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di
Nicola Tranfaglia
Non si sa ancora quando, dopo linattesa
bocciatura di quindici giorni fa, il ministro dellUniversità,
dellIstruzione e della ricerca, Letizia Moratti, presenterà
al Consiglio dei ministri il disegno di legge per la riforma dei
cicli scolastici con la speranza di farlo passare. Dopo la discussione
di queste settimane, il ministro ha già introdotto una modifica
di rilievo: allarticolo 4 si dice con chiarezza che «il
liceo ha durata quinquennale». Poiché proprio su questo
giornale si era messa in rilievo con forza lassurdità
di una durata di soli quattro anni, non cè che da compiacersene.
Peccato che si insista sui sei anni per lingresso nella scuola
primaria giacché gli studenti che seguiranno i licei usciranno
così a diciannove anni e non a diciotto come avviene nel
resto dellEuropa.
Peraltro nellarticolo 1 si afferma che lobbligo scolastico
è di dodici e non di tredici anni come sarebbe logico con
il ritorno dei licei alla durata quinquennale.
Dobbiamo pensare allora che i giovani che andranno
alla formazione professionale faranno solo dodici di formazione
e quelli destinati ai licei ne faranno tredici? La risposta allinterrogativo
per ora non è disponibile ma è preoccupante giacché
fissa obblighi differenti a seconda che si vada a scuola oppure
alla formazione professionale: e i secondi, a quanto pare, sono
i figli di un dio minore. Il testo del disegno di legge, fatto di
successivi aggiustamenti dovuti ai forti dissensi emersi nella maggioranza
e alla incerta competenza dello staff ministeriale, conserva numerose
contraddizioni interne che la lettura del testo evoca ad ogni pie
sospinto.
Ma andiamo avanti sui punti che, in questa fase, appaiono di maggior
importanza.
Larticolo 4 che regola il secondo ciclo
di istruzione e formazione stabilisce nel suo ultimo comma che «è
garantita la possibilità di passare dal sistema dei licei
al sistema dellistruzione e della formazione professionale
e viceversa, mediante apposite iniziative didattiche, finalizzate
allacquisizione di una preparazione adeguata alla nuova scelta»...
Ma larticolo nulla dice, eccetto un generico
accenno al possibile riconoscimento di crediti acquisiti nelluno
e nellaltro percorso, sulla praticabilità del passaggio.
Gli studenti, secondo il disegno di legge, dovrebbero scegliere,
al termine della secondaria di primo grado, cioè a quattordici
anni, tra laccesso al liceo e quello alla formazione professionale.
In seguito potrebbero tornare indietro dalla formazione professionale
al liceo o viceversa. Ma quale sarà il rapporto tra i contenuti
studiati nelluna e nellaltra forma di istruzione? Nulla
si dice al riguardo e lidea che tutto sia determinato in seguito
sulla base di decreti ministeriali magari concordati con le varie
regioni (visto che in base alla revisione del titolo V della costituzione
la competenza, checché dica il ministro, è passata
alla regione) appare francamente agghiacciante. La formazione professionale
è un settore arretrato e vecchio del sistema e applicare
la riforma dal prossimo anno senza aver costruito nulla di nuovo
in questo campo sembra, a dir poco temerario.
Il secondo aspetto problematico è quello
della cosiddetta alternanza scuola-lavoro al servizio delle imprese
che il disegno Moratti fissa. Il ministro nel nuovo testo prevede
che dai quindici ai diciotto anni gli studenti possano svolgere
la propria attività formativa con «periodi di tirocinio
e stage presso le imprese» alla sola condizione di convenzioni
scuola-impresa e che queste ultime (sempre, se vogliono) un contributo
alla scuola «finalizzato allerogazione di borse di studio
agli studenti».
Ora questo è un punto di grande importanza
per le nuove generazioni. Quali saranno le garanzie di cui potranno
disporre i giovani e la scuola medesima di fronte alla tentazione
delle imprese di utilizzare la forza lavoro dei quindicenni-diciottenni
per i propri obbiettivi immediati e senza tener conto abbastanza
delle esigenze formative di quei giovani? A questi interrogativi
nulla si risponde nel testo legislativo e francamente sarebbe difficile
fidarsi di un ministro che parla della scuola come di unazienda
e che ha già smantellato la scuola pubblica a vantaggio di
quella privata. Cè da sperare che il parlamento su
una materia come questa non dia delega allesecutivo come sembra
chiedere il disegno di legge. Il terzo e ultimo punto che vale la
pena richiamare, sia pure sinteticamente, riguarda la formazione
dei futuri insegnanti della scuola di ogni ordine e grado.
È noto che tra quattro-cinque anni il
nostro paese avrà bisogno di un numero assai alto di insegnanti
giacché quella che è stata definita la generazione
del 68 andrà in gran parte in pensione. Ebbene per
quelli che prenderanno il loro posto si delinea, secondo larticolo
7 del disegno di legge Moratti un assai incerto destino. Dovranno
frequentare luniversità e conseguire una laurea triennale,
poi conseguiranno una laurea specialistica per linsegnamento
che è tutta ancora da definire ma che, secondo le tesi della
commissione Bertagna insediata dal ministro qualche mese fa e che
ha prodotto un apposito rapporto, non sarà una laurea specialistica
in Matematica, in Letteratura o in Filosofia ma una laurea didattica
che è ancora misteriosa ma che, con ogni probabilità
vedrà al centro dei suoi contenuti non le discipline scientifica
bensì quello straordinario passepartout che è la pedagogia
nelle sue varie espressioni. Dunque, per i nostri futuri insegnanti,
tre anni di sapere disciplinare e due di sapere pedagogico.
Non solo: una volta superata la laurea specialistica, gli aspiranti
allinsegnamento dovranno fare «specifiche attività
di tirocinio di durata almeno biennale». Se facciamo i conti,
la formazione è dunque di sette anni e non di sei come, ad
esempio, avevano proposto negli anni scorsi le Facoltà di
Lettere.
Ma laltra cosa grave, a mio avviso, è
che non si dica subito che una simile laurea specialistica dovrà
essere programmata, quanto al numero degli studenti ammessi, di
anno in anno secondo le esigenze della scuola giacché se
non si fa così si creeranno migliaia di disoccupati abilitati
in possesso di una laurea specialistica non polivalente come tutte
le altre ma «pedagogica» e dunque volta soltanto allinsegnamento.
Insomma, a tirare le somme, il nuovo testo è forse peggiore
del primo e cè da augurarsi che, nel prossimo consiglio
dei ministri, qualcuno lo osservi. Ma forse speriamo troppo.
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