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articolo tratto da la Repubblica del 10 luglio 2003
 

Il Vietnam del Cavaliere

 

 

 

di Massimo Giannini
La Repubblica, 10.07.03

FORTE di una maggioranza senza precedenti (107 seggi alla Camera e 46 al Senato) il governo di centrodestra si rivela uno dei più deboli nella storia d'Italia. Dopo appena due anni, la legislatura entra in una fase di instabilità che ricorda i governicchi balneari della Prima Repubblica. Silvio Berlusconi se la cava con l'ennesima battuta: "Ho lasciato che i ragazzi si sfogassero un po'...". Ma lo "sfogo" è ormai una guerriglia quotidiana tra gli alleati del Polo. Un Vietnam che logora l'esecutivo e paralizza il Parlamento.

I "ragazzi" si tendono imboscate, si impallinano a colpi di fuoco amico. Bossi spara su tutto e su tutti. Affossa l'indultino, vota gli emendamenti dell'Ulivo sulla proroga degli sfratti e sugli sconti per le forniture di gasolio, fa mancare il numero legale sulla riforma Gasparri.

Il senatur bersaglia Pisanu sull'immigrazione e Follini sulle pensioni. Costringe Fini a rinunciare alla "cabina di regia" che reclamava da giorni, senza nemmeno averci messo piede. Com'era prevedibile la "verifica" dentro la maggioranza, che il Cavaliere sperava di chiudere con due cartelline di puro artificio doroteo, è appena cominciata. E non si capisce quando e soprattutto come finirà.

Sul piano "tecnico" la crisi non esiste. Sul piano politico è in pieno corso. E' la crisi di un'alleanza. La schiacciante vittoria del Polo alle elezioni del 2001 aveva cementato un nuovo "blocco" nella società italiana. Ma i partiti che lo rappresentano non hanno elaborato un modello identitario, non hanno costruito un progetto condiviso.

La maggioranza ha tenuto, su una trincea emergenziale che ha esasperato il Paese e destabilizzato le sue istituzioni, finché ha retto la "strategia della tensione" che il Berlusconi-premier ha usato per risolvere le grane giudiziarie del Berlusconi-imputato e gli affari privati del Berlusconi-imprenditore. Congelate le prime e tutelati i secondi, la Casa delle Libertà si è sbriciolata. Oggi il vero "intruso", dentro quelle mura, è la Lega.

La sconfitta alle ultime amministrative (più cocente proprio nelle roccaforti padane) ha fatto riaffiorare le radici "rivoluzionarie" del Carroccio. Bossi paga il prezzo elettorale che ha sempre temuto. Il Senatur nasce "fuori dal Palazzo". Veste la canottiera degli istinti populisti. La camicia di forza istituzionale che ha indossato, rinnovando il patto elettorale con Berlusconi, ridiventa per lui troppo stretta. Nel 2003 ha perso il Friuli ed è arretrato in tutto il Nord-Est, nel 2001 ha ottenuto un magro 3,9%, meno di 1 milione e mezzo di voti. La Lega, impastoiata nelle logiche di coalizione sulla devolution e sui clandestini, sulla previdenza e sulle banche, sente di nuovo il "richiamo della foresta". Come successe nella crisi del '94 e poi alle politiche del '96, quando corse da sola e fece il pieno, incassando al proporzionale il 10,1%, pari a quasi 4 milioni di voti.

Bossi attacca, per non essere attaccato. I suoi bersagli sono An e l'Udc. In questi due anni ha avuto la copertura politica di Berlusconi (che ha placato le sue spinte autonomiste con le cene di Arcore) e la sponda tecnica di Tremonti (che ha blandito la sua base elettorale con le risorse del Tesoro). Ma adesso tutti gli equilibri sono saltati. In cassa non c'è più un euro, e la riforma delle pensioni sembra l'ultima chance per non farsi bocciare la Finanziaria da Bruxelles. Fini e Follini si ribellano, e non vogliono più fare la parte dei figli di un dio minore.

Alla coalizione servirebbe una rinnovata missione politica, e un premier che la renda credibile di fronte all'opinione pubblica, imponendo disciplina e coerenza agli alleati. Ma oggi è proprio questo che manca al centrodestra. Nel Polo si consuma anche e soprattutto la crisi di una leadership, fino a ieri considerata da tutti granitica, indiscussa, pressoché invincibile.

Berlusconi, quell'anomalo intreccio di potere politico e di potenza patrimoniale in cui pubblico e privato sono indistinguibili, non è più quel "capo naturale" che immaginava Alessandro Meluzzi qualche anno fa, capace "per la sua personale audacia e capacità" di diventare "simbolo di una smania irrefrenabile di fare, di agire, di sentirsi vivi". Berlusconi, quell'atipico impasto di carisma personale e di affabulazione mediatica, non è più il "Re Sole" che sognava Giuliano Ferrara, capace di far girare attorno a sé tutta la corte.

I suoi partner non lo considerano più il "garante" degli accordi pregressi e degli impegni futuri. Per questo si allontanano dal bene comune della coalizione e si rinchiudono negli interessi specifici dei partiti, anticipando un ritorno alla cultura del proporzionale che è già realtà nei comportamenti pratici, prima ancora di esserlo anche nelle norme giuridiche.

Il Cavaliere si dimostra una formidabile macchina da guerra per vincere le elezioni, che tuttavia non sa tenere il passo sereno che serve a governare un Paese. Si conferma un poderoso congegno di aggressione propagandistica, che tuttavia non sa reggere la prova della gestione politica. Ha perso il controllo della sua creatura, che impazzisce mentre lui se ne va a Positano.

Quale può essere l'esito di questo impazzimento? In teoria la soluzione più sensata sarebbe una nuova maggioranza imperniata sull'asse Forza Italia-An-Udc, che recuperasse i connotati di un centrodestra moderato e facesse a meno dell'estremismo della Lega, forza irriducibile e irresponsabile: a livello di seggi, Berlusconi conserverebbe un buon margine alla Camera, e uno scarto più modesto al Senato. ln pratica è pressoché impossibile che questo governo possa cadere.

E' escluso che si arrivi a un governo tecnico-istituzionale, o che si torni a votare. C'è il turno di presidenza italiana all'Unione europea, e Ciampi non aprirebbe una crisi né scioglierebbe mai le Camere durante il semestre. Ma da gennaio in poi tutto diventa possibile. Compresa l'ipotesi di elezioni anticipate a maggio, insieme alle europee del 2004. Resta una domanda esiziale: come sopravvivere a un Vietnam lungo sei mesi? E' un problema per il Cavaliere. Ma è soprattutto un problema per l'Italia.

  articolo tratto da la Repubblica del 10 luglio 2003
   

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