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di
Carlo Bonini
ROMA - Raccontano
che, alla vista degli scatoloni, il trambusto abbia rianimato corridoi
e segreterie particolari. Che da una ventina di giorni ne sia uscita
travolta la routine dell'ufficio "secondo" della Direzione
generale degli affari penali del ministero di grazia e giustizia
e del suo direttore, Emma D'Ortona, responsabile della "cooperazione
internazionale". Che, con circospezione, da metà settembre,
agli ingombranti plichi sia stata trovata acconcia e ovattata sistemazione,
impermeabile a sguardi curiosi. E per almeno quattro buoni motivi.
Primo, il mittente di quei cartoni e dei trentadue faldoni in lingua
madre che li appesantiscono: il giudice istruttore spagnolo Baltasar
Garzòn Real. Secondo, il loro contenuto: atti dell'inchiesta
"Telecinco". Terzo, l'oggetto di quelle carte istruttorie:
Silvio Berlusconi, il fratello Paolo, Marcello Dell'Utri e una ventina
di manager "Fininvest". Quarto, il motivo di tanta e urgente
attenzione: richiesta al governo italiano di procedere autonomamente,
attraverso la Procura della Repubblica competente (in questo caso
Roma), a carico del proprio Presidente del Consiglio e dei suoi
ex collaboratori di azienda ("Fininvest") per "reati
commessi in Spagna dal 1989 al 1997".
Parliamo di violazione della legge antitrust,
falso in bilancio, evasione fiscale, frode. Quel che non era mai
accaduto e si riteneva potesse continuare a non accadere per calcolo
politico e fair play diplomatico è dunque accaduto. Il governo
conservatore spagnolo di José Maria Aznar, attraverso il
proprio ministero degli esteri, scioglie ogni paventata ambiguità
e, interpretando alla lettera il principio di divisione dei poteri,
dà rapido corso all'obbligo costituzionale di adempiere tempestivamente
alle sentenze pronunciate nel giugno scorso dall'Audiencia Nacional
e dal Tribunale supremo che chiedono il processo di un premier "amico"
di un paese "amico". Mette in un angolo il governo italiano,
accusandone formalmente il presidente del Consiglio. Ripropone,
macroscopicamente, il nodo del conflitto di interessi. Nella variante,
assolutamente inedita, di un presidente del Consiglio chiamato questa
volta, attraverso il suo ministro di grazia e giustizia, a dare
o meno corso ad un'azione penale di cui è diretto e principale
destinatario per "reati commessi all'estero" in danno
di altro Paese.
E, bene inteso, non nella veste di premier, ma di privato imprenditore.
Diciamolo subito: la storia, per come Repubblica è in grado
ricostruirla sulla base di quanto riferiscono quattro diverse e
qualificate fonti, appare dall'esito verosimilmente segnato, anche
se non ancora formalmente definito. Il ministro di grazia e giustizia
Roberto Castelli e il direttore generale degli affari penali, Augusta
Iannini, attendono a tutt'oggi di valutare lo spessore del lavoro
di Emma D'Ortona, direttore dell'ufficio secondo.
Dunque, la consistenza della sua "istruttoria"
(non ancora conclusa) necessaria a sostenere giuridicamente la restituzione
a Madrid dei 32 faldoni dell'inchiesta Garzòn. A motivare
il perché né Silvio Berlusconi, né nessun altro
dei suoi coimputati conosceranno mai un processo "Telecinco"
in un'aula di giustizia italiana. Epperò, anche e proprio
per questo la storia merita di essere raccontata. Ricostruendo come
la Spagna abbia scelto di investire del "caso" l'Italia.
Come, nei propri uffici, il ministero stia lavorando silente all'affare.
Quali obiezioni frullino sulle scrivanie di chi si prepara a pronunciare
il "no" a Garzòn.
Vediamo. La mossa della magistratura spagnola
poggia su semplici assunti. Nella lettera di accompagnamento dei
32 faldoni istruttori recapitati al ministero di grazia e giustizia,
Madrid richiama l'Italia agli impegni della "Convenzione europea
di assistenza giudiziaria" (se ne cita l'articolo 21). Dunque,
al reciproco patto di rimuovere ogni ostacolo che impedisca o comunque
renda difficile la persecuzione di reati commessi nei Paesi che
quella Convenzione hanno ratificato. Qualunque sia l'ostacolo, chiunque
sia l'imputato.
E' il caso della Spagna e dell'Italia. E' il
caso di Silvio Berlusconi, oggi presidente del Consiglio e ministro
degli esteri, dunque non perseguibile dalla giustizia spagnola anche
per reati a lui attribuiti in veste di privato imprenditore (caso
"Telecinco"). Ebbene, proprio in forza dei princìpi
di quella Convenzione, gli spagnoli indicano in una norma del codice
penale italiano la chiave giuridica e politica del caso. L'articolo
9, terzo comma, del nostro codice penale riconosce al ministro di
grazia e giustizia il potere discrezionale di rendere perseguibili
nel nostro Paese e su iniziativa della nostra magistratura reati
commessi da cittadini italiani all'estero che risiedano in Italia.
Strada agevolmente percorribile per Berlusconi
- ragionano ancora gli spagnoli - alla luce di un'istruttoria già
completata in Spagna (ecco i 32 faldoni in lingua originale) e di
un regime italiano delle immunità che non impedisce di processare
un parlamentare in carica. Si è detto come ad irretire le
argomentazioni spagnole lavori da quattro settimane Emma D'Ortona.
Un magistrato. Ed appare evidente come, nella scelta, il ministro
Castelli tradisca l'intenzione dell'esecutivo di mantenere l'affare
su un binario tecnico, girando largo da ogni implicazione politica
e diplomatica.
Ma certo una qualche risposta "giuridicamente
sostenibile" agli spagnoli andrà pur data. Risposta
che all'osso - e per quanto è dato saperne oggi - così
suona. Buona parte dei reati contestati dagli spagnoli hanno diversa
disciplina in Italia. Impongono una querela di parte, non possono
essere perseguiti d'ufficio. Dunque, a stare alla lettera del codice,
il capo di imputazione spagnolo esce monco ad una prima verifica.
Pone il ministro Castelli nell' "impossibilità",
quand'anche volesse, di dare corso all'azione penale così
come configurata da Garzòn.
Ma c'è di più. A soccorrere Berlusconi,
sarebbe un'unica - e verosimilmente "decisiva" - norma:
l'articolo 128 del codice penale, lì dove, al secondo comma,
pone una condizione temporale perché si possa procedere nei
confronti di un cittadino italiano per reati commessi all'estero.
Che non siano passati più di tre anni dai fatti che gli vengono
addebitati. La fonte di Repubblica sorride: "Tra il 1997, data
dell'ultimo reato contestato dagli spagnoli a Berlusconi, e il 2002
ci sono 5 anni. Dunque, Berlusconi è salvo. Del resto, nel
processo penale è sempre così. E' questione di tempo.
A Milano, come a Madrid".
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