di Eugenio Scalfari
IL MIO tema di questa domenica, nonostante l'articolo di giovedì
scorso del nostro direttore sul medesimo argomento, che condivido
dalla prima all'ultima riga, non può che essere lo scontro
tra governo e maggioranza parlamentare da un lato e magistratura
italiana dall'altro: ho anch'io infatti un paio di considerazioni
da aggiungere dopo l'intervento del capo dello Stato, dopo la controreplica
del presidente del Consiglio e dopo la ribadita decisione di tutta
la destra di marciare compatta e senza ripensamenti verso la non
processabilità delle più alte cariche dello Stato
e il ripristino dell'immunità di tutti i membri del Parlamento.
Prima d'affrontare l'argomento
lasciatemi però spendere due parole sulla legnata presa da
Tony Blair e dal partito laburista nelle elezioni amministrative
che riguardavano trenta milioni di elettori (dei quali ha votato
solo il 37 per cento) svoltasi l'altro ieri in Gran Bretagna: la
prima grande consultazione avvenuta in un paese europeo protagonista
nelle vicende della guerra irachena e nelle opposte visioni interatlantiche
che si sono affrontate prima, durante e dopo quel conflitto.
La stampa internazionale
aveva segnalato la forte impennata pacifista prodottasi nell'opinione
pubblica inglese, a somiglianza di quanto avveniva in Germania,
Francia, Spagna, Italia, Belgio, Olanda, Grecia nelle settimane
precedenti la decisione di Bush e di Blair di marciare da soli e
al di fuori delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu.
Ma poi, a conflitto iniziato e infine vinto in meno di un mese,
il trend dell'opinione pubblica sembrava essersi capovolto, soprattutto
in Gran Bretagna: forse in un sussulto di patriottismo e, perché
no, di entusiasmo neo-imperiale, il "premier" aveva riguadagnato
nei sondaggi tutto il terreno perduto e la sua politica aveva ricevuto
dopo tanto suo travagliare l'approvazione popolare.
Poteva così riprender
vigore la campagna filo-blairiana tanto diffusa tra i riformisti
all'acqua di rose presenti in tutti gli schieramenti di destra e
di sinistra, che vedono nel "premier" britannico un modello
da imitare e un punto di riferimento sicuramente vincente.
La sinistra che fa una saggia
politica di destra è sempre stata l'ipotesi preferita dai
moderati e dai trasformisti, assai di più che non l'ipotesi
speculare e altamente improbabile di una destra che faccia una politica
di sinistra. Da questo punto di vista e con i tempi che corrono,
chi meglio di Tony Blair? In Italia - terra di furbi e di mezze
calzette - il metodista che sta per trasmigrare al cattolicesimo
ma se ne infischia dei moniti del Papa contro la guerra, il laburista
che firma documenti sociali ed economici insieme ad Aznar e a Berlusconi,
il sostenitore dell'Onu che invia i Royal Marine nello Shatt el
Arab contro il parere del Consiglio di sicurezza e della maggioranza
dei suoi stessi elettori, era diventato un mito se non addirittura
una religione.
Ma l'altro ieri si è
passati dai sondaggi al voto popolare, cioè dalla realtà
virtuale a quella effettiva, e si è visto che non era vero
niente di quanto era stato vaticinato nelle precedenti settimane:
Blair e il suo partito sono stati pesantemente puniti dagli elettori
laburisti, hanno perso un milione di voti e ventinove città
tra le quali Birmingham, Brighton e Coventry, il voto favorevole
alla guerra irachena si è riversato sui conservatori, i liberal-democratici,
decisamente contrari alla guerra, hanno incassato un cospicuo successo
raggiungendo le stesse percentuali di consenso dei laburisti. Non
tutte le ciambelle riescono col buco. Quella di Blair, al primo
vero appuntamento con la realtà post-bellica, non è
riuscita. Serva almeno di insegnamento.
Ma veniamo alle cose di casa nostra, ben altrimenti preoccupanti.
Il presidente della Repubblica, contrariamente alla sua abitudine
d'intervenire "a freddo" sulle situazioni bollenti, questa
volta si è fatto sentire dopo appena ventiquattr'ore dalla
lettera dello scandalo, inviata dal presidente del Consiglio al
giornale di Giuliano Ferrara. Perché dello scandalo? Perché
in quella lettera, nero su bianco, Silvio Berlusconi accusa i giudici
della sentenza Previti di essere, né più né
meno, che dei golpisti decisi a rovesciare un governo votato dal
popolo sovrano.
