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articolo tratto da "l'Unità" del 31 gennaio 2002
 
la riforma della riforma della riforma

 

 

 

di Nicola Tranfaglia

Non si sa ancora quando, dopo l’inattesa bocciatura di quindici giorni fa, il ministro dell’Università, dell’Istruzione e della ricerca, Letizia Moratti, presenterà al Consiglio dei ministri il disegno di legge per la riforma dei cicli scolastici con la speranza di farlo passare. Dopo la discussione di queste settimane, il ministro ha già introdotto una modifica di rilievo: all’articolo 4 si dice con chiarezza che «il liceo ha durata quinquennale». Poiché proprio su questo giornale si era messa in rilievo con forza l’assurdità di una durata di soli quattro anni, non c’è che da compiacersene.
Peccato che si insista sui sei anni per l’ingresso nella scuola primaria giacché gli studenti che seguiranno i licei usciranno così a diciannove anni e non a diciotto come avviene nel resto dell’Europa.
Peraltro nell’articolo 1 si afferma che l’obbligo scolastico è di dodici e non di tredici anni come sarebbe logico con il ritorno dei licei alla durata quinquennale.

Dobbiamo pensare allora che i giovani che andranno alla formazione professionale faranno solo dodici di formazione e quelli destinati ai licei ne faranno tredici? La risposta all’interrogativo per ora non è disponibile ma è preoccupante giacché fissa obblighi differenti a seconda che si vada a scuola oppure alla formazione professionale: e i secondi, a quanto pare, sono i figli di un dio minore. Il testo del disegno di legge, fatto di successivi aggiustamenti dovuti ai forti dissensi emersi nella maggioranza e alla incerta competenza dello staff ministeriale, conserva numerose contraddizioni interne che la lettura del testo evoca ad ogni pie’ sospinto.
Ma andiamo avanti sui punti che, in questa fase, appaiono di maggior importanza.

L’articolo 4 che regola il secondo ciclo di istruzione e formazione stabilisce nel suo ultimo comma che «è garantita la possibilità di passare dal sistema dei licei al sistema dell’istruzione e della formazione professionale e viceversa, mediante apposite iniziative didattiche, finalizzate all’acquisizione di una preparazione adeguata alla nuova scelta»...

Ma l’articolo nulla dice, eccetto un generico accenno al possibile riconoscimento di crediti acquisiti nell’uno e nell’altro percorso, sulla praticabilità del passaggio. Gli studenti, secondo il disegno di legge, dovrebbero scegliere, al termine della secondaria di primo grado, cioè a quattordici anni, tra l’accesso al liceo e quello alla formazione professionale. In seguito potrebbero tornare indietro dalla formazione professionale al liceo o viceversa. Ma quale sarà il rapporto tra i contenuti studiati nell’una e nell’altra forma di istruzione? Nulla si dice al riguardo e l’idea che tutto sia determinato in seguito sulla base di decreti ministeriali magari concordati con le varie regioni (visto che in base alla revisione del titolo V della costituzione la competenza, checché dica il ministro, è passata alla regione) appare francamente agghiacciante. La formazione professionale è un settore arretrato e vecchio del sistema e applicare la riforma dal prossimo anno senza aver costruito nulla di nuovo in questo campo sembra, a dir poco temerario.

Il secondo aspetto problematico è quello della cosiddetta alternanza scuola-lavoro al servizio delle imprese che il disegno Moratti fissa. Il ministro nel nuovo testo prevede che dai quindici ai diciotto anni gli studenti possano svolgere la propria attività formativa con «periodi di tirocinio e stage presso le imprese» alla sola condizione di convenzioni scuola-impresa e che queste ultime (sempre, se vogliono) un contributo alla scuola «finalizzato all’erogazione di borse di studio agli studenti».

Ora questo è un punto di grande importanza per le nuove generazioni. Quali saranno le garanzie di cui potranno disporre i giovani e la scuola medesima di fronte alla tentazione delle imprese di utilizzare la forza lavoro dei quindicenni-diciottenni per i propri obbiettivi immediati e senza tener conto abbastanza delle esigenze formative di quei giovani? A questi interrogativi nulla si risponde nel testo legislativo e francamente sarebbe difficile fidarsi di un ministro che parla della scuola come di un’azienda e che ha già smantellato la scuola pubblica a vantaggio di quella privata. C’è da sperare che il parlamento su una materia come questa non dia delega all’esecutivo come sembra chiedere il disegno di legge. Il terzo e ultimo punto che vale la pena richiamare, sia pure sinteticamente, riguarda la formazione dei futuri insegnanti della scuola di ogni ordine e grado.

È noto che tra quattro-cinque anni il nostro paese avrà bisogno di un numero assai alto di insegnanti giacché quella che è stata definita la generazione del ’68 andrà in gran parte in pensione. Ebbene per quelli che prenderanno il loro posto si delinea, secondo l’articolo 7 del disegno di legge Moratti un assai incerto destino. Dovranno frequentare l’università e conseguire una laurea triennale, poi conseguiranno una laurea specialistica per l’insegnamento che è tutta ancora da definire ma che, secondo le tesi della commissione Bertagna insediata dal ministro qualche mese fa e che ha prodotto un apposito rapporto, non sarà una laurea specialistica in Matematica, in Letteratura o in Filosofia ma una laurea didattica che è ancora misteriosa ma che, con ogni probabilità vedrà al centro dei suoi contenuti non le discipline scientifica bensì quello straordinario passepartout che è la pedagogia nelle sue varie espressioni. Dunque, per i nostri futuri insegnanti, tre anni di sapere disciplinare e due di sapere pedagogico.
Non solo: una volta superata la laurea specialistica, gli aspiranti all’insegnamento dovranno fare «specifiche attività di tirocinio di durata almeno biennale». Se facciamo i conti, la formazione è dunque di sette anni e non di sei come, ad esempio, avevano proposto negli anni scorsi le Facoltà di Lettere.

Ma l’altra cosa grave, a mio avviso, è che non si dica subito che una simile laurea specialistica dovrà essere programmata, quanto al numero degli studenti ammessi, di anno in anno secondo le esigenze della scuola giacché se non si fa così si creeranno migliaia di disoccupati abilitati in possesso di una laurea specialistica non polivalente come tutte le altre ma «pedagogica» e dunque volta soltanto all’insegnamento.
Insomma, a tirare le somme, il nuovo testo è forse peggiore del primo e c’è da augurarsi che, nel prossimo consiglio dei ministri, qualcuno lo osservi. Ma forse speriamo troppo.

  tratto da "l'Unità" del 31 gennaio 2002
 

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