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articolo tratto da "Repubblica" del 16 ottobre 2002


 

 

 








 

La documentazione arriva a Roma. Contestati evasione fiscale,
falso in bilancio, frode, violazione della legge Antitrust

TELECINCO, LE CARTE DI GARZON:

"BERLUSCONI VA PROCESSATO"
ma Castelli sta già studiando le contromosse

 

 

 

di Carlo Bonini

ROMA - Raccontano che, alla vista degli scatoloni, il trambusto abbia rianimato corridoi e segreterie particolari. Che da una ventina di giorni ne sia uscita travolta la routine dell'ufficio "secondo" della Direzione generale degli affari penali del ministero di grazia e giustizia e del suo direttore, Emma D'Ortona, responsabile della "cooperazione internazionale". Che, con circospezione, da metà settembre, agli ingombranti plichi sia stata trovata acconcia e ovattata sistemazione, impermeabile a sguardi curiosi. E per almeno quattro buoni motivi. Primo, il mittente di quei cartoni e dei trentadue faldoni in lingua madre che li appesantiscono: il giudice istruttore spagnolo Baltasar Garzòn Real. Secondo, il loro contenuto: atti dell'inchiesta "Telecinco". Terzo, l'oggetto di quelle carte istruttorie: Silvio Berlusconi, il fratello Paolo, Marcello Dell'Utri e una ventina di manager "Fininvest". Quarto, il motivo di tanta e urgente attenzione: richiesta al governo italiano di procedere autonomamente, attraverso la Procura della Repubblica competente (in questo caso Roma), a carico del proprio Presidente del Consiglio e dei suoi ex collaboratori di azienda ("Fininvest") per "reati commessi in Spagna dal 1989 al 1997".

Parliamo di violazione della legge antitrust, falso in bilancio, evasione fiscale, frode. Quel che non era mai accaduto e si riteneva potesse continuare a non accadere per calcolo politico e fair play diplomatico è dunque accaduto. Il governo conservatore spagnolo di José Maria Aznar, attraverso il proprio ministero degli esteri, scioglie ogni paventata ambiguità e, interpretando alla lettera il principio di divisione dei poteri, dà rapido corso all'obbligo costituzionale di adempiere tempestivamente alle sentenze pronunciate nel giugno scorso dall'Audiencia Nacional e dal Tribunale supremo che chiedono il processo di un premier "amico" di un paese "amico". Mette in un angolo il governo italiano, accusandone formalmente il presidente del Consiglio. Ripropone, macroscopicamente, il nodo del conflitto di interessi. Nella variante, assolutamente inedita, di un presidente del Consiglio chiamato questa volta, attraverso il suo ministro di grazia e giustizia, a dare o meno corso ad un'azione penale di cui è diretto e principale destinatario per "reati commessi all'estero" in danno di altro Paese.

E, bene inteso, non nella veste di premier, ma di privato imprenditore. Diciamolo subito: la storia, per come Repubblica è in grado ricostruirla sulla base di quanto riferiscono quattro diverse e qualificate fonti, appare dall'esito verosimilmente segnato, anche se non ancora formalmente definito. Il ministro di grazia e giustizia Roberto Castelli e il direttore generale degli affari penali, Augusta Iannini, attendono a tutt'oggi di valutare lo spessore del lavoro di Emma D'Ortona, direttore dell'ufficio secondo.

Dunque, la consistenza della sua "istruttoria" (non ancora conclusa) necessaria a sostenere giuridicamente la restituzione a Madrid dei 32 faldoni dell'inchiesta Garzòn. A motivare il perché né Silvio Berlusconi, né nessun altro dei suoi coimputati conosceranno mai un processo "Telecinco" in un'aula di giustizia italiana. Epperò, anche e proprio per questo la storia merita di essere raccontata. Ricostruendo come la Spagna abbia scelto di investire del "caso" l'Italia. Come, nei propri uffici, il ministero stia lavorando silente all'affare. Quali obiezioni frullino sulle scrivanie di chi si prepara a pronunciare il "no" a Garzòn.

Vediamo. La mossa della magistratura spagnola poggia su semplici assunti. Nella lettera di accompagnamento dei 32 faldoni istruttori recapitati al ministero di grazia e giustizia, Madrid richiama l'Italia agli impegni della "Convenzione europea di assistenza giudiziaria" (se ne cita l'articolo 21). Dunque, al reciproco patto di rimuovere ogni ostacolo che impedisca o comunque renda difficile la persecuzione di reati commessi nei Paesi che quella Convenzione hanno ratificato. Qualunque sia l'ostacolo, chiunque sia l'imputato.

E' il caso della Spagna e dell'Italia. E' il caso di Silvio Berlusconi, oggi presidente del Consiglio e ministro degli esteri, dunque non perseguibile dalla giustizia spagnola anche per reati a lui attribuiti in veste di privato imprenditore (caso "Telecinco"). Ebbene, proprio in forza dei princìpi di quella Convenzione, gli spagnoli indicano in una norma del codice penale italiano la chiave giuridica e politica del caso. L'articolo 9, terzo comma, del nostro codice penale riconosce al ministro di grazia e giustizia il potere discrezionale di rendere perseguibili nel nostro Paese e su iniziativa della nostra magistratura reati commessi da cittadini italiani all'estero che risiedano in Italia.

Strada agevolmente percorribile per Berlusconi - ragionano ancora gli spagnoli - alla luce di un'istruttoria già completata in Spagna (ecco i 32 faldoni in lingua originale) e di un regime italiano delle immunità che non impedisce di processare un parlamentare in carica. Si è detto come ad irretire le argomentazioni spagnole lavori da quattro settimane Emma D'Ortona. Un magistrato. Ed appare evidente come, nella scelta, il ministro Castelli tradisca l'intenzione dell'esecutivo di mantenere l'affare su un binario tecnico, girando largo da ogni implicazione politica e diplomatica.

Ma certo una qualche risposta "giuridicamente sostenibile" agli spagnoli andrà pur data. Risposta che all'osso - e per quanto è dato saperne oggi - così suona. Buona parte dei reati contestati dagli spagnoli hanno diversa disciplina in Italia. Impongono una querela di parte, non possono essere perseguiti d'ufficio. Dunque, a stare alla lettera del codice, il capo di imputazione spagnolo esce monco ad una prima verifica. Pone il ministro Castelli nell' "impossibilità", quand'anche volesse, di dare corso all'azione penale così come configurata da Garzòn.

Ma c'è di più. A soccorrere Berlusconi, sarebbe un'unica - e verosimilmente "decisiva" - norma: l'articolo 128 del codice penale, lì dove, al secondo comma, pone una condizione temporale perché si possa procedere nei confronti di un cittadino italiano per reati commessi all'estero. Che non siano passati più di tre anni dai fatti che gli vengono addebitati. La fonte di Repubblica sorride: "Tra il 1997, data dell'ultimo reato contestato dagli spagnoli a Berlusconi, e il 2002 ci sono 5 anni. Dunque, Berlusconi è salvo. Del resto, nel processo penale è sempre così. E' questione di tempo. A Milano, come a Madrid".

  articolo tratto da "Repubblica" del 16 ottobre 2002

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