Pertanto - scrive il presidente
del Consiglio - spetterà al popolo sovrano, cioè al
governo e alla maggioranza parlamentare, spezzare le armi di quei
giudici felloni e ridurli al silenzio. In che modo? In vari modi.
Anzitutto sottraendo loro il controllo di legalità sulla
classe politica e in particolare, ovviamente, sulla maggioranza
imperante. Poi sottoponendo il pubblico ministero al potere esecutivo
attraverso il marchingegno della separazione delle carriere. Infine
estendendo il patteggiamento a tutti gli imputati fino a cinque
anni di pena edittale (ma c'è chi chiede di estendere abbondantemente
quella soglia).
Ciampi ha risposto come si
addice a chi rappresenta la nazione ed ha con sé il pieno
consenso della grandissima maggioranza degli italiani: ha ricordato
che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, che le sentenze
debbono essere rispettate e possono essere corrette solo dai successivi
livelli di giurisdizione previsti dall'ordinamento, che la democrazia
si fonda sulla divisione dei poteri e sulla non interferenza d'un
potere sull'altro, che l'imputato comunque è presunto innocente
fino a condanna definitiva. Tutte cose ben note, a ricordare le
quali tuttavia si va ad urtare frontalmente contro l'improvvida
irruenza di chi ne calpesta quotidianamente l'esistenza e la validità.
Pascal ha scritto che i potenti
ritengono giuste soltanto le azioni che accrescono la loro forza
mentre la forza dovrebbe essere usata solo quando si pone al servizio
della giustizia. Scriveva queste assiomatiche verità nel
contesto del potere assoluto delle monarchie nell'ordine temporale
e del Papato in quello spirituale. Fa senso il fatto che il suo
pensiero sia ancora di così stringente attualità agli
inizi del ventunesimo secolo.
Alle pacate ma ferme parole
del capo dello Stato, il presidente del Consiglio ha replicato che
lui non aveva parlato della sentenza Previti né del Tribunale
di Milano e che quindi i moniti di Ciampi non potevano essere diretti
a lui. Dopo di che ha ribadito tutti i propositi, nessuno escluso,
contenuti nella famigerata lettera del giorno prima. La situazione
politica che si è determinata a questo punto è dunque
tanto chiara quanto estremamente preoccupante: Berlusconi ha deciso
di dare una spallata definitiva all'ordinamento giudiziario saltando
tutte le mediazioni e gli ostacoli che si frappongono.
Per mantenere la compattezza
all'interno della Casa delle libertà minaccia l'eventuale
ricorso alle elezioni anticipate; i numeri della maggioranza parlamentare
gli garantiscono l'approvazione rapida dei provvedimenti legislativi
"anti-giudici"; l'azione di garanzia tenacemente svolta
dal capo dello Stato viene ignorata con il chiaro intendimento di
travolgerla; l'opposizione parlamentare è considerata del
tutto irrilevante sia per la sua consistenza numerica sia per le
persistenti divisioni al proprio interno.
Infine, per assestare al
centrosinistra un colpo che nelle intenzioni berlusconiane dovrebbe
essere definitivo, nelle prossime udienze del processo Sme che lo
vede direttamente imputato il presidente del Consiglio attaccherà
personalmente Romano Prodi (che all'epoca dei fatti fu parte in
causa come presidente dell'Iri) cercando di coinvolgerlo nel processo
e comunque di minarne la credibilità sia in Europa sia in
Italia se dovesse ritornarvi in tempo utile per prendere la guida
dell'Ulivo.
In questo panorama di terra
bruciata Berlusconi non si ferma neppure dinanzi al suo imminente
appuntamento di presidente di turno del Consiglio dei ministri europeo,
che consiglierebbe atteggiamenti più prudenti e moderati.
Evidentemente fida sull'amicizia con Bush (e di risulta con Blair)
come punto di forza. C'è dunque da aspettarsi una presidenza
italiana che giocherà scopertamente in Europa come lunga
mano della Casa Bianca per dividere anziché recuperare una
stabile intesa intereuropea.
