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articolo tratto da "la Repubblica" del 4 maggio 2003


 

 

 








 
la spallata finale al potere giudiziario

 

 

 

di Eugenio Scalfari

IL MIO tema di questa domenica, nonostante l'articolo di giovedì scorso del nostro direttore sul medesimo argomento, che condivido dalla prima all'ultima riga, non può che essere lo scontro tra governo e maggioranza parlamentare da un lato e magistratura italiana dall'altro: ho anch'io infatti un paio di considerazioni da aggiungere dopo l'intervento del capo dello Stato, dopo la controreplica del presidente del Consiglio e dopo la ribadita decisione di tutta la destra di marciare compatta e senza ripensamenti verso la non processabilità delle più alte cariche dello Stato e il ripristino dell'immunità di tutti i membri del Parlamento.

Prima d'affrontare l'argomento lasciatemi però spendere due parole sulla legnata presa da Tony Blair e dal partito laburista nelle elezioni amministrative che riguardavano trenta milioni di elettori (dei quali ha votato solo il 37 per cento) svoltasi l'altro ieri in Gran Bretagna: la prima grande consultazione avvenuta in un paese europeo protagonista nelle vicende della guerra irachena e nelle opposte visioni interatlantiche che si sono affrontate prima, durante e dopo quel conflitto.

La stampa internazionale aveva segnalato la forte impennata pacifista prodottasi nell'opinione pubblica inglese, a somiglianza di quanto avveniva in Germania, Francia, Spagna, Italia, Belgio, Olanda, Grecia nelle settimane precedenti la decisione di Bush e di Blair di marciare da soli e al di fuori delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ma poi, a conflitto iniziato e infine vinto in meno di un mese, il trend dell'opinione pubblica sembrava essersi capovolto, soprattutto in Gran Bretagna: forse in un sussulto di patriottismo e, perché no, di entusiasmo neo-imperiale, il "premier" aveva riguadagnato nei sondaggi tutto il terreno perduto e la sua politica aveva ricevuto dopo tanto suo travagliare l'approvazione popolare.

Poteva così riprender vigore la campagna filo-blairiana tanto diffusa tra i riformisti all'acqua di rose presenti in tutti gli schieramenti di destra e di sinistra, che vedono nel "premier" britannico un modello da imitare e un punto di riferimento sicuramente vincente.

La sinistra che fa una saggia politica di destra è sempre stata l'ipotesi preferita dai moderati e dai trasformisti, assai di più che non l'ipotesi speculare e altamente improbabile di una destra che faccia una politica di sinistra. Da questo punto di vista e con i tempi che corrono, chi meglio di Tony Blair? In Italia - terra di furbi e di mezze calzette - il metodista che sta per trasmigrare al cattolicesimo ma se ne infischia dei moniti del Papa contro la guerra, il laburista che firma documenti sociali ed economici insieme ad Aznar e a Berlusconi, il sostenitore dell'Onu che invia i Royal Marine nello Shatt el Arab contro il parere del Consiglio di sicurezza e della maggioranza dei suoi stessi elettori, era diventato un mito se non addirittura una religione.

Ma l'altro ieri si è passati dai sondaggi al voto popolare, cioè dalla realtà virtuale a quella effettiva, e si è visto che non era vero niente di quanto era stato vaticinato nelle precedenti settimane: Blair e il suo partito sono stati pesantemente puniti dagli elettori laburisti, hanno perso un milione di voti e ventinove città tra le quali Birmingham, Brighton e Coventry, il voto favorevole alla guerra irachena si è riversato sui conservatori, i liberal-democratici, decisamente contrari alla guerra, hanno incassato un cospicuo successo raggiungendo le stesse percentuali di consenso dei laburisti. Non tutte le ciambelle riescono col buco. Quella di Blair, al primo vero appuntamento con la realtà post-bellica, non è riuscita. Serva almeno di insegnamento.

Ma veniamo alle cose di casa nostra, ben altrimenti preoccupanti. Il presidente della Repubblica, contrariamente alla sua abitudine d'intervenire "a freddo" sulle situazioni bollenti, questa volta si è fatto sentire dopo appena ventiquattr'ore dalla lettera dello scandalo, inviata dal presidente del Consiglio al giornale di Giuliano Ferrara. Perché dello scandalo? Perché in quella lettera, nero su bianco, Silvio Berlusconi accusa i giudici della sentenza Previti di essere, né più né meno, che dei golpisti decisi a rovesciare un governo votato dal popolo sovrano.

