Le
notizie che riportiamo provengono dai ricordi di persone anziane, che
volentieri ci hanno descritto quanto ricordano dell'abbigliamento dei
loro nonni, e dall'osservazione delle splendide antiche fotografie,
gelosamente conservate fino ai nostri giorni.
Un'altra
fonte davvero completa sull'argomento è il volume di Maria Paola
Pinna, studiosa che ha svolto una ricerca accurata ed approfondita
su storia e tradizioni di questo territorio, partendo dalle origini. Il
volume si intitola "Santadi, Nuxis, Villaperuccio", e
lo consigliamo a quanti siano interessati ad approfondire le loro
conoscenze riguardo questi tre Paesi del Sulcis.
Anticamente
Nuxis era abitata quasi esclusivamente da pastori, contadini, qualche
artigiano... dunque persone portate ad escludere dal loro abbigliamento
tutto ciò che non fosse strettamente necessario, anche perché la
storia del paese ha visto avvicendarsi vari dominatori, tutti però
simili nel pretendere il pagamento di esosi tributi, costringendo la
popolazione ad una vita senza lussi e senza sprechi.
Tutto
veniva ricavato da materie prime disponibili in paese: i tessuti
utilizzati per abiti e corredo erano principalmente lana e lino, che
venivano puliti, cardati, filati, tessuti, tinti e confezionati dalle
donne. Il telaio, "su triaxiu", costruito dal falegname
("su maistu 'e carru"), era in legno di quercia e ginepro e
spesso era decorato con artistici intagli.
L'orbace,
largamente adoperata per confezionare gli abiti, era la lana
dell'agnello (bianca o nera), pulita, cardata, filata e tessuta
finemente. La lana veniva tinta nel tipico colore nero
brillante,attraverso un laborioso procedimento, utilizzando "s'arinu",
cioè l'ontano (che cresce spontaneo lungo i fiumi) e "su truiscu"
, cioè il mezereo, (un arbusto selvatico, con bacche arancioni
velenose, che cresce nei luoghi umidi, in mezzo alle siepi).
L'abito
maschile era composto da una camicia di lino bianco dalle maniche ampie
("sa camisa"), un gilet di seta o tela ("su cossu"),
una giacca ("sa casacca"), un fazzoletto rosso, sempre
di seta o tela ("su turbanti"), dei pantaloni al ginocchio
("ses craccionisi"), una sorta di sottocalzoni bianchi, di
lino, (chiamati "is craccias"), con dei gambali in orbace che
arrivavano a metà scarpa ("su toppettu"). D'inverno si usava
il cappotto ("su serenicu"), confezionato con cura e chiuso da
grandi alamari d'argento, mentre i pastori indossavano un
pellicciotto di pelle di pecora o capra ("sa besti", detta
anche "sa mastruca"). In testa, un berretto ("sa berritta").
Il
gilet era chiuso da bottoncini d'argento simili a piccole monete, mentre
per la camicia venivano confezionati a mano dei bottoncini con ago e
filo.
Le
donne conducevano una vita di lavoro e di sacrificio: quando una donna
si sposava, tradizionalmente portava in dote un telaio, una macina
("sa mo'") e gli altri attrezzi per svolgere il suo lavoro di
brava padrona di casa ("su strexiu 'e venu", cioè i canestri
di paglia per la farina, i cereali, il pane). Questa concezione della
donna lavoratrice, distante da lussi e feste, era intuibile anche
dall'abbigliamento semplice, di un'eleganza severa e priva di fronzoli o
dettagli appariscenti.
Il
costume femminile era composto da una lunga gonna a pieghe sciolte, con
l'orlo bordato da un nastro violetto, perchè non si sfilacciasse
("sa vetta muscara"); un giubbetto ("su gipponi"),
un fazzoletto che veniva portato incrociato sul petto ("sa perra 'e
sera"), un grembiule ("su vantaliccu"). I tessuti erano
sempre cotone o lana, tinti di scuro. I capelli venivano strettamente
raccolti in trecce avvolte sul capo e coperte con un mezzo quadrato di
tessuto di colore rosso ("sa tocca"), coperto a sua volta da
un gran fazzoletto di cotone a motivi floreali ("su muncaroi mannu").
Le donne anziane, se lavoravano, potevano tenere in testa anche solo sa
tocca, oppure usavano incrociare il fazzoletto sotto il mento e
annodarne i capi sulla sommità della testa. D'inverno indossavano
sulle spalle o sul capo una sorta di mantellina d'orbace pieghettata,
detta "su panneddu", che poteva avere un bordo superiore di
lana o velluto rosso (per le vedove, nero). Alle ragazze talvolta era
concesso di applicare ai lati di questa mantellina dei lunghi nastri
violetti ("is vetas muscaras"). I gioielli erano davvero
pochi, generalmente d'argento: bottoni per i polsini del giubbino, una
spilla per tenere fermo il fazzoletto incrociato sul petto, orecchini
("is arracaras") e un semplice vellutino nero al collo. Le
donne delle famiglie più ricche possedevano anche uno scialle di
finissima lana, ricamato con seta colorata ("su sciallinu 'e
sera").
Anticamente,
l'abbigliamento
per le nozze era molto simile a quello quotidiano, distaccandosene solo per la
migliore qualità dei tessuti: per il costume tradizionale maschile si usava l'orbace
e il lino più fine, mentre la sposa indossava una gonna di broccato in
seta e sul capo un rettangolo di lana finissima azzurro chiaro, bordato
tono su tono, oppure "su muncaroi mannu".
La
sposa, in epoche più recenti, usava invece indossare "sa
scoffia" (cioè una cuffia di seta rossa), "su
muncaroi biancu" (vale a dire un fazzoletto di tulle bianco,
ricamato ad ago) e "sa mantiglia" ( uno scialle di raso
bianco e azzurro), donati dallo sposo. Si tratta di una usanza
derivata chiaramente dalla tradizione spagnola. |
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