperante lentezza, non emanava alcuna luce;
neppure l’espressione dei suoi occhi ne aveva alcuna e pareva quasi che il sole
avesse dimenticato o perso il cammino per riscaldare quel corpo. Maledii, nel
mio profondo inconscio, d’aver messo piede in quella locanda, un fiore in tal
sito non avrebbe mai potuto avere una benché minima esistenza! Fino a quando non
l’ebbi davanti non la vidi perfettamente; sembrava, infatti, essere qualcosa
facente parte, unico fardello, di quella tetra e grigia stamberga. Mi disse
qualcosa che non intesi, preso com’ero ad osservarla; qualcosa di sorprendente
aveva colpito i miei occhi, mentre da quella bocca usciva, ovattata e flebile,
la sua voce. Ecco cosa aveva ammaliato il mio animo! Erano i suoi denti che
contrastavano, per la loro regolarità, bellezza e candore, con il resto di quel
volto infernale; mai avevo visto, nella mia lunga vita, tanta meraviglia!
Attonito e sbigottito, mi limitai a farfugliare poche parole che chiedevano una
frugale cena e ospitalità per quella notte.
Ella intanto aveva appoggiato sul tavolo una brocca colma di vino rosso ed un
bicchiere; non me ne accorsi se non quando, fatto un impercettibile cenno
d’assenso col capo, s’era voltata tornandosene da dove era venuta. Bevvi
avidamente un generoso sorso di quel vino ed attesi altri lenti e desolati
minuti, immerso nei miei più grigi pensieri. Riapparve dopo un pó con una tazza
di minestra calda, qualche tozzo di pane, ed un piatto con altre vivande;
senz'altro cenno né una parola, depose tutto sul tavolo e silenziosamente
scomparve. Quella notte dovetti cercare da me una stanza dove riposare, dato che
quell’ingannevole creatura, impalpabile come la nebbia di Novembre, dopo la sua
ultima apparizione era definitivamente svanita dietro quell’unica, piccola
porta, che non volli valicare nel timore di chissà quali perigliosi incontri. Mi
adagiai sul letto accompagnato da strani pensieri che confusi e irraggiungibili
offuscavano la mia mente, fino a quando un progressivo torpore s’impadronì
lentamente dei miei sensi ormai debilitati. Caddi supino, finalmente, in un
sonno profondo. Non so come, né quanto tempo fosse trascorso, ma mi ridestai
improvvisamente; non mi trovavo più nella mia stanza, ma ero seduto allo stesso
tavolo dove quella sera avevo cenato, ero ben desto eppure con una sensazione di
torpore che attanagliava i miei movimenti. Qualcosa d’imprevedibile e misterioso
stava accadendo. Alzai gli occhi, abbagliati dalla luce del giorno che
illuminava l’ampia sala; mi stava venendo incontro un’eterea fanciulla
abbigliata d’un luccicante abito di mille colori. I suoi fulvi e fluenti capelli
erano come pietre preziose d’un lontano oriente, luccicavano e riflettevano
tutt’intorno i raggi d’un sole già alto allo zenit. Non ebbi difficoltà nel
riconoscere in quella figura colei che avevo visto nell’unico quadro della
locanda; s’avvicinava ora leggera e docile, come una farfalla in cerca del suo
fiore e si sedette accanto a me posando le esangui mani sulle mie, mentre il suo
volto s’apriva in un sorriso.....Rabbrividii ritraendomi, mentre quel sorriso
terrificante mi faceva sobbalzare sulla sedia. Mai la ripugnanza per un essere
umano s’era così intensamente impadronita delle mie viscere! Dovetti
immediatamente distogliere i miei occhi da quella visione orrenda e diabolica;
ogni dente di quella bocca putrescente era marcito e sconnesso. Nulla di umano
era rimasto in quell’anfratto così estraneo a quel corpo ed un fetore di morte
che attanagliò il mio cuore giunse fino ai miei sensi, ora acuti e vivi. Volsi
il capo per sfuggire quel volto ed i miei occhi, come attratti da un bizzarro
destino, si posarono stupefatti e increduli sul grande quadro con il ritratto di
donna appeso sulla grigia parete; non c’era più la figura stupenda che avevo
osservato poco prima! Al suo posto ora giaceva un corpo raggrinzito e coperto di
cenci; vedevo in quel ritratto il volto arcano e spento della padrona della
locanda! Ma i suoi denti ora erano candidi, bianchissimi fiori di campo in un
estatico e dolce sorriso! Quale trasfigurazione era, ahimè, avvenuta! Un fremito
improvviso percorse le mie ossa, e la nebbia che avvolgeva i contorni d’ogni
cosa, come da un mantice soffiata, si dissolse. Aprii gli occhi lentamente e
fissai per un lunghissimo ed interminabile istante il grigio soffitto della mia
camera; ero sudato e tremante, ma riuscii finalmente a riordinare le mie confuse
idee, se di idee si poteva parlare...Avevo sognato…si...ne ero certo...era stato
tutto un terribile incubo......avevo sognato. Un profondo, intenso sospiro
svuotò i miei polmoni ansimanti e solo per un attimo si placò il mio spirito.
Accesi nervosamente un mozzicone di sigaro che tenevo nel taschino, ma non feci
neppure in tempo ad aspirarne una boccata; il tremore incontrollato delle mie
mani lo fece cadere, fumante, sul pavimento...Fui preso da una irriducibile
smania di fuggire, fuggire da quel presente irreale, da quel tetro labirinto la
cui fine sembrava perdersi in una spirale di infinita lunghezza, dove ogni cosa
pareva dimenticare il suo significato reale ed i contorni degli oggetti attorno
svanivano, come ombre nel buio d’una notte senz’astri. Fuori, fuori! All’aria
libera, fuori, finalmente! Libero, padrone di me stesso e di tutto ciò che avevo
intorno; la gaiezza del mio cuore traboccava ed i miei pensieri erano ora scevri
d’ogni grigiore. Mentre m’allontanavo rapidamente da quel luogo d’incubo, volsi
ancora una volta, un’ultima volta lo sguardo, verso la “Locanda Grigia”; lingue
di fuoco si sprigionavano incontrastate e volteggiavano sinistre e devastanti da
quella vecchia casa. E la loro forma era, ad un tempo, armoniosa come la
fanciulla, la dolce fanciulla del dipinto o grinzosa e lacera come la grigia
padrona della locanda; ognuna m’inseguiva con demoniaci sorrisi, lambendo le mie
vesti, cercando d’afferrarmi, di trattenere la mia anima martoriata e perduta,
mentre io correvo a perdifiato e fuggivo da quell’inferno incombente e incontro
all’abisso dei miei giorni.