Pertanto - scrive il presidente del Consiglio - spetterà al popolo sovrano, cioè al governo e alla maggioranza parlamentare, spezzare le armi di quei giudici felloni e ridurli al silenzio. In che modo? In vari modi. Anzitutto sottraendo loro il controllo di legalità sulla classe politica e in particolare, ovviamente, sulla maggioranza imperante. Poi sottoponendo il pubblico ministero al potere esecutivo attraverso il marchingegno della separazione delle carriere. Infine estendendo il patteggiamento a tutti gli imputati fino a cinque anni di pena edittale (ma c'è chi chiede di estendere abbondantemente quella soglia).

Ciampi ha risposto come si addice a chi rappresenta la nazione ed ha con sé il pieno consenso della grandissima maggioranza degli italiani: ha ricordato che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, che le sentenze debbono essere rispettate e possono essere corrette solo dai successivi livelli di giurisdizione previsti dall'ordinamento, che la democrazia si fonda sulla divisione dei poteri e sulla non interferenza d'un potere sull'altro, che l'imputato comunque è presunto innocente fino a condanna definitiva. Tutte cose ben note, a ricordare le quali tuttavia si va ad urtare frontalmente contro l'improvvida irruenza di chi ne calpesta quotidianamente l'esistenza e la validità.

Pascal ha scritto che i potenti ritengono giuste soltanto le azioni che accrescono la loro forza mentre la forza dovrebbe essere usata solo quando si pone al servizio della giustizia. Scriveva queste assiomatiche verità nel contesto del potere assoluto delle monarchie nell'ordine temporale e del Papato in quello spirituale. Fa senso il fatto che il suo pensiero sia ancora di così stringente attualità agli inizi del ventunesimo secolo.

Alle pacate ma ferme parole del capo dello Stato, il presidente del Consiglio ha replicato che lui non aveva parlato della sentenza Previti né del Tribunale di Milano e che quindi i moniti di Ciampi non potevano essere diretti a lui. Dopo di che ha ribadito tutti i propositi, nessuno escluso, contenuti nella famigerata lettera del giorno prima. La situazione politica che si è determinata a questo punto è dunque tanto chiara quanto estremamente preoccupante: Berlusconi ha deciso di dare una spallata definitiva all'ordinamento giudiziario saltando tutte le mediazioni e gli ostacoli che si frappongono.

Per mantenere la compattezza all'interno della Casa delle libertà minaccia l'eventuale ricorso alle elezioni anticipate; i numeri della maggioranza parlamentare gli garantiscono l'approvazione rapida dei provvedimenti legislativi "anti-giudici"; l'azione di garanzia tenacemente svolta dal capo dello Stato viene ignorata con il chiaro intendimento di travolgerla; l'opposizione parlamentare è considerata del tutto irrilevante sia per la sua consistenza numerica sia per le persistenti divisioni al proprio interno.

Infine, per assestare al centrosinistra un colpo che nelle intenzioni berlusconiane dovrebbe essere definitivo, nelle prossime udienze del processo Sme che lo vede direttamente imputato il presidente del Consiglio attaccherà personalmente Romano Prodi (che all'epoca dei fatti fu parte in causa come presidente dell'Iri) cercando di coinvolgerlo nel processo e comunque di minarne la credibilità sia in Europa sia in Italia se dovesse ritornarvi in tempo utile per prendere la guida dell'Ulivo.

In questo panorama di terra bruciata Berlusconi non si ferma neppure dinanzi al suo imminente appuntamento di presidente di turno del Consiglio dei ministri europeo, che consiglierebbe atteggiamenti più prudenti e moderati. Evidentemente fida sull'amicizia con Bush (e di risulta con Blair) come punto di forza. C'è dunque da aspettarsi una presidenza italiana che giocherà scopertamente in Europa come lunga mano della Casa Bianca per dividere anziché recuperare una stabile intesa intereuropea.