Tutti questi aspetti non
sono nuovi e in buon parte erano prevedibili e previsti, ma certo
la condanna di Previti che implicitamente e moralmente si estende
anche a Berlusconi, mandante e beneficiario delle operazioni condannate,
ne ha esaltato lo spirito eversivo ed ha prodotto una serie di rotture
istituzionali. La più grave è quella dei rapporti
tra il presidente del Consiglio e il capo dello Stato.
Ciampi tenterà di
ricucirla o quantomeno di stemperarla finché possibile, consapevole
delle conseguenze che una crisi tra le due più alte cariche
del paese potrebbe provocare, ma si sta trovando di fronte fin d'ora
un vero e proprio "assalto all'arma bianca" da parte del
presidente del Consiglio che ha come obiettivo principale di obbligarlo
a miti consigli e come obiettivo subordinato quello di renderlo
inoffensivo se dovesse resistere alla carica della cavalleria pesante
berlusconiana.
Al di là della "moral
suasion" che Ciampi predilige ma che non pare poter produrre
più alcun effetto positivo, il solo strumento per ostacolare
le eventuali violazioni di costituzionalità di cui il capo
dello Stato disponga è il rinvio alle Camere di atti legislativi
chiaramente incostituzionali. Ma le Camere possono sempre vanificare
il rinvio votando nuovamente il testo respinto dal Quirinale o apportandovi
modifiche di pura forma e del tutto irrilevanti.
Nell'ottica della terra bruciata
sono proprio queste le cose che potrebbero accadere; quantomeno
è questa la minaccia implicita ma ormai evidente che Berlusconi
agita nei confronti del presidente della Repubblica. Chi conosce
Ciampi o ha imparato a comprenderne i comportamenti pubblici sa
però che il Presidente non è persona da arretrare
di fronte alle minacce. Cercherà di usare tutta la prudenza
che la sua carica suggerisce ma non si presterà certo a fare
da scendiletto alle tentazioni eversive di instaurare quella dittatura
della maggioranza che è l'opposto della democrazia liberale
e costituzionale.
Su questo punto essenziale
nei prossimi mesi si potrà concretamente misurare il livello
del "rischio paese", la credibilità della democrazia
italiana ed anche il suo ruolo - positivo o negativo - nella costruzione
dell'Europa.
Post scriptum. Un breve commento
merita l'assoluzione in appello - a conferma della sentenza già
resa in primo grado - di Giulio Andreotti nel processo che lo vedeva
imputato di associazione mafiosa dinanzi al Tribunale di Palermo.
Tralascio gli aspetti tecnici della sentenza che non mi sembrano
di speciale rilievo; tralascio anche, perché più volte
se n'è parlato, la differenza che corre tra il giudizio politico
su una personalità così complessa come quella andreottiana
e la valutazione giudiziaria che deve rigorosamente attenersi ai
profili di reato suffragati da prove certe, se ce ne sono.
Ma c'è stato un punto,
mai così importante come nelle circostanze che stiamo attualmente
attraversando, che deve essere sottolineato con forza. L'ha già
fatto il presidente della Corte d'appello di Palermo al termine
dell'ultima udienza, prima di ritirarsi in camera di consiglio per
redigere la sentenza: riguarda il comportamento processuale dell'imputato
Giulio Andreotti, ineccepibile per correttezza formale e sostanziale,
per il rispetto verso la Corte e le altre parti in causa e perfino
verso i testimoni d'accusa contro di lui.
Andreotti si è difeso
nel processo e non contro il processo, anche nel caso Pecorelli,
sfociato in una condanna in secondo grado a ventiquattr'anni di
reclusione, che ancora pende sul suo capo. Il presidente della Corte
d'appello di Palermo ha ringraziato l'imputato Andreotti per la
sua correttezza processuale e noi condividiamo quel ringraziamento.
Il fatto che l'imputato Andreotti, comportandosi in tal modo, non
abbia fatto altro che il suo stretto dovere e che solo per questo
meriti di essere ringraziato, ci fa misurare a quale punto di degrado
siamo giunti: in un paese dove le più alte istituzioni violano
ogni correttezza e dove la maggioranza parlamentare aspira a costituirsi
in dittatura, chi rispetta la Corte che lo sta giudicando anziché
vilipenderla e delegittimarla si rende con ciò meritevole
di elogio. Questo, a nostra memoria, non era mai accaduto prima
d'ora.
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