Tutti questi aspetti non sono nuovi e in buon parte erano prevedibili e previsti, ma certo la condanna di Previti che implicitamente e moralmente si estende anche a Berlusconi, mandante e beneficiario delle operazioni condannate, ne ha esaltato lo spirito eversivo ed ha prodotto una serie di rotture istituzionali. La più grave è quella dei rapporti tra il presidente del Consiglio e il capo dello Stato.

Ciampi tenterà di ricucirla o quantomeno di stemperarla finché possibile, consapevole delle conseguenze che una crisi tra le due più alte cariche del paese potrebbe provocare, ma si sta trovando di fronte fin d'ora un vero e proprio "assalto all'arma bianca" da parte del presidente del Consiglio che ha come obiettivo principale di obbligarlo a miti consigli e come obiettivo subordinato quello di renderlo inoffensivo se dovesse resistere alla carica della cavalleria pesante berlusconiana.

Al di là della "moral suasion" che Ciampi predilige ma che non pare poter produrre più alcun effetto positivo, il solo strumento per ostacolare le eventuali violazioni di costituzionalità di cui il capo dello Stato disponga è il rinvio alle Camere di atti legislativi chiaramente incostituzionali. Ma le Camere possono sempre vanificare il rinvio votando nuovamente il testo respinto dal Quirinale o apportandovi modifiche di pura forma e del tutto irrilevanti.

Nell'ottica della terra bruciata sono proprio queste le cose che potrebbero accadere; quantomeno è questa la minaccia implicita ma ormai evidente che Berlusconi agita nei confronti del presidente della Repubblica. Chi conosce Ciampi o ha imparato a comprenderne i comportamenti pubblici sa però che il Presidente non è persona da arretrare di fronte alle minacce. Cercherà di usare tutta la prudenza che la sua carica suggerisce ma non si presterà certo a fare da scendiletto alle tentazioni eversive di instaurare quella dittatura della maggioranza che è l'opposto della democrazia liberale e costituzionale.

Su questo punto essenziale nei prossimi mesi si potrà concretamente misurare il livello del "rischio paese", la credibilità della democrazia italiana ed anche il suo ruolo - positivo o negativo - nella costruzione dell'Europa.

Post scriptum. Un breve commento merita l'assoluzione in appello - a conferma della sentenza già resa in primo grado - di Giulio Andreotti nel processo che lo vedeva imputato di associazione mafiosa dinanzi al Tribunale di Palermo. Tralascio gli aspetti tecnici della sentenza che non mi sembrano di speciale rilievo; tralascio anche, perché più volte se n'è parlato, la differenza che corre tra il giudizio politico su una personalità così complessa come quella andreottiana e la valutazione giudiziaria che deve rigorosamente attenersi ai profili di reato suffragati da prove certe, se ce ne sono.

Ma c'è stato un punto, mai così importante come nelle circostanze che stiamo attualmente attraversando, che deve essere sottolineato con forza. L'ha già fatto il presidente della Corte d'appello di Palermo al termine dell'ultima udienza, prima di ritirarsi in camera di consiglio per redigere la sentenza: riguarda il comportamento processuale dell'imputato Giulio Andreotti, ineccepibile per correttezza formale e sostanziale, per il rispetto verso la Corte e le altre parti in causa e perfino verso i testimoni d'accusa contro di lui.

Andreotti si è difeso nel processo e non contro il processo, anche nel caso Pecorelli, sfociato in una condanna in secondo grado a ventiquattr'anni di reclusione, che ancora pende sul suo capo. Il presidente della Corte d'appello di Palermo ha ringraziato l'imputato Andreotti per la sua correttezza processuale e noi condividiamo quel ringraziamento. Il fatto che l'imputato Andreotti, comportandosi in tal modo, non abbia fatto altro che il suo stretto dovere e che solo per questo meriti di essere ringraziato, ci fa misurare a quale punto di degrado siamo giunti: in un paese dove le più alte istituzioni violano ogni correttezza e dove la maggioranza parlamentare aspira a costituirsi in dittatura, chi rispetta la Corte che lo sta giudicando anziché vilipenderla e delegittimarla si rende con ciò meritevole di elogio. Questo, a nostra memoria, non era mai accaduto prima d'ora.

 

   

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